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La disputa fra realismo e nominalismo: lo spazio geometrico è un oggetto “reale”?

Lo spazio geometrico è un "oggetto" reale, o si tratta solamente di una astrazione del pensiero, di un concetto, di un "nome", cui non corrisponde niente di concreto?

Intorno a questa affascinante domanda si sono date battaglia, da sempre, due scuole di pensiero (con le loro varianti intermedie): quella realista, che risponde in senso affermativo, e quella nominalista, che risponde in senso negativo. Ne abbiamo già trattato in alcuni precedenti lavori (fra i quali ricordiamo: Il punto è per Euclide qualcosa di esteso o inesteso?», «Il mondo matematico di Platone è "reale"?» e «Le "idee in sé" di Bernhard Bolzano hanno qualcosa in comune con le idee platoniche?», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente, in data 31/12/2007, 24/10/2008 e 02/04/2014) e vogliamo tornarci ancora una volta, come ci ripromettiamo di fare altre volte, data la vastità sconvolgente delle prospettive filosofiche che tale questione dischiude e l’abissale profondità delle conseguenze che suggerisce.

E a chi pensasse che si tratta di cosa irrilevante per la vita di tutti i giorni, o anche per il sapere pratico e immediato, rispondiamo che una tale distinzione non ha, né può avere alcun significato filosofico: non esiste idea filosofica che sia irrilevante per la vita, tutt’al più esistono delle pseudo-idee, che si vestono di un’apparenza filosofica per confondere il quadro del reale e per complicare inutilmente la ricerca del vero (pseudo-idee, peraltro, sulle quali hanno costruito la loro fortuna, se così vogliamo chiamarla, un certo numero di pseudo-pensatori, magari di gran moda ieri come oggi, ma che, in effetti, non hanno contribuito ad avvicinare di un millimetro, non diremo la risposta, ma anche solo la giusta impostazione di questioni filosofiche tutt’altro che frivole o marginali, a vantaggio di pseudo-ricerche e pseudo-discussioni, buone tutt’al più per assicurare poltrone universitarie e frequenti comparsate nei salotti televisivi).

La questione se gli enti della matematica, e specificamente della geometria, siano o non siano oggetti reali, collocati in uno spazio reale, è una questione estremamente seria, anche se, ad uno sguardo superficiale, potrebbe sembrare il contrario: da essa, infatti, dipende una miglior comprensione di ciò che definiamo "reale", cosa che, evidentemente, non può non avere le più significative conseguenze anche dal punto di vista della nostra vita pratica — beninteso, se nella vita pratica ci facciamo guidare da una concezione organica e coerente di ciò che per noi è il fenomeno "vita" e se non ci accontentiamo di vivere alla giornata, causalmente, secondo il criterio estemporaneo dell’utilità o del piacere.

Notiamo, innanzitutto, che esiste una notevole confusione tra "reale" e "concreto", adoperati sovente come sinonimi, e anche tra "reale" e "visibile", del pari considerati alla stregua di sinonimi; nonché tra "reale" e "unicamente meritevole d’interesse", come se ciò che non è reale perdesse, ipso facto, qualsiasi interesse e qualsiasi significato per noi e per la nostra vita. Facciamo un esempio: la paura dei fantasmi è qualcosa di reale, indipendentemente dal grado di realtà che vogliamo attribuire ai fantasmi. Per tale paura si può morire d’infarto, cosa estremamente reale. Può darsi che nemmeno gli untori, nella Milano del 1630, fossero persone reali: ciò non toglie che alcune persone reali furono processate, torturate e condannate a morte in base a tale credenza. Ancora: pochi anni fa, un uomo è stato assolto da un tribunale, dopo aver assassinato, nel sonno, sua moglie, che dormiva nel letto accanto a lui, mentre sognava di essere impegnato in una lotta contro dei rapinatori: la giuria ritenne che il suo sogno fosse stato talmente reale, da spingerlo ad agire in quel determinato modo, e da renderlo non colpevole dei suoi atti.

Dunque: una cosa è reale non semplicemente perché esiste, ma anche se viene ritenuta esistente: o, per dir meglio, la credenza nella sua realtà la riveste di apparenze così reali, da spingere le persone a comportarsi come se si trovassero davanti a qualcosa di reale. Dunque, reale non è sinonimo di concreto o di visibile: esistono delle cose reali, ma immateriali e, perciò, invisibili: e non necessariamente delle cose illusorie e ingannevoli, come negli esempi testé fatti, ma anche delle cose realmente esistenti, ma esistenti su di un piano di realtà non materiale, pertanto, non percepibile dai nostri sensi. Tali sono gli oggetti della metafisica e della teologia: che, non a caso, i filosofi illuministi, Kant in testa, avevano ritenuto di poter archiviare una volta per tutte (Hume avrebbe voluto addirittura bruciare tutti i libri che trattavano di simili argomenti).

A questo si punto, si potrà obiettare che, se una cosa non è di ordine materiale e se non è percepibile dai sensi, nulla possiamo dire di essa, neppure se esiste o non esiste. Rispondiamo che vi sono cose che non sono materiali e che non sono percepibili con i sensi, eppure delle quali possiamo fare esperienza: il pensiero, l’immaginazione, il sentimento; la metafisica, l’arte, la religione ne sono degli esempi di facile e immediata comprensione.

Precisiamo, pertanto, che "reale" non significa che un ente esiste, di necessità, nell’ordine della realtà fisica e sensibile: vi sono altri ordini di realtà (quanti?, non lo sappiamo): significa che "esiste". Se, poi, esiste sul piano fisico o no, questa è un’altra faccenda. Evidentemente, non si può provare con mezzi fisici l’esistenza di una realtà non-fisica; si può, tuttavia, farne esperienza — esperienza non di tipo scientifico, né di tipo ordinario. Il mistico, o anche il semplice credente, immersi in preghiera, "sentono" la presenza di Dio: e questo è un fatto, un fatto reale. Potremmo aggiungere che, da questo fatto, possono derivare conseguenze anche sul piano fisico (guarigioni inspiegabili, per esempio: i cosiddetti "miracoli"): ma questo ci porterebbe su un altro binario, lontano dall’assunto principale del nostro ragionamento. Ci basta aver chiarito che "reale" non va inteso, sempre e comunque, nel senso che si dà, comunemente, al concetto di "realismo": se realismo è tenersi attaccati alla realtà delle cose, allora anche il metafisico è un realista, solo che le "cose" di cui si occupa non appartengono alla dimensione concreta e materiale dell’esistenza.

I nominalisti vorrebbero farci credere che tutto ciò è solo un gioco di parole, e che è veramente reale solo ciò che esiste nel mondo fisico: ma questa è una evidente tautologia: se si dà come premessa che l’unica realtà è quella concreta e materiale, è ovvio che da essa vada espunto tutto ciò che non può essere misurato, osservato, quantificato. Essi, però, hanno omesso di fare la cosa più importante: dimostrare l’assunto, vale a dire che la sola dimensione materiale corrisponde a ciò che, legittimamente, si può definire come "reale".

In uno dei suoi libri più chiari e affascinanti, «Problemi della scienza», pubblicato dalla Casa editrice Zanichelli di Bologna nel 1906, in piena "belle époque", il grande matematico, filosofo e storico della scienza Federigo Enriques – nato a Livorno il 5 gennaio 1871 e morto a Roma il 14 giugno 1946 — scriveva (Op. cit., 152-3):

«Contro gli accennati sviluppi [cioè le geometrie non euclidee, che mostrano come le nozioni geometriche, in quanto riferite alla realtà sensibile, non possiedono quella rigorosa certezza che ne dimostrerebbe il carattere a priori], o almeno contro l’interpretazione loro, accolta generalmente dai matematici si solleva ancora dai filosofi della scuola kantiana la tesi pregiudiziale: non potersi parlare della Geometria come di una scienza fisica, poiché lo spazio non risponde ad alcun oggetto reale, ma esprime soltanto una forma subiettiva della sensibilità. E questa tesi nominalistica si rinnova, sotto altra veste, in più recenti sviluppi critici. La controversia fra il realismo e il nominalismo geometrico, è una delle più delicate ed importanti per riguardo alla filosofia in generale. E si tratta non tanto di decidere tra due opinioni contraddite nettamente poste, ma, come spesso accade, di determinare il senso in cui le due tesi possono tenersi valide, senza contraddizione. Da un tale esame risulterà dunque chiarito come il risultati negativo, a cui conducono certe posizioni del problema dello spazio, non tolga la possibilità di un modo legittimo di considerare il realismo geometrico, cui si collega il risultato positivo di mettere in luce i fatti contenuti nella Geometria. Così alla tesi di Kant che nega l’esistenza di un oggetto reale rispondente alla parola "spazio", si oppone con Herbart il riconoscimento della realtà dei "rapporti spaziali"; e al nominalismo, recentemente sostenuto da Poincarè, che mette in luce come codesti rapporti non abbiano un significato reale indipendente in modo assoluto dai corpi, si contrappone una più precisa valutazione della Geometria, intesa come parte della Fisica. […]

Proponiamoci la domanda "che cosa sia lo spazio", e cerchiamo di rispondervi con una critica adeguata. Consideriamo un corpo qualunque: sia, p. es., un pezzo di rame, o di ferro, ecc., il quale si trovi immerso nell’aria, o nell’acqua, o in un altro ambiente qualsivoglia. La nozione di codesto corpo ci permette di distinguere certe sensazioni che si riferiscono alla materia dentro o fuori di esso. Innumerevoli casi, diversi per la costituzione materiale del corpo o del mezzo che lo contiene, presentano tuttavia qualcosa di comune, per cui astraendo dalle particolarità sensibili che riattacchiamo al rame o al ferro, all’aria o all’acqua ecc., acquistiamo la nozione di "un modo speciale di separare la materia dalla materia", che è il contenuto obiettivo dei concetti di solido e di superficie. Ora si abbia p. es. una palla sferica, capace di divenire sempre più grande. Si dice che quando essa sia divenuta infinita, avrà riempito tutto lo spazio. Non fa meraviglia che codesto procedimento trascendente, conduca ad attribuire alla parola "spazio" un senso affatto illusorio! Invero, poiché la nozione di una sfera implica un modo di distinguere le sensazioni riferentisi al di dentro e al di fuori di essa, una sfera infinita, non corrispondendo ad alcuna separazione di tal genere, non ha più alcun significato reale. Ed ecco come lo spazio, definito in tal modo, resta un nome vano senza soggetto. Occorre prolungare una siffatta critica negativa? Ci sovviene invincibilmente al pensiero, il ragionamento di Don Ferrante nei "Promessi Sposi" del Manzoni, per cui egli dimostra che il contagio della peste non può essere sostanza né accidente…

La stessa analisi svolta mette in luce che, al di fuori del senso trascendentale della parola, resta un significato fisico effettivo sui rapporti spaziali o di posizione dei corpi, il cui insieme può ancora essere definito colla parola "spazio", positivamente presa. Che invero codesti rapporti contengano una conoscenza reale, risulta da ciò che le relazioni di allineamento equidistanza ecc. corrispondono ad un accordo fisso fra certi atti volontari e le sensazioni che ne seguono. Anzi nulla di più fisso e preciso delle previsioni geometriche. […]

L’accezione della parola "spazio" che designa un corpo infinitamente grande, non è la sola che riposi sopra un procedimento di definizione trascendente, e conduca perciò ad una conclusione nominalistica. Anche i rapporti spaziali possono venire intesi trascendentalmente, sia attribuendo un senso assoluto alla loro generalità, sia accordando loro una infinita esattezza, due modi d’interpretazione che appariscono del resto legato l’uno coll’altro. La generalità della geometria consiste in questo, che. Le distinzioni spaziali non dipendono dalla materia che viene distinta, per es., come al di fuori o al dentro rispetto ad duna sfera data. Ora take indipendenza significa soltanto la coesistenza o la possibilità di tante distinzioni analoghe riferentisi ugualmente a materie diverse, non una relazione fisica assolutamente generale, propria dello spazio in sé, la quale conservi un senso all’infuori di ogni materia. La pretesa di dare alla Geometria un significato prescindente dai corpi si collega a quello di cercare nei suoi rapporti una infinita o assoluta esattezza. Imperocché, respinta codesta interpretazione della generalità geometrica, l’esattezza che spetta alla dottrina matematica, non può essere riportata al mondo fisico in una immediata applicazione di essa, da chi osservi che niun oggetto reale cade sotto i concetti matematici di "punto", "linea", "superficie", "retta", "piano", "distanza" ecc.»

Questo ragionamento del valentissimo pensatore e matematico italiano ci lascia, nondimeno, alquanto perplessi. La geometria, in quanto scienza esatta, si pone come obiettivo precisamente quello di prescindere dalla realtà fisica dei corpi che sono oggetto del suo studio, così come dello spazio che li racchiude. La geometria nasce appunto dalla constatazione della imperfezione degli oggetti reali da un punto di vista matematico, e , dunque dalla necessità di costruire un sistema di logica concettuale che vada oltre tale imperfezione: un sistema basato su enti perfetti e assoluti. Non capiamo come ciò si possa ascrivere a sua "colpa" o a suo "errore": la geometria è questo e non altro. Se essa si limitasse allo studio dei corpi concreti, non sarebbe una scienza, ma una pratica empirica, o meglio una serie di pratiche empiriche, come, ad esempio, l’agrimensura, o la geodesia, e simili.

Non c’è niente di male, dunque, nella volontà degli studiosi di geometria di dare un valore assoluto e perfetto agli oggetti della loro scienza e allo spazio che li avvolge: al contrario, questo è il presupposto perché la geometria sia quello che è, vale a dire una scienza esatta relativa alle figure, ai ciorpi e ai loro movimento nello spazio. Quei corpi, quei movimenti, quello spazio, sono "reali"? Certo che sì: ma di un ordine di realtà che non è quello del piano fisico e materiale dell’esistenza. Ne deriva che si tratta di una realtà puramente virtuale, di una realtà, per così dire, di secondo ordine? Ma niente affatto: è, semplicemente, un’altra realtà, rispetto a quella del mondo fisico e materiale, per cui un triangolo, un cerchio, un punto della geometria non troveranno mai il loro esatto corrispondente nel mondo sensibile.

Ancora una domanda: ammettere l’esistenza di questa realtà "parallela", anzi, di questa serie di realtà parallele (oltre a quella della geometria, vi sono, come già detto, quelle del sentimento, del pensiero, della religione, dell’arte) significa cadere nel puro nominalismo, cioè ridurre l’ambito di quelle realtà ad un puro fatto concettuale, ad una pura astrazione, cui corrispondono, bensì, delle parole, e anche delle idee, ma non degli oggetti "reali"? Certamente no: perché abbiamo visto che "reale" non significa che una cosa esista, o che esista unicamente, sul piano della percezione fisica, sul piano della materia.

Gli scienziati di mente più aperta, e specialmente i fisici, hanno, del resto, abbandonato da tempo l’idea, ingenua ma ancora saldamente radicata, che lo stesso concetto di "materia", intesa come qualcosa di unicamente solido, corposo, irriducibile ad altro da sé, appartiene ormai al passato: una siffatta materia non esiste e non è mai esistita, se non nei pregiudizi di un certo numero di persone. Materia ed energia sono semplicemente due facce della stessa realtà: laddove il concetto di "energia", come si può intuire facilmente, è fisicamente percepibile (almeno ad alcune condizioni), ma non appartiene, in se stesso, ad un piano di realtà materiale. Esattamente come le visioni del mistico, o l’ispirazione dell’artista, o l’intuizione del matematico: ciò che essi sperimentano è un altro livello di realtà, non fisico anche se, talvolta, fisicamente percepibile: un livello assoluto, del quale riportano solo frammenti imperfetti, allorché si provano a tradurre le loro esperienze nella dimensione ordinaria dell’esistenza.

Ma, potrebbe insistere un nostro eventuale contraddittore, da tutto quanto si è detto, ne consegue che gli oggetti della geometria e lo spazio della geometria esistono realmente, da qualche parte, in qualche modo, fuori di noi che li pensiamo, fuori dei nostri calcoli e dei nostri assiomi e dei nostri teoremi? Che esistono in se stessi e per se stessi, che sono sempre esisti e che sempre esisteranno, indipendentemente dall’intelligenza che li può cogliere, dall’esistenza stessa del mondo fisico, nella quale noi ci troviamo a vivere? Aveva dunque ragione Platone, nel postulare l’esistenza delle Idee pure, delle quali le cose di quaggiù non sarebbero che copie più o meno sbiadite, più o meno imperfette?

Eh, questa sì che è una domanda imbarazzante per chiunque, in quanto è impossibile, a nostro avviso, rispondere con un "sì" o con un "no", e sostenere in maniera convincente, sul piano concettuale, una tale risposta. Preferiamo conservare il riserbo: il che non significa che non abbiamo una nostra opinione in materia. Forse, dopotutto, aveva ragione Wittgenstein, allorché ci esortava a tacere quello che non si può dire… il che non esclude che le cose, a chi le sa vedere, parlino da sole, a un certo punto, per mezzo del loro silenzio fragoroso…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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