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Il Vallo di Severo: un enigma archeologico fra le colline e i boschi del Galles

È possibile che un vallo militare romano, una grande opera di fortificazione, estesa per oltre duecento chilometri da costa a costa, da un mare all’altro — in questo caso, dal Mare d’Irlanda, a Nord, al Mare Celtico, a Sud — sia passata inosservata, per così dire, sia all’occhio degli storici, sia a quello, raramente meno acuto, degli archeologi; che sia, in un certo senso, scomparso nelle pieghe del tempo e della memoria, che si sia nascosto tra le colline e i boschi di una regione bellissima, ma rimasta un po’ ai margini dello sviluppo industriale di una grande nazione dell’Occidente, come la Gran Bretagna?

Posta così, sembrerebbe una domanda incongrua, per non dire assurda. Può passare inosservata, e venire così dimenticata, una torre d’avvistamento, o una villa, o, magari, può rimanere nascosto, un ponte, un breve tratto di acquedotto, forse anche un villaggio; ma un’opera delle dimensioni che abbiamo detto, parrebbe che non possa, puramente e semplicemente, sparire. Riesce difficile anche solo immaginare una cosa del genere: è troppo, anche per la fantasia d’un poeta o di un romanziere; figuriamoci per quella di un archeologo o di uno storico di professione.

Tale sembra essere il caso di un terzo vallo, dopo quelli, famosi e ancor oggi ben riconoscibili, di Adriano e di Antonino, costruiti nel corso del II secolo nel Nord dell’Inghilterra, a protezione dai barbari della Caledonia, Pitti e Scoti; un terzo vallo, di cui parlano talune fonti antiche, attribuito alla volontà dell’imperatore Settimio Severo e risalente, dunque, ai primi anni del III secolo e costruito a protezione dalle tribù dell’odierno Galles, sul confine Ovest della Britannia romanizzata, da un capo all’altro di quell’ampio arco di terra che si protende verso ponente, grosso modo fra Chester e Bristol.

La fonte principale relativa all’esistenza di quella grande opera militare è la «Historia Brittonum», composta nel IX secolo da un monaco gallese chiamato Nennio, e relativa all’oscuro perido storico che va dalla partenza definitiva delle legioni romane, richiamate da Stilicone per fronteggiare altri pericoli diretti al cuore dell’Impero, durante il regno di Onorio (inizio del V secolo) e l’epoca delle invasioni di Sassoni, Angli e Juti sulle coste orientali dell’isola. Il periodo che tratta, come si è detto, è molto oscuro; da esso emergeranno poi i sette regni della cosiddetta Eptarchia anglo-sassone, nella prima metà del X secolo (Kent, Wessex, Essex, Sussex, Mercia, Anglia orientale e Northumbria), ma l’opera di Nennio si ferma prima. Si tratta del primo testo che fa riferimento alla figura di Re Artù – il quale verso il 500, avrebbe affrontato e sconfitto gli invasori sassoni nella battaglia del Monte Baldon -, personaggio che, a lungo, è stato ritenuto leggendario, anche perché su di esso si incentra il ciclo dei romanzi cortesi-cavallereschi del ciclo bretone, fra i quali «Lancillotto, o il Cavaliere della carretta» di Chretien de Troyes, scritto, in lingua d’oil, fra il 1170 e il 1180.

In realtà, oggi non siamo più tanto sicuri che Re Artù sia un personaggio puramente leggendario, o prevalentemente leggendario; alcuni studiosi, al contrario, anche se tuttora in minoranza, sono convinti che si tratti di una figura storica, della quale si sarebbe poi impossessata la leggenda, per abbellire e ingrandire le sue imprese. Sia come sia, il fatto che non vi sia concordia nel ritenere storica la figura di Artù, e la vaghezza e scarsità di notizie della storia di Nennio, ovviamente a paragone dei parametri storiografici moderni (o anche solo di quelli della storiografia greca e romana, da Erodoto a Tacito) ha forse giocato la sua parte nel far sì che la notizia relativa al terzo vallo, quello, appunto, di Settimio Severo, sia stata scarsamente considerata.

E del resto, dov’era questo vallo? Come mai non se ne vedevano i resti, nemmeno le tracce, a differenza di quanto accade per i due valli, ben noti, dell’Inghilterra settentrionale? Si era, quindi, fino a pochi anni fa, piuttosto propensi, negli ambienti accademici, a tenere in scarsa considerazione la notizia relativa al vallo di Severo, o, magari, a ritenerla un "doppione" di uno dei valli sicuramente esistiti, quello di Adriano e quello di Antonino Pio. Certo, la cosa era un po’ strana, tanto più che un altro accenno ad un terzo vallo, realizzato durante il regno di Settimio Severo, si trova nella «Vita di Severo» contenuta nella «Historia Augusra»; e la stranezza era accresciuta dal fatto che Nennio, così esplicito quando parla di tale opera, non fa mai menzione, invece, né del vallo Vallo di Adriano, né di quello di Antonino.

Le cose stavano a questo punto, quando due studiosi non ortodossi, ma non per questo meno seri, Steve Blake e Scott Llody, sono giunti ad una soluzione semplicissima e geniale dell’arcano, peraltro non condivisa e non accettata, per adesso, dalla maggior parte degli storici di formazione accademica, e tuttavia destinata, crediamo, ad essere seriamente presa in considerazione dagli studiosi nei prossimi anni, proprio per la sua eleganza e, diremmo, per la sua evidenza. Il Vallo di Severo non è mai stato ritrovato per la ragione che esso esiste ed è tuttora visibile, ma coincide, in buona sostanza, con un’altra opera, ritenuta assai più tarda:, o meglio, con due opere di fortificazione altomedievali: il Vallo di Offa, costruito, verso il 770-790, dal re omonimo, per segnare i confini tra la Mercia ed il Galles, e lungo oltre 200 km.; e il Vallo di Wat, parallelo alla sezione settentrionale del Vallo di Offa, lungo circa 64 km., sempre al confine tra Inghilterra e Galles.

In altre parole, il re Offa di Mercia, che voleva proteggere il lato occidentale del suo regno dalle incursioni dei Celti, avrebbe fatto costruire un vallo difensivo, sfruttando una preesistente struttura romana, la quale sarebbe stata, appunto, il Vallo di Severo, di cui parlano sia Nennio, sia la «Historia Augusta»; nel tratto più settentrionale, poi, il Vallo di Severo coinciderebbe, in sostanza, con il Vallo di Wat, che, secondo alcuni storici, venne costruito, appunto, dai Rom,ani, al principio del III secolo, anche se popi le sue origini si persero nel ricordo ed esso fu attribuito alla mano di ignoti costruttori medievali (l’etimologia è incerta, ma Wat potrebbe derivare da Waden, che, in antico sassone, era il dio Odino, in tedesco Wotan).

Scrivono, dunque, Steve Blake e Scott Lloyd nel loro libro «Alla scoperta del mistero di Re Artù. Le chiavi di Avalon» (titolo originale: «The Keys to Avalon», Element Books Limited, 2000; traduzione dall’inglese di Franco Ossola, Roma, Newton Compton Editori, 2006, pp. 79-87):

«Confessiamo che aver intuito che l’invasione sassone avvenne in tutt’altri luoghi e modi rispetto a quelli che la Storia canonica ci propone, ci parve una sorta di rivelazione, una conquista davvero straordinaria. Ma ancora non potevamo immaginare che il lavori di ricostruzione dei luoghi che videro le imprese di Re Artù avevano in serbo per noi molte altre grosse sorprese. Una fra le più interessanti è stata la riscoperta del dimenticato Vallo di Severo, una fortificazione che storia e tradizione hanno confusamente sempre fatto confluire in quella di due altre simili, il Vallo di Adriano e quello di Antonino, ma collocate in luoghi diversi e lontani, nel nord dell’Inghilterra. Come ha potuto un muraglione costruito dai Romani e lungo quasi 200 km scomparire del tutto dai testi di storia e archeologia? Ancora una volta la risposta sta nel dato di partenza, completamente errato: invece di riguardare l’intera isola britannica, i riferimenti della letteratura giunti fino a noi devono essere riportati a una zona alquanto più ristretta, vale a dire l’antico regno del Prydein, l’originale regno di Britannia. […] Il primo riferimento sta nella parte iniziale dell’opera di Nennio ["Historia Brittonum"], quando lo storico racconta della costruzione di una muraglia o grande argine chiamata Guaul ad opera del grande imperatore e generale romano Settimio Severo. Facendo seguito alle vittoriose campagne nel’estrema parte orientale dell’impero, Severo aveva deciso di andare in Britannia per debellare le tribù sempre ribelli, ma era morto a York nel 211 d. C.: "Per salvaguardare e difendere le province sottomesse dagli attacchi dei barbari, egli [Severo] fece costruire un muro da mare a mare proprio nel cuore della Britannia, lungo più di 132 miglia [212 km] che in lingua britannica viene chiamato Guaul". Per meglio comprendere questo riferimento prezioso alla fortificazione fatta erigere da Severo, dobbiamo ricondurci a un testo latino del IV secolo dal titolo "Scriptores historia Augusta". Pochissimi sanno che questo testo costituisce una delle fonti più utili in merito alla conoscenza di chi fece costruire il Vallo di Adriano e Antonino, ma soprattutto ci ricorda che ce n’era un terzo, quello di Severo.

VALLO DI ADRIANO: "Egli [Adriano] si mosse verso la Britannia. Qui riuscì a ricomporre molte situazioni difficili e fu il primo a dare il via alla costruzione di un muro o argine, lungo almeno 8 miglia [12 km], per separare il territorio romano da quello dei barbari."

VALLO DI ANTONINO: "Antonino condusse molte battaglie, anche tramite i suoi generali. Per esempio, Lollio e Urbicio furono coloro che sottomisero i Britanni a suo nome e una volta ricacciati i barbari diede ordine di costruire un altro muro, un grande terrapieno."

VALLO DI SEVERO: "Egli [Severo] fortificò la Britannia, facendo costruire un muro di terra che attraversava l’intera isola [regno] dal confine di un oceano all’altro" (Hist. Aug., XVIII, 2).

È chiaro che l’autore ben sapeva dell’esistenza di tre diverse fortificazioni. Le prime due che servivano per separare fisicamente i territori occupati dalla dominazione romana da quella dei barbari, il terzo semplicemente come opera di difesa della Britannia, visto che non si cita la minaccia dei barbari. Compulsando le fonti letterarie più antiche, abbiamo scoperto una cosa interessante: l’unico vallo cui si fa sempre e solo riferimento è quello di Severo. Quelli di Adriano e Antonino non compaiono mai in Nennio, Gilda e Beda (il quale, detto per inciso, non doveva viere tanto lontano proprio dal vallo di Adriano). Così l’opinione generale ha spinto a credere che il presunto Vallo di Severo in realtà non fosse altro che un rimettere mano, per rinforzare e solidificare, a uno degli altri due siti a nord del paese; un’idea che in qualche modo conciliava le fonti originali e ciò che raccontavano, tenuto anche conto della totale di qualche prova di ordine archeologico. In tal modo, per non essendo corroborata da alcuna prova, questa ipotesi a forza di essere battuta si è imposta come definitivamente valida, classico esempio di come anche le cose non vere riescano egualmente a proporsi come teoria accettata una volta che l’opinione pubblica e accademica decida di imporla come canonica. Invece i testi parlano chiaro: esisteva un TERZO muro o vallo costruito dai Romani nelle isole britanniche. […]

Tirando le somme, da quanto ricavato dalla lettura dei testi romani, sassoni e gallesi, siamo in grado di puntualizzare alcune conclusioni: 1) Severo fece costruire un terrapieno/vallo; 2) questa fortificazione andava da mare a mare; 3) era lunga 212 km; 4) divideva le regioni del Deifyr e dell’Alban. […] Tutti coloro che conoscono il nord del Galles sanno dell’esistenza di due famosi fossati nei dintorni di Oswestry. Il più corto si snoda per circa 60 km dal centro di Melsbury, a sud di Oswestry, fino all’Abbazia di Basingwerk sull’estuario del Dee. La tradizione lo fa risalire all’VIII sec. ed è oggi noto come fosso o argine di Wat. Il secondo, decisamente più lungo, corre per più di 220 chilometri da Chepstow, all’estuario del Severn, a Treuddyn nel Flintshire ed è conosciuto come argine di Offa. […] Ne nasce la questione: se questo era un tempo il Vallo di Severo, come mai è diventato il fosso di Offa? La prima citazione su quest’altra configurazione geografica si trova nell’opera "Vita di re Alfredo" dell’893 in cui si legge: "Viveva tanto tempo fa nella Mercia un re potente… che si chiamava Offa, il quale diede ordine di scavare da mare a mare un grande fossato per dividere la Britannia dalla Mercia […] Approfondendo per l’ennesima volta il testo di Nennio siamo riusciti a scovare un dato davvero elettrizzante. In un manoscritto irlandese compilato nell’XI secolo e intitolato "Leabhar Breathnach" — una sorta di versione gaelica della "Historia Brittonum" — leggiamo quanto segue: Severo stato il terzo imperatore a venire in Britannia e si deve a lui la realizzazione del fosso sassone contro le minacce dei barbari, come i Cruitanni [Pitti], una fortificazione lunga 130 miglia [circa 210 km] che presso i Britanni aveva il nome di Guaul. […] Da tutto quanto detto e posto in evidenza, ci sentiamo di affermare che il Vallo di Severo venne costruito all’epoca del suo regno e corrisponde alla fortificazione che noi oggi conosciamo come fosso o argine di Offa. […] Purtroppo — e non ci stancheremo mai di ripeterlo — la storia e le teorie che ne conseguono relative al Medioevo britannico poggiano tutte sulla base di un errore di fondo: ritenere che quando si parla del regno di Britannia si intenda l’intera isola, che Kaint sia il Kent attuale e che il Vallo di Severo non sia mai esistito ma corrisponda a quello, ben più noto, voluto dall’imperatore Adriano.»

Oggi, ripetiamo, la questione del Vallo di Severo, così come lo hanno ricostruito Blake e Lloyd, è ancora aperta. Molti studioso sono disposti, anzi, ormai sono propensi, ad attribuire alle legioni di Settimio Severo il Vallo di Wat; ma parecchi non si spingono fino a condividere l’opinione che il Vallo di Severo coincida, in buona sostanza, con il molto più lungo Vallo di Offa, che, come abbiamo detto, viene abitualmente datato all’VIII secolo. La questione, pertanto, necessita di ulteriori approfondimenti e scavi archeologici, che permettano di chiarire, confutandola o accogliendola, l’ipotesi dei due studiosi inglesi. Sta di fatto che alcuni dati specifici, e specialmente la lunghezza dell’opera, darebbero ragione a Nennio, perché il vallo di cui parla è molto più lungo del solo Vallo di Wat, e corrisponde, invece, a quello di Offa; e ciò potrebbe suonare a conferma della intuizione di Blake e Lloyd.

Certo, si tratta di un enigma affascinante. Sono oltre le cose che non sappiamo, dal punto di vista storico e archeologico, anche là dove credevamo di aver acquisito un quadro di conoscenze relativamente ampio ed organico. E, se questo è vero per un periodo storico relativamente recente, in confronto alle remote ed oscure epoche preistoriche; e se è vero per una nazione, come la Gran Bretagna, che è stata setacciata in lungo e in largo da studiosi molto agguerriti, e ciò non da ieri, ma da almeno un paio di secoli, si può facilmente immaginare quali e quante sorprese ci riserveranno, in futuro, altre regioni d’Europa (e d’Italia) e altre epoche passate.

Quanti misteri rimangono ancora da chiarire, quanti nodi da sciogliere, quante sorprese possono ancora venrici dai nuraghi della Sardegna, alle necropoli etrusche, alle sculture rupestri della Val Camonica, agli sconcertanti megaliti dell’isola di Malta, e cento e cento altri! E pensare che il grande pubblico, e anche una parte del mondo accademico, credono ormai che tutto, o quasi tutto, sia stato chiarito una volta per tutte, e che praticamente non vi sia più spazio, almeno in Europa, per nuove, entusiasmanti scoperte, o per formulare ipotesi che potrebbero costringerci a rivedere il quadro complessivo delle nostre orgogliose certezze!

La verità è che noi, della maggior parte della storia antica (e forse non solo di quella), conosciamo solo la punta dell’iceberg); ma quel che rimane da esplorare e da portare alla luce è immensamente più grande di ciò che attualmente sappiamo, o che — complici una certa diffidenza e una certa pigrizia intellettuale, oltre a una inveterata tendenza a chiuderci nella illusoria sicurezza di ciò che riteniamo definitivamente acquisto – crediamo di sapere…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di micheile henderson su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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