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Valore dell’intuizione nel progresso scientifico: il caso di P. E. Botta e la riscoperta di Ninive

Il progresso delle conoscenze scientifiche non è sempre dovuto a metodi rigorosi, a pianificazioni razionali, a ferree deduzioni logiche, come s’immagina gran parte del pubblico dei non specialisti, e come vorrebbero fargli credere certi divulgatori scientifici che poco sanno e meno capiscono di scienza, se non che essa, ai loro occhi, è il Dio infallibile da servire ciecamente, ottusamente, dogmaticamente. Spesso, più spesso di quel che non si creda, esso dipende da audaci intuizioni, da geniali improvvisazioni, da slanci non razionalmente fondati, ma piuttosto ispirati da una specie di sesto senso, quasi di divinazione attinta da un piano di realtà soprasensibile. Questo non significa che la conoscenza scientifica proceda per mezzo di sistemi poco scientifici; semplicemente, che dobbiamo considerare il concetto di "scienza" in maniera meno rigida, meno assoluta, meno astratta di come pretendeva la filosofia del Positivismo e come pretendono, dopo di essa, tutte le filosofie neopositiviste, che a quella si ricollegano idealmente.

Un caso alquanto emblematico è quello dell’archeologia. Il progresso delle nostre conoscenze mediante gli scavi che hanno riportato alla luce le città, le fortezze, le tombe del lontano passato, sovente si è realizzato mediante inaspettati colpi di fortuna, felici e improvvise intuizioni, circostanze impreviste e imprevedibili, le quali, pur se agli studiosi va il merito d’averle sapute cogliere al volo, certo non sono state dovute alla loro azione, o alla loro intelligenza, o al loro lavoro. L’archeologia, un po’ come la meteorologia, possiede, certamente, una metodologia e delle conoscenze di ordine generale, rispondenti a un quadro complessivo scientificamente delineato; parecchio, però, in essa è soggetto a fattori imponderabili, di molto le sue supposizioni e le sue previsioni possono sbagliare. Se il meteorologo può sbagliare nelle previsioni, o meglio, nei tempi delle previsioni atmosferiche, l’archeologo può sbagliare sulla individuazione dei siti ove effettuare gli scavi: affondare la pala in una certa collina, e non in un’altra, dipende da un insieme di fattori non sempre rigorosamente scientifici, se con quest’ultimo termine si intende qualche cosa che risponde a delle leggi sempre verificabili e a delle misurazioni sempre quantificabili.

Quindi, l’archeologia è una scienza, certamente; ma lo è nel senso che i Greci attribuivano alla parola "epistéme", conoscenza certa, contrapposto alla "doxa", all’opinione; non nel senso che sia assolutamente infallibile, assolutamente prevedibile e assolutamente rigorosa. Bisogna procedere, in essa, un po’ a tastoni, a naso, a buon senso: l’archeologo che decide di iniziare gli scavi in un determinato luogo, anziché in un altro, confida certo nella sua preparazione, nello studio delle fonti letterarie, nella considerazione di eventuali rinvenimenti di manufatti; ma non ha la certezza assoluta di trovare quello che cerca, prima di mettersi all’opera. Procede un po’ alla cieca, almeno all’inizio, e almeno in un buon numero di casi. Si affida anche, in una certa misura, alla buona sorte: formula voti alla Dea bendata, come i comuni mortali (se pure non vogliamo dire, perché il paragone certo lo offenderebbe non poco, come colui che ha scommesso il suo denaro, puntando sopra certi numeri della lotteria).

La terra che ricopre, nel corso dei secoli e dei millenni, le vestigia delle antiche civiltà, e magari le conserva beffardamente, pressoché intatte — come nel caso di Pompei ed Ercolano — sotto la lava solidificata di una eruzione vulcanica che provocò la morte di tutti gli abitanti, è una custode gelosa e anche un po’ capricciosa: quando lascia andare qualcosa di ciò che nasconde nel suo grembo, quando solleva il velo e permette agli uomini di scavare vittoriosamente nelle sue pieghe, e di riportare alla luce del sole quel che giaceva sepolto e dimenticato nel cono d’ombra dei secoli trascorsi, sovente lo fa in maniera capricciosa, imprevedibile: e l’archeologo che "scommette" sulla presenza di resti significativi in un certo luogo è simile, da questo punto di vista, a un geologo che "scommette" sulla presenza di un giacimento di petrolio lì dove ha deciso di effettuare delle trivellazioni, o a un paleontologo che "scommette" sulla presenza di fossili nel terreno profondo, magari effettuando un carotaggio nel ghiaccio dell’Antartide. Ma c’è in lui anche qualcosa del rabdomante che va in cerca dell’acqua mediante il suo bastoncino forcuto; anche se, naturalmente, questo è un paragone che non si dovrebbe fare nei salotti buoni della cultura neopositivista oggi imperante, perché quegli archeologi che si sentono puramente e semplicemente degli "scienziati" ne sarebbero offesi a morte, e lo respingerebbero con autentica indignazione.

Ma, per non rimanere troppo nel vago, facciamo un esempio concreto che illustri la nostra tesi circa il valore dell’intuizione nell’ambito della scienza archeologica: quello della scoperta dell’antica civiltà assira, e, in particolare, dell’antica capitale di quell’impero, Ninive, la grande città sulla riva sinistra del Tigri, in Mesopotamia, il cui nome ricorre tante volte nei libri della Bibbia e anche nelle pagine degli storici greci, ma che, già ai tempi di Alessandro Magno, era stata pressoché dimenticata, cancellata dal tempo, dalla sabbia, dal vento. Uno strano destino per colei che aveva dominato gran parte del Medio Oriente antico, e che era stata il simbolo stesso della potenza politica e militare, imponendo il suo duro giogo guerriero su tanti popoli e regioni, finché, bruscamente, nel 612 era stata presa e distrutta da una coalizione di Medi e di Caldei, subendo la sorte crudele che aveva inflitto a numerose città straniere.

Ninive fu riscoperta verso la metà dell’Ottocento per merito di un archeologo dilettante, Paul Émile Botta (Torino, 1802-Achéres, 1870), un italiano naturalizzato francese, figlio dello storico e uomo politico italiano Carlo Botta (San Giorgio Canavese, 1766-Parigi, 1837). Egli nel 1843 si trovava a Mossul, nell’Alta Mesopotamia, in veste di rappresentante diplomatico della sua patria d’azione presso le locali autorità ottomane, allorché si mise a scavare là dove, effettivamente, giaceva sepolta l’antica Ninive, di cui molti sospettavano l’esistenza, ma che, ancora, non si era decisa a rivelare agli uomini il segreto della sua ubicazione, insieme ai suoi tesori sepolti. Di fatto, il successo arrise a Botta non nel luogo "giusto", ossia la località di Kuyundshik, che corrisponde al sito di Ninive, ma in quello "sbagliato", cioè a Khorsabad, corrispondente al sito di Dur Sarrukin, 20 km. a nord-est. Egli aveva invano scavato, per un anno, a Kuyundshik; fu solo quando un informatore locale gli segnalò la presenza di promettenti reperti a Khorsabad, che egli diede ascolto a quella indicazione e trasferì il sito principale degli scavi, venendo ricompensato dalla scoperta di notevolissimi resti di edifici e di sculture estremamente suggestive, quali mai erano apparse allo sguardo di un Europeo: la testimonianza della potente arte degli Assiri, con i suoi straordinari, possenti tori alati, con le sue imponenti figure umane dal volto barbuto, con i suoi sovrani ritratti in tutta la loro maestà e con le vivacissime, realistiche scene di caccia al leone su bassorilievo, nelle quali è raffigurata la fiera ruggente che si accascia, trafitta dalle frecce scoccate dall’arciere regale.

Gli scavi di Khorsabad accesero la fantasia dei contemporanei, spalancarono a Botta le porte della celebrità e rivelarono al mondo le meraviglie dell’antica Assiria, anche se la città di Ninive vera e propria venne pienamente messa in luce solo nel 1847, un anno dopo che Botta aveva inviato a Parigi i tesori da lui dissepolti, e fu dovuta principalmente al suo continuatore, l’inglese Sir Austen Henry Layard (Parigi, 1817-Londra, 1894), al quale si deve la scoperta, fra l’altro, del palazzo e della famosa biblioteca di Assurbanipal.

La storia della riscoperta di Ninive, l’antica capitale degli Assiri, è stata magistralmente riassunta da un grande divulgatore scientifico tedesco, Kurt Wilhelm Marek (nato a Berlino nel 1915 e morto ad Amburgo nel 1972), noto in tutto il mondo per i suoi splendidi, avvincenti libri sulla storia dell’archeologia, dal più famoso dei quali traiamo la seguente pagina (C. W. Ceram, «Civiltà sepolte. Il romanzo dell’archeologia»; titolo originale: «Götter, Gräber, und Gelehrte. Roman der Archäologie», Hamburg-Stuttgart, Rowholt, 1949; traduzione dal tedesco di Licia Borrelli, Torino, Einaudi, 1955, pp. 250-253):

«Ancora negli anni di gioventù, Paul Émile Botta fece un viaggio intorno al mondo. Nel 1830 entrò come medico al servizio di Mohammed Alì e partecipò ad una spedizione egiziana a Sennaar (dove collezionò gli insetti). Nel 1833 il governo francese lo nominò console ad Alessandria. Egli fece un viaggio in Arabia e scrisse un voluminoso libro sull’argomento. Nel 1840 fu nominato agente consolare a Mossul. Questa città è situata sul Tigri superiore. E quando il sole tramontava e Botta fuggiva l’afa dei bazar per una cavalcata ristoratrice, egli osservava le strane colline… Non era stato il primo a restarne colpito. Altri viaggiatori, Kinneir, Rich, Ainsworth, avevano già formulato il sospetto che esse celassero delle rovine. […]

[Botta] era medico e si interessava di scienze naturali. Era diplomatico e sapeva utilizzare le relazioni sociali. Non era però archeologo. Per il suo futuro compito aveva a disposizione la conoscenza della lingua degli indigeni, l’abilità acquistata nel corso dei suoi viaggi nell’intrattenere rapporti amichevoli coi fedeli del profeta, e una illimitata capacità lavorativa, che non era stata spezzata neppure dal clima micidiale dello Yemen o dalla paludosa depressione del Nilo. Con tali premesse Botta si mise al lavoro. Al nostro esame retrospettivo risulta che egli non procedette in base a un piano prestabilito o ad una audace ipotesi, ma che fu semplicemente spinto da una vaga speranza mista a curiosità. Difatti egli stesso rimase altrettanto sorpreso del proprio successo quanto il mondo intero. Ogni sera, dopo aver chiuso l’ufficio, egli esplorava con una costanza senza uguali la campagna intorno a Mossul. Si fermava ad ogni casa, visitava una capanna dopo l’altra, per porre sempre le stesse domande: Avete antichità? Vecchie pentole? Magari un antico vaso? Dove avete preso i mattoni con cui è fabbricata questa stalla? Donde provengono questi cocci di argilla con strani segni cuneiformi? Egli comprava tutto quanto poteva. Ma quando supplicava gli uomini di mostrargli il luogo donde provenivano quei pezzi, quelli si stringevano nelle spalle e spiegavano che Allah era grande e ne aveva sparso un poco dappertutto e bastava solo guardare intorno. Botta vide che non riusciva, interrogando gli indigeni, a identificare una località di scavo particolarmente ricca, e si decise ad affondare la vanga nella prima collina che gli capitò sotto mano, presso Kujundshik. Ma non era la giusta. Almeno così parve a Botta, in questo primo anno di scavo. Che proprio qui si nascondesse un castello di Assurbanipal (il Sardanapalo dei Greci), doveva scoprirlo un altro. Botta ci scavò invano. Bisogna cercare di immaginare che cosa significhi non scoraggiarsi di fronte a sempre nuovi e vani tentativi, andare avanti senza essere sostenuto da nessuna prova sicura, ma spinto solo dalla vaga idea che queste colline dovevano pur contenere del materiale degno di essere scavato, giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese, e non trovare altro che qualche tegola sbocconcellata ricoperta di segni illeggibili, o qualche torso di scultura, ma ridotto in tanti pezzi da risultare irriconoscibile, o talmente primitivo da non poter alimentare nessuna ipotesi. Passò così un anno intero. Non c’è da stupirsi che Botta, al termine di quest’anno, dopo le innumerevoli notizie false degli indigeni, non prestasse fede a un arabo chiacchierone che con un linguaggio colorito venne a parlargli di una collina ricca di tutte le meraviglie che il francese cercava. Non c’è da stupirsi che Botta volesse cacciarlo dal campo, quando l’arabo, con sempre maggiore insistenza, disse di venire da un villaggio lontano, e di aver udito del desiderio del francese, e di volerlo aiutare perché amava i Francesi. Cercava Botta mattoni con iscrizioni? Nel suo paese, a Khorsabad, ce n’erano a bizzeffe. Lui lo sapeva, perché di tali mattoni aveva costruito il proprio focolare e tutti avevano fatto lo stesso nel suo villaggio da anni e anni. Botta non riusciva a liberarsi di quest’uomo, e allora spedì con lui alcuni dei suoi. C’erano sedici chilometri di distanza. Diede precise istruzioni sul da farsi. Non si poteva mai sapere… Questa piccola spedizione rese immortale il nome di Botta nella storia dell’archeologia. Il nome dell’arabo non è ricordato. Fu Botta che riportò alla luce i primi resti di una civiltà fiorita per quasi due millenni e poi sepolta sotto la nera terra e dimenticata dagli uomini per più di due millenni e mezzo. Una settimana dopo che Botta aveva inviato i suoi uomini in ricognizione, arrivò un messaggero tutto eccitato e riferì che appena avevano affondato la vanga erano venute alla luce delle mura. E appena queste erano state ripulite del sudiciume più grosso, erano apparse iscrizioni, figure, rilievi, animali spaventosi… Botta balzò a cavallo e accorse sul luogo. Un paio d’ore dopo era già rannicchiato in una trincea di scavo e disegnava le più singolari figure, uomini barbuti, fiere alate, forme lontane da tutto quanto si poteva immaginare, come non ne aveva viste nemmeno in Egitto e come mai si erano mostrate ad occhio europeo. Qualche giorno più tardi tutti i suoi operai furono richiamati da Kujundshik. Furono messi in azione picconi e badili. Venivano alla luce mura e sempre nuove mura. E allora Botta non poté dubitare di aver scoperto, se non l’intera Ninive, almeno uno dei più splendidi palazzi degli antichi re assiri. E venne il momento in cui non poté più tener per sé questa convinzione, e proclamò la notizia al mondo, alla Francia, a Parigi. "Credo — egli scrisse con orgoglio -, e i giornali pubblicarono la dichiarazione grandi titoli — di essere il primo ad aver scoperto costruzioni che si possono attribuire a buon diritto al periodo in cui Ninive fiorì!»

Del resto, siamo già abituati, almeno a partire dall’opera fondamentale dell’epistemologo Thomas Kuhn, «La struttura delle rivoluzioni scientifiche» (Chicago, University Press, 1962), a pensare al progresso scientifico come ad un percorso non già lineare, bensì fortemente discontinuo, caratterizzato da "salti" più o meno bruschi e apparentemente improvvisi. In realtà, essi sono preceduti da un graduale accumulo di elementi "anomali" rispetto al paradigma scientifico dominante, i quali, sommandosi, finiscono per mettere in crisi il paradigma stesso e spingono alcuni scienziati a formulare e proporre non qualche "aggiustamento" parziale (come poteva essere la teoria degli epicicli per spiegare le anomalie nelle orbite dei pianeti, e dunque "rimediare" all’insufficienza del modello aristotelico dell’universo), ma un vero e proprio paradigma "nuovo", incompatibile col precedente non solo quanto ai contenuti, ma anche quanto alle premesse filosofiche, alle metodologie, alla prospettiva culturale di fondo e persino allo stesso linguaggio.

Ora, nei fondatori di nuovi paradigmi scientifici si nota, secondo Kuhn, una notevole disinvoltura a livello strettamente scientifico, almeno secondo i canoni della scienza collaudati e riconosciuti nel "vecchio" paradigma. Galilei che afferma risolutamente il modello eliocentrico dell’Universo, pur senza averne le prove (l’unica prova addotta, il fenomeno delle maree, era clamorosamente sbagliata e, comunque, allora indimostrabile); Darwin che sostiene l’evoluzione continua delle forme viventi per effetto dell’adattamento all’ambiente e di alcune mutazioni genetiche casuali (ma anch’egli, di fatto, con pochissime prove a conferma della sua teoria, nessuna delle quali realmente decisiva); Wegener che formula la teoria della deriva dei continenti, quando la maggior parte dei geologi stentava ad immaginare che le grandi masse terrestri possano "galleggiare" sopra le rocce più leggere dei fondali oceanici (e, lui pure, senza poter indicare la causa efficiente di una simile traslazione), si son presi la libertà di agire al di fuori dei canoni scientificamente riconosciuti ai loro tempi e, dunque, sfidando il concetto stesso di "scienza", così come allora era accettato.

Non solo: passando in esame la storia delle rivoluzioni scientifiche, ci si imbatte in un fatto piuttosto sorprendente: molte volte gli autori del nuovo paradigma sono dei dilettanti rispetto al ramo scientifico nel quale operano la "rivoluzione". Galilei era un matematico e un fisico, non un astronomo: anche se la fama delle sue scoperte al telescopio lo fece ritenere tale presso il grande pubblico, la realtà è che non aveva fatto studi specifici tali da giustificare l’opinione che lo volle esperto di astronomia (e, per esempio, i suoi disegni della superficie lunare, come ha osservato il filosofo della scienza Paul Karl Feyrabend, sono così confusi e fantasiosi, da far dubitare della sua capacità di osservazione; mentre nella polemica con Orazio Grassi sulla natura delle comete, lui aveva torto e l’altro, ragione). In compenso, era un polemista estremamente aggressivo. Darwin non era un vero naturalista, ma semplicemente un ex studente di teologia che si dilettava di studi naturalistici, dei quali, all’epoca del suo viaggio a bordo del «Beagle», conosceva a malapena le basi empiriche: fanno testo, in proposito, i suoi errori clamorosi nella classificazione dei fringuelli delle Galapagos, che la leggenda evoluzionista vorrebbe invece esaltare come il momento rivelatore del suo genio scientifico. Wegener, infine, non era affatto un geologo, ma un meteorologo.

In questa cornice si colloca quanto abbiamo detto di Paul Émile Botta, che non era affatto, né mai era stato, un archeologo, e che si volle improvvisare tale, da ex medico e da diplomatico in servizio col grado di console: l’uomo che avviò la riscoperta di Ninive, la capitale assira. Del tutto inesperto dei segreti dell’archeologia, si mise a scavare furiosamente, ebbe fortuna e strappò un successo clamoroso. Difficile immaginare qualche cosa di meno scientifico, nel senso rigoroso del termine…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di micheile henderson su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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