
La “civiltà”: un’invenzione degli illuministi?
28 Luglio 2015
Lorenzo Magalotti, il Nilo, la scienza e il mistero
29 Luglio 2015Nella società e nella cultura europee, la spiritualità e la religiosità, da duemila anni, sono quelle tramandate dalla Tradizione cristiana; e, in esse, coloro che hanno il compito, la missione, la gioia e la croce di coltivarle, difenderle, espanderle (se possibile), sono gli uomini e le donne consacrati a Dio, sia nel clero regolare, sia in quello secolare.
Ne consegue che il sacerdote, il monaco, la suora, svolgono oggi la funzione di tenere in vita quel che di spiritualità e di religiosità rimangono nel mondo moderno: vale a dire in un mondo secolarizzato e anticristiano, nato dalla precisa volontà, proclamata apertamente a partire dal libertinismo e, poi, dall’Illuminismo, di sradicare quel che di cristiano rimane in esso, per votarlo unicamente al culto della ragione, della scienza, del progresso, nonché al culto, meno esplicito ma più pregnante, del denaro, del potere e del successo.
In un certo senso, qualunque cristiano degno di questo nome è morto per il mondo, nel senso che ha ucciso in sé l’uomo vecchio, impastato di egoismo e di brame, e ha fatto nascere, al suo posto, l’uomo nuovo, vivificato dalla Lieta Novella: il che non significa che il cristiano deve ritenersi in guerra contro il mondo, ma che il mondo, su di lui, non ha più alcuna presa, non esercita più il suo nefasto potere di seduzione; dopo di che, ciascun cristiano valuterà, caso per caso, come regolarsi di fronte alle situazioni caratteristiche della civiltà moderna, sempre ispirandosi non al proprio giudizio soggettivo, ma al modello del Maestro ed aprendosi all’azione dello Spirito.
Questo è tanto più vero per l’uomo (o la donna) di Dio, che ha consacrato se stesso a Dio e che ha fatto della propria vita intera una scelta per Dio: egli, evidentemente, non deve piacere al mondo, non deve seguire le mode, non deve impegnarsi in ciò che è effimero, discutibile, troppo umanamente umano, bensì mostrare costantemente, con la sua vita e il suo esempio, la direzione per incontrare il Regno di Dio. Se il mondo moderno sia intrinsecamente malvagio, oppure no, è questione che lasciamo al giudizio del singolo; che il mondo moderno sia oggettivamente caratterizzato da una volontà anticristiana, e dominato da leggi e meccanismi (finanziari, economici, sociali, politici, culturali) che sono, in ultima analisi, anti-umani, è, ci sembra, sotto gli occhi di tutti, o, almeno, di chiunque lo voglia vedere. Quel che interessa è che il cristiano, e specialmente l’uomo (o la donna) di Dio, pur dialogando con il mondo moderno, ascoltandolo, interagendo con esso, non presti ad esso la sua anima; che non si lasci irretire nelle sue logiche, magari sotto l’apparenza del doveroso impegno sociale, della risposta al grido dei poveri e così via: tante belle espressioni che, tradotte in pratica, significano una cosa sola: la perdita della fede e la sua sostituzione, talvolta inconsapevole, altre volte meno, con modi di pensare, di sentire, di parlare e di agire tipicamente moderni, cioè tipicamente anticristiani.
Insomma: il prete è colui che tiene accesa la fiaccola della spiritualità, della trascendenza, del soprannaturale: se lascia che si spenga, per gettarsi anima e corpo nella dimensione mondana, e sia pure, forse, con buone intenzioni, viene meno alla sua missione, tradisce il suo compito, dispiace a Dio per compiacere gli uomini. Un ruolo importante, se avviene tutto questo, lo giocano la superbia intellettuale e la vanità: la pretesa di capire le cose di Dio meglio degli altri, e particolarmente meglio della Chiesa, che diviene, nelle prediche di questi indegni sacerdoti, oggetto continuo di amara critica e di aspra rampogna, e la convinzione di essere dalla parte del giusto, sempre e comunque, purché si sia dalla parte degli "ultimi": fraintendendo, però, e di molto, il significato di questo concetto nella teoria e nella pratica della vita cristiana.
I preti di sinistra, che parlano come se avessero letto più Marx che il Vangelo, o — peggio — come se avessero capito, o creduto di capire, che la giusta interpretazione del Vangelo non è quella della Tradizione cattolica, ma quella marxista (cioè di una ideologia, fra le altre cose, sconfitta dalla storia, sbugiardata dai fatti e condannata, sotto il profilo morale, dall’enormità dei suoi stessi crimini), sono lupi travestiti da agnelli, che seminano la confusione nel gregge loro affidato; sono cattivi pastori che, invece di indicare la retta via, guidano il gregge su sentieri sbagliati e velenosi, lungo i quali la fede si spegne e viene sostituita dall’orgoglio umano, un orgoglio luciferino, che vorrebbe fare dell’uomo il Dio di se stesso, pur se non osa proclamarlo apertamente, per un residuo di pudore o, più probabilmente, per una grossa componente di ipocrisia.
Ribadiamo il concetto ancora una volta: il cristiano non deve sforzarsi di piacere al mondo; deve evitare, come fossero la peste, tutti quegli atteggiamenti eccessivi, esibizionistici, demagogici, populisti, che possano avere anche solo l’apparenza della vanità personale, del narcisismo e dell’orgoglio; deve essere umile e nascosto, deve testimoniare coi fatti – ma senza mai perdere di vista il soprannaturale, anzi, ispirandosi sempre ad esso e chiedendo sempre l’aiuto divino – la purezza delle sue intenzioni, e la sua costante volontà di farsi docile strumento di Qualcuno che è più grande di lui, che capisce assai meglio di lui, che consiglia in maniera assai più saggia, profonda e caritatevole di quanto lui non potrebbe mai sognarsi di fare, in quanto persona limitata, fragile, soggetta alle tentazioni del mondo.
Il prete che va continuamente nei salotti televisivi, facendo alquanto il gigione e dichiarandosi, con compiacimento, "un prete di strada" (però davanti alle telecamere); il prete che si compiace di dare scandalo alla morale comune, compresa quella dei suoi stessi parrocchiani, innalzando ad ogni momento la bandiera della denuncia sociale, dei "diritti" civili, della libertà individuale, fino ad approvare o tollerare o minimizzare l’aborto, l’eutanasia, le unioni di fatto come equivalenti alla famiglia cristiana, l’omosessualità come equivalente all’eterosessualità, le adozioni di bambini da parte di coppie di omosessuali, e così via: questo tipo di prete che ama farsi applaudire da una certa parte politica, da una certa platea ideologica, e che mescola sacro e profano in una biasimevole confusione, in cui l’unica cosa chiara e lampante è la sua vanità, la sua ambizione smodata, la sua ferma volontà di essere sempre sulla scena, sempre sotto la luce dei riflettori, sempre al centro di polemiche che poco o niente hanno a che fare con la sua missione di pastore d’anime, non è un buon prete, è un cattivo, un pessimo prete: un uomo che usurpa la veste sacerdotale e che se ne serve, ingannevolmente, per diffondere un "nuovo" vangelo da lui creato e reclamizzato, che non si ispira al Vangelo di Cristo se non a parole, ma che se ne discosta moltissimo nella sostanza e ne tradisce e ne ferisce i contenuti più preziosi, le parole più sacre.
Scriveva Emanuele Suhard, dal 1940 vescovo di Parigi, nel suo libro «Il prete nella città», che tratta specificamente della condizione sacerdotale, ma che offre molti validi spunti per qualsiasi cristiano in quanto tale, e, se ci è consentito, per qualsiasi uomo o donna che sia di animo religioso, nel senso più ampio del termine, e di profonda ed esigente spiritualità (titolo originale: «Le Prêtre dans la Cité», Paris, Editions Lahure, 1949; traduzione dal francese di Michele D’Armento, Roma, Editrice A. V. E., 1964, pp. 77-79):
«Ogni cristiano per il fatto della sua consacrazione battesimale, non è più ormai del mondo, nel senso in cui intende San Giovanni. Ma è per il suo stato e in una maniera radicale che il prete lo lascia: non lo fa per fuggire o condannare la società e i valori umani, ma per rinunziarvi personalmente. Egli ne userà, d’ora innanzi, "come se non ne usasse" (1 Cor., 7, 31).
Da questo punto di vista, i suoi rapporti con il mondo saranno quelli di un morto di fronte a un morto: "il mondo è crocifisso per me, e io per il mondo" (Gal., 6, 14).
Questo distacco volontario, che sarà, fino alla morte il suo calvario e la sua gioia (Laetus obtuli universa: 1 Chron. 29, 17), è una morte che porta alla vita: lasciando tutto, il prete trova tutto. Introdotto nell’intimità divina, egli fa ormai parte, della più intima famiglia di Dio: "Io non vi chiamerò più servi, ma amici" (Giov, 15, 15). D’ora innanzi, malgrado i suoi limiti, il prete, per vocazione, sarà strettamente unito a Dio: "Dio è la mia parte!" diceva il Curato d’Ars.
E quindi si comprende come egli sia "preposto alle cose di Dio": "La sua funzione non ha per oggetto le cose umane e transitorie, per quanto alte e stimabili possano sembrare, ma le cose divine ed eterne" (Enciclica "Ad Catholici Sacerdotii Fastigium", p. 6). Il prete diviene il difensore nato degli interessi di Dio. Tutta la sua vita è impegnata e determinata a promuovere il suo regno. Il suo ministero, di cui non si considera abitualmente che l’aspetto umano, è rivolto anzitutto verso Dio. Il suo apostolato non è semplice filantropia: è eminentemente teologale. Si può dire di lui, in un senso affatto nuovo, ciò che S. Paolo dice del semplice fedele: "Qualunque cosa faccia" egli lo fa "per la gloria di Dio" (1 Cor., 10, 31).
Qui il "carattere" gioca il suo ruolo profondo: in tutto ciò che fa, in tutto ciò che è, coscientemente o no, il prete rappresenta e impegna il suo Maestro e Signore. Così, in tutta la sua vita, egli non è più libero, ma legato. Se pur egli lo dimenticasse, l’opinione degli uomini non lo dimentica. Invincibilmente essa mette il prete da parte; lo pone nella categoria del "sacro". Per la gente, egli non è un uomo come gli altri. Anche se cerca, e diremo che è suo diritto e suo dovere, di farsi "simile in tutto ai suoi fratelli" (Atti, 14, 14), egli resterà sempre il "diverso", il "solitario". Come Mosé, il prete è l’uomo del Sinai. Come lui, e più di lui, il Signore lo ha fatto potente e "solitario". Il sacerdote se ne ricorderà: nel momento stesso in cui combatte nella pianura, una parte di sé stesso, la più alta, dovrà restare sul monte, nella nube (Deut., 9, 9-11;25; 10, 1, 16 etc.) fino alla fine della sua vita, fino alla fine dei tempi, egli sarà l’uomo del mistero.»
Non vogliamo, comunque, generalizzare: quel che stiamo facendo, è indicare una tendenza di carattere generale, e segnalare che quella tendenza è, a nostro avviso, radicalmente contraria a quel che dovrebbe essere l’autentica vocazione religiosa, dunque radicalmente contraria al genuino spirito cristiano. Non si tratta, pertanto, di condannare o approvare in blocco certe scelte e certi comportamenti, per esempio la figura e la missione del prete-operaio; si tratta, piuttosto, di vedere quale grado di compatibilità essi hanno con lo spirito genuino del Vangelo, in che misura riflettono l’insegnamento di Gesù e se rispettano, e fino a che punto, i punti fermi stabiliti dalla Tradizione cristiana (che scriviamo non a caso con la lettera maiuscola, per indicarne l’origine soprannaturale). Se si tratta di scelte e atteggiamenti che si basano sulla polemica continua contro la Chiesa ed il suo insegnamento tradizionale; se essi sottintendono, o apertamente proclamano, la liceità di tutto, o quasi tutto, si dice e si opera nel mondo moderno, da parte di una società scristianizzata e antireligiosa; se si giunge a sovvertire i punti fermi della morale cattolica, fondata sulle Scritture e sulla Tradizione: ebbene, allora si abbia anche la coerenza di gettare la tonaca, di farsi pastori protestanti, o agitatori sindacali e politici, o predicatori del libero pensiero, del libero amore, del più o meno sfrenato edonismo individualistico e del relativismo etico. Ma lo si faccia con chiarezza, apertamente, lealmente: si desista dal seminare scandalo e confusione, si cessi la commedia di essere disinteressati e veritieri annunciatori di Cristo.
Un discorso a parte meriterebbero, sempre — però – in questa prospettiva, molti di coloro i quali oggi si dicono teologi cattolici, e che, in effetti, non sono né teologi, né, meno ancora, cattolici, dal momento che non coltivano la scienza di Dio, ma il relativismo culturale e religioso più assoluto, e non seguono il solco della Tradizione e della Scrittura, ma si abbandonano a dubbie speculazioni e a temerarie ipotesi, spacciandole come verità acquisite ed esercitando un deleterio influsso sulla cultura cattolica e sulla stessa gerarchia ecclesiastica, dato che essi, in nome del loro "specialismo" e del loro "tecnicismo" (in un mondo che, per l’appunto, pone la specializzazione e la tecnica fra i suoi idoli prediletti), pesano assai più di quanto dovrebbero nelle sedi più alte e delicate, ad esempio nei lavori dei padri conciliari o nell’influenzare le idee di vescovi e cardinali, per non parlare della grande stampa cattolica. Per fare solo un esempio: questi teologi, fra le molte altre azzardate affermazioni, pongono in dubbio, o negano esplicitamente, la presenza di Satana e la sua azione nella storia e nella vita del singolo; e molti, moltissimi vescovi non vogliono neanche sentir parlare di nominare un esorcista nelle loro diocesi, come cosa assolutamente sconveniente e "medievale". Strano: perché il Vangelo è pieno dell’azione di Satana, fin dalle tentazioni di Gesù nel deserto, e delle azioni di questo contro quello, sotto forma di esorcismi in favore di persone possedute dal Diavolo. La Chiesa ha cambiato opinione rispetto a ciò? Eppure sia Paolo VI, sia Giovanni Paolo II, hanno ribadito che Satana è un essere reale, una presenza personale da cui occorre stare sempre in guardia. E dunque? Forse che, pur di piacere al mondo, è lecito agli uomini di Dio, spiacere a Lui?
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