
Tutti vogliono la felicità; ma, per trovarla, bisogna cercarla nel posto giusto
29 Luglio 2015
Fare filosofia alla tavola da pranzo, magari davanti a un buon piatto di brovada
29 Luglio 2015Il Cristianesimo punta troppo in alta, sopravvaluta eccessivamente la natura umana, la capacità dell’uomo di scegliere liberamente tra il bene il male?
Gesù Cristo, quando ha rifiutato le tentazioni di Satana, nel deserto, ha commesso un errore, pensando che ciò che aveva fatto lui, in quanto uomo e non in quanto Dio, potrebbe farlo qualsiasi altro essere umano; e che, di fatto, tra lui, che rappresenta la libertà morale, e il Diavolo, che rappresenta la schiavitù, gli uomini siano capaci di sceglierlo, e di rifiutare le seduzioni del loro Nemico?
E si è forse sbagliato, Cristo, allorché ha ritenuto che gli uomini sarebbero capaci di farlo anche quando tali seduzioni fanno perno sull’idea del "pane", ossia della sicurezza economica e sociale, sulla rassicurazione circa i loro bisogni terreni, anche discapito dell’anima?
Queste domande, così scottanti, laceranti, drammatiche, ossessionavano letteralmente Fëdor Dostoevskij: esse ritornano in quasi tutte le sue opere, nei suoi personaggi più intensi, più sofferenti, più stralunati; e sono le domande che qualunque credente, prima o poi, nel corso della propria vita, non può fare a meno di porre a se stesso.
Come è possibile che l’essere umano sia capace di commettere così tanto male, fino al limite estremo del sadismo, fino alla crudeltà perpetrata sui più deboli e innocenti: i bambini, se davvero è capace rifiutare la seduzione del male e di scegliere il bene? E, se non lo è, vuol forse dire che Cristo, riguardo alla natura umana, si è sbagliato, che ha sopravvalutato l’uomo, che ha puntato troppo in alto? Il cristianesimo, dunque, sarebbe "sbagliato", perché partirebbe dalla premessa che l’uomo sia realmente capace di prendere partito per il bene, anche contro le circostanze, anche contro i propri impulsi, anche contro se stesso? E l’intera storia umana, del resto, non sembra forse confermare tale diagnosi negativa, tale incapacità degli esseri umani di trascendersi, di elevarsi al di sopra del proprio egoismo, al di sopra dei propri bassi istinti? E la cultura moderna, a cominciare dalla psicanalisi freudiana, non sembra, anch’essa, confermare e rafforzare ulteriormente una simile conclusione, mostrando quanto poco vi sia di realmente razionale, evoluto, "civile" nell’uomo, a dispetto di alcune migliaia d’anni di cosiddetta civiltà, solo che le pulsioni primordiali trovino socchiusa o mal custodita la porta dell’Io e riescano a fare irruzione oltre di essa, erompendo dal fondo tenebroso dell’inconscio, ove stanno sempre in agguato, indomabili, innominabili: pulsioni di violenza, di sesso, di morte, d’incesto, di parricidio e di matricidio?
Freud, del resto, aveva letto e ammirato Dostoevskij, così come lo hanno letto, e ammirato, e imitato — in un certo senso — tutti gli scrittori successivi, coloro che hanno rappresentato la "letteratura ella crisi": Proust e Thomas Mann, Musil e Kafka, Joyce e Woolf, Svevo e Pirandello: nessuno di loro, però, è rimasto fedele allo spirito del maestro, così come nessuno degli "esistenzialisti" è rimasto fedele allo spirito di Kierkegaard (e nessuno degli espressionisti, se ci è lecita una fulminea incursione nell’ambito delle arti figurative, è rimasto fedele a Van Gogh): perché nessuno di loro ha osato cimentarsi con la grande domanda di questi grandi iniziatori: la domanda del Grande Inquisitore, la domanda se Cristo si sia sbagliato. E ciò per una buona ragione: se lo avessero fatto, avrebbero dovuto prendere seriamente in considerazione, almeno come ipotesi di lavoro, che la vita umana, e la stessa storia dell’umanità, guardate dal punto di vista dell’essenziale e non di ciò che è secondario, altro non sono che una continua, incessante, terribile lotta con il Principe di questo mondo. Ma come avrebbero potuto, questi uomini così evoluti e "moderni", questi intellettuali così raffinati, così chiaramente superiori ai loro predecessori, ancora ignari di inconscio, complesso di Edipo, istinto di morte, sdoppiamento dell’io, perdita dell’unità della coscienza, e del tutto digiuni di flusso di coscienza, monologo interiore, narratore inattendibile e molteplicità dei punti di vista, come avrebbero potuto degnare di uno sguardo serio, anche solo per un momento, la possibilità che il Diavolo esista, dopotutto, e che eserciti una seduzione costante sull’anima umana, sui pensieri, sulle teorie, sulle ideologie, sulle azioni, sulle parole, su gran parte di ciò che, orgogliosamente, chiamiamo "cultura moderna", "civiltà moderna", "filosofia moderna"? Via, non sarebbe stata una cosa ammissibile: come dice Baudelaire, la vittoria del Diavolo è, per l’appunto, il fatto che nessuno voglia più prenderlo sul serio.
Eppure, il punto è proprio qui. Chi non crede nel Diavolo, nella sua potenza, nel suo fascino sinistro e tuttavia insinuante, non crede nemmeno a Dio: che se ne farebbe di Dio, se il male non esiste, se la natura è buona in se stessa, e se l’uomo, vertice e padrone della natura — come insegnavano le filosofie illuministe e positiviste — possiede nelle proprie mani il suo destino, la sua promessa di felicità, la realizzazione delle sue più alte ambizioni, magari con l’ausilio della ragione, della scienza, della tecnica, insomma del progresso? Ma chi non crede più a Dio, non può che deificare l’uomo: e allora, a chi attribuire la responsabilità del male che, a dispetto di tutte le filosofie della ragione e del progresso, vediamo e incontriamo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della nostra esistenza? Come spiegare il sadismo, la crudeltà, la capacità d’infierire, così, senza ragione apparente se non quella di un perverso piacere, sui più deboli e innocenti: sui bambini?
A proposito della celeberrima Leggenda del Grande Inquisitore, contenuta in un passaggio centrale de «I fratelli Karamazov», in cui l’ateo Ivan Karamazov espone a suo fratello Alioscia, seminarista, le ragioni del proprio rifiuto di Dio, ha scritto Nina Gurfinkel, una critica russa emigrata in Francia (da: N. Gurfinkel, «Dostoevskij, nostro contemporaneo»; titolo originale:
«Dostoievski notre contemporain», Paris, Calman-Lévy, 1961; traduzione dal francese di Diana Grange-Fiori, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1961, pp. 351-3):
«- Perché sei tornato tra noi? — gli domanda [il Grande Inquisitore a Gesù Cristo, apparso improvvisamente in Spagna, a Siviglia, in pieno periodo dell’Inquisizione. – Sai che la tua presenza può soltanto turbarci…-
Perché codesto turbamento? Il fatto è che Cristo s’è sbagliato nel giudicare la natura umana:
"Il tuo giudizio sugli uomini è troppo nobile; concepiti come ribelli, sono soltanto schiavi. Io te lo giuro, l’uomo è più debole e più vile di quel che tu credesti!…"
Cristo ha respinto le tre tentazioni dell’"oscuro e intelligente Spirito: ha rifiutato di mutare le pietre in pane; di buttarsi nel vuoto dall’alto della guglia del tempio per sfidare Iddio, e infine di prosternarsi dinanzi a Satana per procurarsi il potere. Ora, questi sono i soli beni che l’uomo sappia apprezzare, perché"nulla è più incontestabile del pane". E se gli viene concessa la libertà, "si affretterà più d’ogni altra cosa a scaricarsene su qualcun altro". "La tranquillità e la stessa morte sono più preziose all’uomo, che non la libera scelta tra il bene e il male."
"- Noi abbiamo apportato alcuni correttivi alla tua impresa, dice il Grande Inquisitore al Cristo, – ponendone il fondamento sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati nell’essere nuovamente condotti in gregge, sbarazzati del dono terribile che tanto li aveva fatti soffrire… Noi non siamo con te, ma con ‘lui’. Questo è il nostro segreto. Noi da lui ci siamo fatti dare quello che, nella tua indignazione, un tempo rifiutasti, l’estremo dono ch’egli ti offerse col mostrarti tutti i regni di questa terra: noi da lui ci siamo fatti dare Roma e la spada di Cesare…"
La Chiesa romana ha costruito il suo regno in questo spirito, e questo regno è di questo mondo.
Così la leggenda del Grande Inquisitore si riallaccia all’idea costante di Dostoevskij: la base materialistica del cattolicesimo, che, concedendo all’uomo il pane, il più "incontestabile" di tutti i beni, ma togliendogli la libertà di coscienza, s’avvicina all’immagine che lo scrittore si è fatta del socialismo. L’uno e l’altro rendono schiavo l’uomo, "per la sua felicitò". La conclusione del Grande Inquisitore è logica: domani manderà Cristo al rogo, sicuro che quella stessa folla, che oggi l’ha riconosciuto, non vi si opporrà.
Che risponde Cristo al vegliardo forte di quella satanica saggezza? Nulla. In silenzio lo guarda negli occhi e gli dà un bacio sulle labbra esangui. Allora il Grande Inquisitore spalanca la porta della cella e dice al prigioniero: "Vattene e non tornare mai più…". Sempre in silenzio, Cristo esce e si allontana per le tenebrose vie della città.
E Ivan Karamazov così conclude il suo poema: "Il bacio arde il cuore del Grande Inquisitore, ma egli resta fedele alla propria idea".»
All’idea, cioè, che gli uomini non solo non sono degni, ma, in fondo, nemmeno sono capaci di seguire Cristo: possono solo servire il Diavolo.
Un personaggio secondario de «I fratelli Karamazov», l’occidentalista Miussov, afferma, a un certo punto – durante una conversazione nel convento del "padre" Zossima – che la polizia francese (ma il discorso vale per tutta l’Europa occidentale, ossia per tutta l’Europa che si riteneva, e si ritiene anche tutt’oggi, la parte del mondo più "evoluta" e "civile") ha schedato e tiene d’occhio tutti i sovversivi, i nichilisti, i socialisti: ma in fondo non li teme, perché sa che valgono poco; teme, invece, e molto, quei pochi, fra essi, che si professano, nel medesimo tempo, socialisti e cristiani: quelli sì, che fanno paura; quelli essa tiene sotto controllo con la massima attenzione e con la massima cautela.
Dostoevskij ne era convinto: cristianesimo e socialismo sono incompatibili, perché promettono agli uomini due cose opposte e inconciliabili: la libertà e la "giustizia", ossia il pane, la sicurezza materiale; e gli uomini, nella loro debolezza, tendono sempre a preferire la sicurezza – il pane, appunto – alla libertà morale, di cui non sanno che farsene, anzi, che li mette terribilmente in imbarazzo, perché li pone davanti a delle scelte che non hanno il coraggio di fare, pur vedendo che sarebbero quelle giuste, le sole che possono pacificare il loro cuore. Ecco perché riteneva i socialisti "cristiani" (ma lo stesso discorso vale, oggi, per quei cristiani che si dicono, o che si sentono, "socialisti") come i più pericolosi di tutti i sovversivi: perché prendono in prestito una parte della verità cristiana, l’anelito alla giustizia, ma lo stravolgono e giungono a pervertirlo, spostandolo e rinchiudendolo esclusivamente nella dimensione di quaggiù, quella terrena. La città dell’uomo non può essere confusa con la città di Dio: una confusione che, secondo lo scrittore russo, è stata fatta, invece, dalla Chiesa cattolica, la quale, a partire dall’imperatore Costantino, ha accettato la "sicurezza" in cambio della libertà. Da allora, la Chiesa cattolica altro non è stata che il prolungamento dell’Impero Romano d’Occidente: una creazione mondana, piena di compromessi e di preoccupazioni mondane, lontanissima dallo spirito del Vangelo.
Si può dissentire da quest’ultimo giudizio, ritenendolo eccessivo e troppo schematico; resta, però, un dubbio: non potrebbe darsi che la Chiesa cattolica, specialmente nei tempi moderni, si sia presa troppo a cuore i problemi sociali, economici, politici, e che abbia voluto "compensare" una supposta latitanza secolare nei confronti delle questioni sociali, e particolarmente nei confronti della questione operaia, generata dalla Rivoluzione industriale, esagerando la sua legittima preoccupazione per la dimensione sociale dell’uomo e finendo per snaturarsi, senza rendersene conto, ossia per scegliere la strada di Cesare, quella dell’azione politica, mondana, invece della strada di Cristo, quella della rivoluzione interiore, spirituale?
E adesso, tornando al nostro assunto principale: si è forse sbagliato, Cristo? Si è sbagliato il cristianesimo, e, con lui, si sono sbagliati Agostino, Benedetto da Norcia, Tommaso d’Aquino, Francesco d’Assisi, Dante Alighieri? Si sono sbagliate generazioni e generazioni di credenti, di frati, di suore, di sacerdoti, di pensatori, di teologi, di uomini e donne comuni, di padri e madri di famiglia, di umili lavoratori che hanno posto la loro esistenza sotto il segno del Vangelo, della Buona Novella: che l’uomo è libero dalla schiavitù del peccato, che è ibero di scegliere il bene, di prendere partito per Dio e contro il Diavolo?
Non è facile rispondere, e, del resto, nemmeno il grande Dostoevskij, pur bramandolo intensamente, è riuscito da dare una risposta convincente: ha sollevato una questione di portata immensa, ha dato forma a un dubbio profondo, che scava, da sempre, nel cuore dell’uomo, ma non ha potuto placarlo. Una risposta, del resto, forse non esiste; non sul piano puramente umano, non in questa dimensione di esistenza. O forse sì. Forse, tuttavia, non può essere espressa a parole, ma solo con l’azione, nella vita pratica. Forse, la vera risposta è quel bacio ardente di Cristo sulla bocca del vecchio Inquisitore.
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