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Concezione cristiana della storia

Che cos’è la storia umana nella concezione cristiana?

Negli antichi messali, in molte vetrati e pareti e in molti pavimenti delle chiese medievali ricorre, a lato dell’immagine di Cristo, quella di due alberi: quello della Conoscenza del bene e del Male, dalla cui violazione ad opera di Adamo derivò la cacciata dei nostri progenitori dal Giardino dell’Eden, e quello della Croce, legno che eretto sul Calvario per la Passione di Cristo e dunque per il compimento delle Scritture e per la realizzazione del progetto di salvezza dell’umanità ad opera di Dio Padre, amorevole e infinitamente misericordioso. Il primo albero, infestato dalle spire del serpente, è il simbolo non tanto del male, quanto della tremenda responsabilità insita nella libertà umana: esso pertanto simboleggia non la fatalità inesorabile del peccato (come vorrebbero i protestanti, e specialmente i calvinisti), ma la sua terribile, sconcertante facilità, persino — come osserva Sant’Agostino — allorché l’uomo si ripropone di volere e di compiere solamente il bene. Il secondo simboleggia la gratuità assoluta della Grazia divina, alla quale l’uomo può e deve cooperare, ma che egli, con le sue sole forze, non potrebbe mai sperare di meritare, stante in lui appunto quella debolezza strutturale, quel "vulnus" immedicabile, quella ferita originaria creatasi con il Peccato originale.

La storia, dunque, ha inizio dal Peccato: se Adamo ed Eva non avessero abusato della libertà loro concessa da Dio, non vi sarebbe stata storia, ma una indefinita condizione di felicità terrena posta al di fuori della storia: se la storia è, come è, esercizio della libertà e dunque rischio, caduta, peccato, morte. D’altra parte, il Peccato stesso era contemplato nella onniscienza divina e quindi non ha interrotto il piano della Redenzione, al contrario, lo ha reso possibile e necessario: è stato, dunque, in ultima analisi, provvidenziale, anche se sarebbe stato infinitamente preferibile, per l’umanità, che non venisse commesso. La storia umana, dunque, non è stata un "errore" o una conseguenza imprevista rispetto al piano della Creazione; essa ha un significato e una intrinseca nobiltà: la lenta, faticosa, diuturna riconquista delle altezze perdute, da parte dell’uomo; la marcia verso il suo reintegro nella eredità celeste, che gli è destinata.

Possiamo anche dire così: sarebbe stato meglio, dal punto di vista della felicità terrena, che la storia umana non iniziasse neppure; ma, dal momento che Adamo ed Eva peccarono e che la storia ebbe inizio, essa non è affatto inutile, anche se consiste, in gran parte, di una interminabile sequela d’ingiustizie, prevaricazioni, avidità e crudeltà dell’uomo ai danni dei suoi simili (e anche delle altre innocenti creature di Dio). Pure, in mezzo a tanti orrori, brillano, come gemme, atti di amore, pensieri e gesti di bontà disinteressata, di autentica fiducia in Dio e di remissione alla Sua volontà: ciò significa che non tutto, nella storia, è male; così come non tutto è male nel mondo. Il mondo non è male, la natura non è male (ma è neppure il bene, come sostenevano molte filosofie antiche e, nella modernità, i panteisti, i giusnaturalisti, gli illuministi): il mondo diventa il regno del male quando vi predominano gli impulsi egoistici, vale a dire diabolici, presenti nell’uomo, perché l’egoismo, l’adorazione del proprio Io, è il frutto della seduzione diabolica, esattamente come avvenne nel Giardino dell’Eden con i nostri antichissimi progenitori, allorché vennero tentati in nome della vanità e della superbia («sarete come Dio»).

Agostino, cui si deve la più approfondita riflessione cristiana sul mistero della storia, non identifica il mondo con la Città diabolica; al contrario, egli lo concepisce come il campo di battaglia fra il bene e il male e dunque come il luogo decisivo in cui si svolge il dramma a lieto fine dell’Incarnazione e della Redenzione. Se il mondo fosse male in se stesso, l’Incarnazione sarebbe stata inutile, anzi, sarebbe stata un assurdo teologico: a che pro Dio si sarebbe fatto uomo, avrebbe assunto un corpo e una natura di uomo — senza rinunciare, contemporaneamente, alla propria -, laddove non vi fossero stati margini per una cooperazione degli uomini, fin da questa vita e fin da questo mondo, al piano della loro salvezza?

Lo gnosticismo, sia nella forma antica che nelle forme e varianti, più o meno mascherate, che oggi tornano assai di moda, corrisponde appunto alla tentazione della scorciatoia, del voler far fare tutto a Dio, senza che l’uomo debba fare nulla per se stesso: se il mondo fosse radicalmente malvagio, se la natura fosse opera del Diavolo, allora la Redenzione non potrebbe aver luogo sotto forma di un ritorno dell’uomo a Dio, ma solo sotto forma di una distruzione del mondo e della storia da parte di Dio: in pratica, in una ammissione, da parte Sua, che la Creazione è stata un errore. Ma questo, dal punto di vista cristiano, non è soltanto mostruoso, è anche contraddittorio: perché la Bibbia afferma che Dio, dopo aver creato il mondo e ogni cosa che in esso si trova, «vide che tutto ciò era buono» e ne fu contento. Se la natura fosse intrinsecamente malvagia e se il mondo fosse il regno di Satana, chi, se non un Dio perverso e crudele, avrebbe potuto crearli e gettarvi, inerme, l’uomo, in pratica con la sola libertà di peccare e con la sola certezza della colpa e del castigo? Tanto vale pensare che un simile Dio non è altri che il Diavolo: e questo, infatti, in un certo senso, è il pensiero gnostico: il mondo è l’opera di un Dio malvagio; per redimersi da esso, bisogna rivolgere all’altro Dio, quello "buono", che, con il mondo, non ha niente a che fare.

Chiara e lineare è la sintesi operata da Carla Sclarandis del pensiero cristiano rispetto alla vicenda storica del genere umano, di cui riportiamo alcuni passaggi essenziali (da: Giovanna Garbarino, «Opera. Letteratura, testi, cultura latina», Milano, Paravia, 2004, vol. 2, pp. 165-8):

«[Se in Seneca e nel pensiero stoico si possono già scorgere alcuni assi portanti dell’antropologia cristiana,m tuttavia, per quanto riguarda la concezione della storia, il cristianesimo segnò una cesura nettissima rispetto al pensiero greco-romano. Innanzitutto occorre partire dal fatto che la storia umana comincia con la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre quale punizione e maledizione divina. Se questo avvenimento, che indica una perdita definitiva delle condizioni originarie, può richiamare l’idea esiodea e poi ovidiana della storia come decadenza, le analogie finiscono qui. L’Eden ebraico-cristiano non rimanda, infatti, a un’età mitica di completa adesione della vita umana allo stato di natura, bensì al luogo in cui l’umanità avrebbe potuto vivere felice se Eva non avesse mangiato i frutti dell’albero proibito. In quel giardino, al riparo da ogni insidia, l’umanità non visse mai, perché Adamo ed Eva procrearono dopo la cacciata e la stessa linearità del tempo, segnata dalla morte, cominciò proprio con la loro trasgressione. Per i cristiani, dunque, la storia umana si origina dal peccato originale, attraversa la caduta e coincide con essa, per finire nel giorno del giudizio universale. Se la concezione mitica delle te età (dell’oro, dell’argento e del ferro) si compendiava spesso con un’idea di circolarità temporale, quella cristiana presuppone invece una linearità che si snoda attraverso la stria terrena, ma tende a quella ultraterrena in cui il bene è separato dal male, la felicità dall’infelicità,, l’innocenza dalla colpa, la gioia dal dolore. Solo lì sarà possibile trovare il paradiso: dunque, alla fine, di nuovo fuori dalla storia. […]

[Per Sant’Agostino le due città, quella terrena e quella celeste] sono dunque delle figurazioni allegoriche dei diversi atteggiamenti filosofici e morali che il misterioso disegno divino rende operanti tra gli uomini. […] La vicenda degli uomini, fintanto che esisterà la storia, sarà pertanto inseparabile dal viluppo di bene e di male, della Babilonia infernale e della Gerusalemme celeste. In tutte le civiltà ed epoche p possibile rintracciare i segni di questa doppiezza e seguire la storia delle due città dalla nascita, avvenuta con la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, fino all’epilogo nel giorno del giudizio. Ne risulta un quadro grandioso che compendia le narrazioni della tradizione biblico-cristiana e di quella greco-romana: le tappe della creazione del mondo e dell’uomo, del peccato originale e della conseguente punizione della vita dei discendenti di Adamo fino a Mosè, si collegano direttamente agli episodi mitizzati della storia dei Greci e dei Romani; a sua volta la storia romana si intreccia con quella del cristianesimo e delle persecuzioni. Solo alla fine, mentre la città terrena sarà colpita dalla condanna alla morte eterna, i cittadini della città di Dio risorgeranno alla vita immortale, a gode della pace divina non solo con l’intelletto ma anche con il corpo. Da questo schema risulta chiaro che per Agostino all’origine della storia c’è il peccato dell’uomo contro Dio. Adamo ed Eva, disobbedendo, meritarono l’ira del Padre, anche se svelarono la libertà dell’uomo. Da quel momento in poi essi ed i loro discendenti hanno dovuto fare i conti con la fisicità e con la storicità, in una lotta solitaria e spesso tragica con il male. La tremenda punizione di Dio verso quell’uomo che egli stesso aveva dotato della facoltà di scegliere consiste appunto nell’allontanamento dal Paradiso e dalla condanna alla concupiscenza e alla morte. […]

L’idea del precipitare da uno stato di felicità a una condizione di sofferenza e disagio può certamente richiamare l’antico concetto dell’età dell’oro, soprattutto nell’accezione ovidiana di un tempo mitico senza lacrime, fatica ed eros. Ma il paradiso di Agostino non è la prima età della storia umana, bensì un tempo posto fuori della storia stessa: sia in quanto paradiso perduto, perché la storia comincia appunto quando l’uomo ne è cacciato; sia in quanto città di Dio, perché questa, anche se esiste nel tempo intrecciata a quella dell’uomo, è concepita come il punto d’arrivo del tempo storico finito, dopo il suo compimento. L’uomo storico è destinato alla morte, ma l’orientamento della storia tende verso una meta ultraterrena: queste due condizioni, fondamentali nel pensiero agostiniano, riflettono temi già presenti in quello di Cicerone e di Seneca. […] Ma anche qui non devono sfuggire le differenze. Per Agostino non è possibile idealizzare nessun momento della storia terrena, proprio perché "nel flusso dell’umanità scorre una duplice corrente. Del male, derivato dal progenitore, e del bene, elargito dal Creatore" ("De Civ. Dei, XXII, 24). […]

Agostino, dunque, non condivide le due possibili concezioni antiche della stria e dell’uomo in essa: da un lato non riconosce la ciclicità del tempo umano, ma presuppone un percorso lineare, orientato a una meta e guidato dalla volontà divina. D’altro canto respinge l’idea lucreziana di storia come progressivo emergere dalla natura stessa, perché non gli interessa studiare l’evoluzione fisica e sociale dell’uomo, bensì professarne uno sviluppo provvidenziale. Centrale è il controllo di Dio sull’intero processo lineare, di cui egli stesso ha stabilito il punto d’arrivo.»

Occorre guardarsi da due opposte tentazioni, quindi, allorché si ragiona sulla storia umana, partendo dalla prospettiva cristiana: quella di scordarsi che sia la sua origine, sia la sua destinazione, sono al di fuori di essa, e precisamente nelle mani di Dio, per cui non bisogna mai assolutizzarla, né sopravvalutarne indebitamente le conquiste, i valori, le ideologie, quasi divinizzando l’uomo e misconoscendo lì’opera del Creatore; e quella di togliere valore e dignità al mondo, di denigrare la natura, di sottovalutare l’importanza della cooperazione umana al progetto divino: come se, nel gran gioco della storia, l’uomo non contasse nulla e l’unica cosa giusta da fare fosse quella di sedersi e aspettare che Dio ponga fine alle sanguinose e crudeli illusioni da essa generate.

Dei due pericoli, oggi, a nostro avviso, il più grave e il più attuale non è certo il secondo, ma il primo. Nonostante tutti gli insuccessi e le mancate promesse della ragione, della scienza e del progresso, l’uomo ostenta ancora un altissimo grado di fiducia in se stesso: il che, di per sé, non sarebbe un male, se si accompagnasse, comunque, alla consapevolezza dei propri limiti e alla coscienza della propria fragilità. Il senso di onnipotenza che ha inebriato l’uomo moderno, specialmente da quando si è allontanato da Dio e ha ritenuto di poter provvedere da solo alle proprie necessità, si accompagna sovente, e ne è come il rovescio della medaglia, al senso di disagio, angoscia e disperazione che lo invadono in misura crescente, che lo torturano, che lo deprimono, che lo spingono ad azzardi pazzeschi, a decisioni repentine e improvvide, delle quali non fa quasi in tempo a pentirsi, perché già ne assume disordinatamente delle nuove, non migliori, né più sagge.

L’uomo dovrebbe sempre ricordarsi di essere, sì, il protagonista della storia, ma di non esserne il vero artefice: dovrebbe sempre avere la chiara coscienza, anche e soprattutto nei passaggi più ardui e scabrosi della sua esistenza terrena, che egli è il collaboratore di un Progetto che lo comprende e lo illumina, ma che non parte da lui e non si concluderà con lui. Insomma, che la storia umana ha un significato solo se posta in un’ottica extra-storica, extra-umana, extra-naturale: divina, appunto…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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