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Come mai l’incrociatore «Sydney» si lasciò sorprendere dal «Kormoran»?

Abbiamo parlato a suo tempo, dell’epico, sanguinoso combattimento che ebbe luogo il 19 novembre 1941, al largo dell’estremità occidentale dell’Australia, fra l’incrociatore corsaro tedesco «Kormoran», al comando del capitano Theodor Detmers, e l’incrociatore leggero australiano «Sydney», comandato dal capitano Joseph Burnett (cfr. l’articolo «La crociera della nave corsara Kormoran», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 25/09/2008).

Vogliamo ora tornare sull’argomento, per considerare un particolare aspetto di essa: quello che tanto meravigliò gli esperti della guerra navale e che, soprattutto, sconcertò e mise in crisi non pochi uomini ell’Ammiragliato britannico e non piccola parte dell’opinione pubblica australiana, traumatizzata dalla perdita di oltre 600 vite umane in una operazione di guerra che, stando ai dati tecnici delle due rispettive unità che si erano affrontate al largo dell’isola Dirk Hartog, avrebbe dovuto presentarsi come quasi senza rischio, poco più che una mera esercitazione navale, visto anche come erano andate le cose con altre navi corsare tedesche, ad esempio con la leggendaria «Atlantis» del comandante Bernhard Rogge, la quale, proprio negli stessi giorni (22 novembre 1941), era stata affondata dall’incrociatore britannico «Devonshire». In quel caso, infatti, la nave tedesca era stata affondata dopo un brevissimo combattimento, nel corso del quale non aveva mostrato un particolare spirito combattivo, poiché era stata abbandonata dal suo equipaggio dopo avere opposto solo una debole resistenza; bisogna però tener presente che, in quella circostanza, due fattori avevano giocato contro di essa: il fatto che era stata sorpresa mentre era ferma, in mezzo all’oceano, per rifornire di nafta un sommergibile tedesco, e la saggia prudenza del comandante inglese, il quale tenne il «Devonshire» a 10.000 metri da essa, dunque ben oltre la gittata dei sei cannoni da 150 millimetri della nave tedesca.

Per avere un quadro il più possibile esatto del problema, innanzitutto riepiloghiamo le fasi principali della battaglia avvenuta il 19 novembre 1941, servendoci della ricostruzione di un autore britannico, autore del libro «Le navi segrete di Hitler» (titolo originale: «The secret raiders», 1966; traduzione dall’inglese di Ginetta Pignolo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1966, pp. 196-200):

«Il duello fra la "Kormoran" e il "Sydney" ebbe inizio il 19 novembre alle 16, quando la vedetta della nave corsara avvistò fumo a proravia. Non tardò a esser chiaro che un incrociatore leggero, il "Sydney", puntava direttamente verso la "Kormoran". Questa si allontanò subito a tutta velocità, raggiungendo i diciotto nodi. La rotta scelta da Detmers per fuggire era contro sole e con mare e vento contrari. Il "Sydney" si lanciò all’inseguimento sviluppando una forte velocità (circa venticinque nodi, giudicarono i tedeschi), e facendo insistenti segnali col riflettore. L’unità corsara issò la bandiera olandese, mentre l’incrociatore continuava a far segnali luminosi, ai quali i tedeschi risposero con bandiere, come usano i mercantili. Il dottor Habben scrisse che Detmers seguì lo svolgersi di questo scambio di messaggi "con grande sangue freddo". Ogni tanto faceva issare messaggi volutamente confusi, e spesso in risposta al "Sydney" segnalava "non capito". Tutto questo fece guadagnar tempo. L’incrociatore non aprì il fuoco, ma si avvicinava rapidamente da poppa e in breve fu a poca distanza dalla nave corsara. Già da lungo tempo Detmers aveva riflettuto su come comportarsi qualora si fosse trovato di fronte a un’unità da guerra nemica di potenza superiore alla sua e senza possibilità di fuga, e ora si dispose risolutamente a mettere in atto i suoi piani. Alle 17,30 — un’ora e mezzo dopo il primo avvistamento — il "Sydney" aveva raggiunto il "Kormoran" e navigava alla sua sinistra, a una distanza di neppure 850 metri. I tedeschi ebbero l’impressione che il comandante dell’incrociatore dubitasse di non aver inseguito che un innocuo mercantile alleato. La catapulta dell’aereo della "Sydney" che era stata ruotata verso l’esterno, come se il velivolo stesse per esser lanciato, venne a un certo punto ritirata entro bordo, e attraverso i binocoli i tedeschi osservarono che solo una metà degli addetti ai cannoni erano ai loro posti di combattimento. Intanto, proseguendo nello scambio di segnali, si giunse al momento in cui il "Sydney" richiese il segnale segreto delle navi olandesi, secondo il travestimento della corsara. Alla "Kormoran" non restava altro da fare che dar battaglia. Fu impartito l’ordine di scoprire i cannoni, eseguiti nel tempo record di sei secondi, mentre veniva ammainata la bandiera olandese e al suo posto si alzavano quella tedesca e la fiamma del comandante. La bandiera di combattimento non aveva ancora raggiunto la vetta dell’albero maestro, allorché i tedeschi aprirono il fuoco. Il tiro fu troppo corto, ma la seconda salva di tre cannoni colpì la plancia del "Sydney", danneggiando il meccanismo di puntamento della torretta A; così una metà dell’armamento nemico era fuori combattimento. La catapulta aerea dell’incrociatore venne di nuovo ruotata verso l’esterno, ma il velivolo fu immediatamente distrutto con un colpo diretto; a quella distanza era quasi impossibile mancare il bersaglio. Un siluro colpì il "Sydney"a proravia, e la prua s’immerse nell’acqua. La velocità dell’incrociatore diminuì, mentre la "Kormoran" spazzava il ponte con la mitragliera anticarro da trentasette millimetri e la mitragliatrice antiaerea da venti, impedendo all’avversario di mettere in azione i lanciasiluri e le armi antiaeree. Si poteva facilmente osservare che le mitragliatrici tedesche avevano causato gravi perdite fra il personale di controllo del tiro. Tutto il sistema controllo del "Sydney" era adesso inservibile, e il nemico era ridotto a un tiro indipendente coi cannoni delle due torrette a poppavia, che colpirono tre volte il "Kormoran": il primo proiettile attraversò la ciminiera, esplose sul fianco non impegnato della nave corsara e riempì di schegge la cabina-radio, uccidendo due uomini. Il secondo esplose nella sala macchine e rese inservibile anche l’attrezzatura antincendio della nave. Il terzo distrusse i trasformatori del motore principale, mentre una quarta, inesplosa, ferì alcuni serventi del cannone n. 3. Nella sala macchine l’esplosione provocò un grave incendio, e in un caos tenebroso di fumo, rotto dai frequenti bagliori delle scariche e dei corto-circuiti dell’impianto elettrico, il personale tentò di spegnere il fuoco. Nessuno di questi uomini fui più rivisto. In seguito alle avarie riportate, il "Sydney" era inclinato di poppa, ma vedendo che la "Kormoran" aveva perso il controllo, cercò di speronarla. I cannoni della nave corsara continuavano però a sparare, e tennero in rispetto il nemico. Quest’ultimo virò allora di bordo allontanandosi a bassa velocità, non più di cinque o sei nodi, e mentre si ritirava lanciò quattro siluri, il più vicino dei quali mancò la "Kormoran" di circa 150 metri. Il "Sydney" voltava adesso l’altro fianco all’avversaria, ma evidentemente le sue torrette erano rimaste bloccate, perché i cannoni erano puntati verso il lato disimpegnato, mentre i tedeschi continuavano a tenerlo sotto il fuoco, colpendolo ripetute volte all’altezza della linea di galleggiamento: i pezzi da 150 millimetri. Sparavano una salva ogni quattro-cinque secondi; in tutto furono sparati circa 500 colpi. Alle 18, mezz’ora esatta dopo l’inizio dell’azione, tutto il lato sinistro dell’incrociatore australiano era in fiamme e a bordo avvenivano continue esplosioni. In queste condizioni, riuscì tuttavia a portarsi fuori tiro; e dalla "Kormoran" lo si vide allontanarsi lentamente verso l’orizzonte. Ancora per quattro ore, mentre lottavano per salvare la propria nave, i tedeschi continuarono a vedere il grosso incendio che divorava l’unità nemica, finché all’una di notte l’incrociatore scomparve. Probabilmente fu allora che il "Sydney" affondò.»

In quel momento, cioè all’una di notte, terminava anche la vita del «Kormoran», abbandonato dall’equipaggio incapace di domare l’incendio, mentre il capitano Detmers scendeva nell’ultima scialuppa, dopo aver ammainato la bandiera, e andava incontro, insieme ai suoi uomini, al destino di prigionia che lo attendeva. Le varie scialuppe erano state disperse dalla corrente e si erano perse di vista l’una con l’altra; alcune furono soccorse da navi di passaggio, altre raggiunsero la terraferma, non senza che i marinai tedeschi soffiassero crudelmente per la ristrettezza dello spazio, per il caldo diurno e per il freddo notturno.

Da sempre, dunque, su tutta l’azione militare che portò alla distruzione reciproca del «Sydney», che affondò senza lasciare alcun superstite dietro di sé, e del «Kormoran», che affondò anch’esso, ma che ebbe 82 morti e 317 naufraghi, in seguito salvati, catturati e trasferiti nei campi di prigionia dell’Australia (ove nel complesso subirono un trattamento umano, ma da cui fecero ritorno in patria solamente nel 1950), infuria una accesa polemica da parte britannica, e specialmente australiana. È mai possibile, ci si chiese, che un incrociatore leggero della Marina da guerra, bene armato e protetto da corazze, sia stato così irreparabilmente danneggiato, nel giro di pochissimi minuti, e infine distrutto, da un semplice incrociatore ausiliario, ossia da una nave riadattata, proveniente dalla Marina mercantile, e dunque inferiore sia per armamento, sia, soprattutto, per protezione? Ed è mai possibile che, dei 645 uomini dell’equipaggio, non uno solo sia riuscito a mettersi in salvo sulle scialuppe e ad essere, successivamente, tratto in salvo? Ed è mai possibile, infine, che nessun relitto, nessun resto, nessun cadavere sia stato più ripescato dalle acque dell’Oceano Indiano, a una così breve distanza dalla costa australiana e dall’isola di Dirk Hartog?

La stampa, l’opinione pubblica, gli specialisti di cose navale non riuscivano a darsi pace. Si sospettava che vi fosse stato qualcosa di cui tutti erano rimasti all’oscuro, qualcosa di imprevedibile e di oscuro, di sinistro, che aveva determinato l’esito inaspettato del duello fra le due navi e la totale distruzione di quella australiana, con relativa, totale perdita dell’equipaggio. Le discussioni andarono avanti per anni, molto più in là della fine della guerra: certo, era duro per le famiglie di quei 645 uomini non avere nemmeno un luogo ove recarsi per dare l’estremo saluto ai loro cari, nemmeno una tomba su cui deporre un fiore. Ed era ancor più duro, per molti ufficiali di marina, ammettere che l’esito disastroso del combattimento era stato determinato, in buona sostanza, dalla pressoché inconcepibile imprudenza e ingenuità, diciamo pure dalla incosciente leggerezza del suo comandante, il povero Joseph Burnett, che non aveva più vice in capitolo per difendersi dalle accuse, per dissipare i sospetti.

Fra le altre cose, si imputava alle direttive dell’Ammiragliato britannico la responsabilità di averlo mandato allo sbaraglio, con istruzioni piuttosto confuse per il caso di un incontro con navi corsare tedesche, in un’epoca in cui — le cose sarebbero cambiate più tardi, a partire dal 1942-43 — risultava estremamente difficile, per non dire impossibile, avere informazioni precise, in tempo reale, circa una nave sospetta che venisse fermata nel corso di un pattugliamento marittimo. In pratica, la nave che compiva il riconoscimento restava esposta, per alcuni fatali minuti, ad una eventuale reazione della nave da essa fermata, prima che le potessero giungere, via radio, i dati relativi alla conferma della identità di quest’ultima. E, come se non bastasse, l’Ammiragliato britannico, all’epoca, era ancora propenso a che le navi corsare tedesche, se fermate in mare, possibilmente non dovessero venire distrutte, ma catturate intatte, in modo da poterle poi utilizzare in sostituzione del naviglio alleato distrutto appunto dai corsari.

È degno di nota che una situazione quasi identica a quella in cui venne a trovarsi il «Sydney» il 19 novembre 1941 si era verificata quasi due anni prima, nel gennaio del 1940, allorché l’incrociatore leggero «Neptune» (il quale, guarda caso, era il gemello del «Sydney») aveva fermato, al largo della costa africana occidentale, l’incrociatore ausiliario britannico «Q», del quale voleva controllare l’identità, sospettandolo di essere un corsaro tedesco camuffato. In quella occasione, il comandante di quest’ultimo aveva segnalato all’Ammiragliato di Londra che, se la sua unità fosse stata realmente quello che il «Neptune» aveva sospettato, avrebbe avuto tutto il tempo di sorprenderlo e infliggerli gravissimi danni, poiché esso si era avvicinato fino a poche centinaia di metri e aveva atteso di effettuare il riconoscimento per parecchi minuti, esponendosi pressoché inerme ad una possibile, improvvisa reazione della nave fermata.

Evidentemente, però, tale segnalazione era caduta nel vuoto, o, quanto meno, non aveva prodotto alcun effetto pratica, poiché al comandante Burnett, come agli altri suoi colleghi della Marina britannica (e di quelle dei Dominions, Australia e Nuova Zelanda comprese) non erano state fornite consegne più precise e, soprattutto, ispirate ad una maggiore prudenza, in caso d’incontro con navi sospette in alto mare: in pratica, le istruzioni per un caso del genere erano talmente vaghe e generiche, che ciascun comandante poteva sentirsi libero di interpretarle nel senso che riteneva più opportuno e confacente alla propria situazione; in pratica, di agire secondo le proprie personali convinzioni e abitudini in fatto di priorità da rispettare e del contegno da tenere riguardo alla sicurezza della propria nave.

Quanto alla totale mancanza di superstiti del «Sydney», a qualcuno venne in mente, quasi come un riflesso condizionato, la possibilità che l’autore del suo affondamento non sia stato solo, come tutti credono, e come vuole la versione ufficiale, il «Kormoran», ma che la nave corsara tedesca sia stata affiancata, e aiutata, da un’altra unità da guerra, rimasta sconosciuta: e come non pensare a un sottomarino? Solo un sottomarino avrebbe potuto colpire e affondare lì’incrociatore australiano con i suoi siluri, e poi allontanarsi, facendo perdere le proprie tracce, anzi, facendo sì che la parte da esso avuta in quella battaglia, rimanesse del tutto ignorata. Qualcuno si spinse anche oltre e immaginò che non si fosse trattato di un sommergibile tedesco — dall’esame dei registri navali della Kriegsmarine, in effetti, non risultava nulla del genere, neppure quando essi furono a disposizione dei ricercatori internazionali, dopo la fine della seconda guerra mondiale – ma giapponese. L’azione di un sottomarino poteva spiegare la distruzione del «Sydney» in una maniera che appariva meno sconvolgente per l’altissima opinione di sé che avevano gli alti gradi della Marina imperiale britannica (e della Marine collegate dei Pesi del Commonwealth), meno lesiva — diciamolo pure — del loro amor proprio. Ciò avrebbe "assolto", almeno in parte, il comandante Burnett dal sospetto di aver agito con poca prudenza, e l’intero equipaggio dall’onta, se così la si vuol considerare, di essere stato ridotto all’impotenza da una nave molto inferiore sotto il profilo bellico, perché meno armata, meno protetta e meno veloce.

Quanto alla totale mancanza di superstiti del «Sydney», rimaneva un’altra possibilità, almeno in via teorica, e sempre per placare l’amor proprio di quegli ufficiali e di quei tecnici della Marina che facevano fatica ad accettare i fatti, così come sembravano essersi svolti: la possibilità che Detmers, in spregio alle regole di guerra, avesse fatto aprire il fuoco a tradimento, vale a dire prima di avere ammainato la bandiera posticcia che innalzava sulla sua nave (una bandiera olandese, per la cronaca, stante la vicinanza delle Indie Orientali Olandesi: le quali, peraltro, erano in procinto di cadere sotto i colpi dell’invasione giapponese, fra il dicembre del 1941 e il principio del 1942) e di avere innalzato, come vuole il diritto di guerra, la bandiera della propria Marina. È vero che tutte le testimonianze rese dai prigionieri erano concordi su questo punto, a partire dal comandante Detmers e fin giù all’ultimo marinaio: ma i testimoni, per l’appunto, erano tutti e solo tedeschi, mentre nessun marinaio australiano si era salvato. Le testimonianze asserivano, unanimemente, che erano trascorsi sei secondi esatti fra l’atto di ammainare la bandiera olandese e quello di innalzare la bandiera del Terzo Reich: sei secondi, alla fine dei quali, senza sprecarne nemmeno un settimo, i cannoni del «Kormoran», dopo essere stati scoperti, avevano aperto il fuoco, scaraventando sull’allibito incrociatore australiano una vera e propria tempesta di ferro e fuoco.

Ebbene, la discussione — del tutto accademica — si concentrò, allora, con le relative polemiche, ipotesi e congetture — intorno a quel grappolo di secondi. Era possibile, ci si chiedeva, che le cose fossero andate proprio in quel modo: che in appena sei secondi i marinai tedeschi avessero ammainato la bandiera olandese, innalzato la propria e solo dopo di ciò, e sia pure immediatamente dopo, aperto il fuoco? Non poteva essere accaduto che il comandante Detmers avesse barato nel raccontare i fatti, e i suoi marinai con lui, asserendo di avere aperto il fuoco solo dopo aver mandato a riva la bandiera con la croce uncinata, mentre invece lo aveva fatto prima, perpetrando, così, un vero e proprio crimine di guerra? Eppure, un poco alla volta, le polemiche finirono per calmarsi; tanto più che la posizione di entrambi i relitti, quello del «Sydney» e quello del «Kormoran», è stata recentemente identificata, e le ricerche avviate dalle autorità australiane hanno confermato, per quanto possibile in simili casi, la versione ufficiale del combattimento navale, o, quanto meno, non hanno fornito alcun supporto a teorie alternative.

Un discorso a parte andrebbe fatto per il cadavere recuperato il 6 febbraio 1942 sulla costa dell’Isola Christmas, che ha dati luogo, anch’esso, a infinite discussioni e ipotesi: il cadavere di un uomo giovane, di razza bianca, di statura piuttosto alta, indossante una divisa della Marina australiana. Il corpo era assai malridotto dalla lunga permanenza in acqua e dall’opera degli squali, che ne avevano divorato alcune parti; pure, l’ipotesi più probabile è che si trattasse di uno degli uomini formanti l’equipaggio del «Sydney». Il cadavere venne sepolto sull’isola (che fu temporaneamente occupata dai Giapponesi, precisamente dal 31 marzo del 1942 al 1945, quasi al termine della seconda guerra mondiale) e, molto tempo dopo, sottoposto a vari esami, fra i quali, nel 2006, quello del DNA. Non è stato possibile saperne molto di più; tuttavia, poco alla volta, e ammesso che si tratti di un membro del’equipaggio del «Sydney», la rosa dei possibili "candidati" si è molto ristretta: su un totale di 645 uomini, lo sconosciuto dell’Isola Christmas dovrebbe essere identificato in una cerchia di non più di una cinquantina di essi. La statura (187 centimetri) e altri particolari anatomici hanno fornito indicazioni plausibili; va aggiunto che, nel corso degli esami, è risultato che il cranio risultava ferito da una scheggia di granata tedesca, e sarebbe stata quella la causa della morte, non l’annegamento, anche se lo sfortunato marinaio indossava un galleggiante di salvataggio del tipo in uso nella Marina australiana.

In conclusione, la breve ma micidiale battaglia navale del 19 novembre 1941 (appena trenta minuti di fuoco), presso l’isola Dirk Hartog, resta un episodio piuttosto sorprendente della seconda guerra mondiale, non tuttavia così misterioso, o addirittura inspiegabile, come lo si è voluto considerare da parte britannica.

È chiaro — duole dirlo — che il comandante Burnett, veterano della prima guerra mondiale e già segnalatosi, in Mediterraneo, nella battaglia di Punta Stilo contro la flotta italiana, agì in maniera imprudente quando si accostò a meno di un chilometro dalla nave tedesca e vi si mantenne per diversi minuti: minuti preziosi per il nemico, che, tergiversando nel rispondere ai segnali di riconoscimento, ebbe il tempo di predisporre i cannoni e ogni altra cosa per il combattimento imminente. È chiaro che, così facendo, il «Sydney» rinunciava a uno dei suoi punti di forza, la maggiore velocità, che gli avrebbe consentito di tenersi fuori della portata di eventuali batterie nemiche, pur continuando a tallonare la nave sospetta, sì da poterla prendere sotto il fuoco in qualsiasi momento. Ora, vicino com’era alla nave sconosciuta, l’equipaggio del «Sydney» era anche esposto al fuoco delle mitragliatrici nemiche, che, infatti, causò gravi perdite; cosa che non sarebbe accaduta se l’incrociatore leggero si fosse mantenuto a debita distanza.

Non solo: pare ormai accertato che solo una parte dei serventi dell’incrociatore australiano fossero ai pezzi, pronti ad un eventuale combattimento: e anche questa è una cosa difficilmente spiegabile, finché sussisteva la possibilità — e tale era appunto il caso — di dover entrare in azione improvvisamente, senza perdere neppure un istante. Non si è mai vista una nave da guerra che si dispone ad affrontare una battaglia, o il rischio concreto e immediato di dover sostenere un combattimento, senza che tutto il personale di bordo, e specialmente quello delle artiglierie, sia stato comandato ai propri posti. E non si capisce perché l’elicottero non si sia alzato in volo, invece di aspettare, immobile, la sua fatale distruzione: dall’alto, avrebbe potuto tener d’occhio la nave fermata e riferire alcuni particolari utili alla sua identificazione.

Il terzo errore fatale, una volta ingaggiata la battaglia, fu, probabilmente, quello di rinunciare a speronare la nave tedesca: con il fuoco a bordo, le batterie semidistrutte e quelle ancora efficienti bloccate dall’arresto del sistema di punteria, il «Sydney», che aveva incassato anche un siluro e parecchi colpi sulla linea di galleggiamento, né poteva più contare sull’attrezzatura antincendio, che era stata distrutta, non aveva davvero più niente da perdere. Ma forse il suo comandante, in quel momento, era già morto; forse egli, o chi lo aveva sostituito, sperava ancora di poter salvare la nave, o, quanto meno, potarsi più vicino alla costa, in modo da permettere all’equipaggio di mettersi in salvo. Non lo sapremo mai, perché le ultime ore di vita della nave sono avvolte in una oscurità totale.

L’inchiesta ufficiale della Marina australiana giunse alla conclusione che il comportamento del comandante Burnett non era stato dettato da leggerezza, ma certo rimaneva inspiegabile: una maniera compassionevole, ma formalmente corretta, di non infierire sulla sua memoria.

Quegli studiosi e quei militari britannici che hanno immaginato chissà quali scenari romanzeschi per spiegare quel che a loro appariva inaccettabile, bisogna che si rassegnino: anche nella Marina più potente del mondo si possono commettere degli errori, alcune volte: e questa fu una di esse.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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