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Anton Lazzaro Moro, il mistero d’una carriera non realizzata

C’è qualcosa che non torna, nella vita e nella carriera di Anton Lazzaro Moro – intendiamo sia la carriera accademica, sia quella ecclesiastica -, uno dei maggiori naturalisti italiani ed europei della prima metà del XVIII secolo, tanto è vero che il suo nome è ancora oggi pochissimo conosciuto, tranne che da una ristretta cerchia di persone, perlopiù residenti nel suo paese d’origine, San Vito al Tagliamento, e nella regione ove trascorse quasi tutta la sua esistenza, il Friuli.

Poche vie portano oggi il suo nome, fra le quali uno dei vecchi borghi di Udine, nella zona nord-occidentale della città, da Piazzale Diacono a Via Mantica, un tempo noto, in verità, come Borgo San Lazzaro: e perfino moltissimi udinesi credevano, e continuano a credere, che il nome si riferisca a un non meglio precisato santo che porta quel nome (in verità, esistono tre personaggi così denominati, e che la Chiesa cattolica considera santi: Lazzaro di Betania, quello resuscitato da Cristo; Lazzaro, il povero lebbroso, ricordato da Gesù nella parabola insieme al ricco Epulone; e infine un monaco di Costantinopoli, vissuto fra VIII e IX secolo) e non al valente studioso, naturalista, musicologo ed educatore, staremmo per dire pedagogista, nato il 16 marzo 1687 e morto, nella sua cittadina natale, il 3 aprile 1764.

Come studioso di paleontologia e autore di una originale – e sostanzialmente esatta – teoria sulla formazione dei fossili marini nelle rocce della catena alpina e di altre catene montuose, il suo nome è oggi quasi sconosciuto al grande pubblico, benché non lo fosse ai massimi geologi europei, cosa che si può, almeno in parte, capire, tenendo conto che egli visse sempre in una regione italiana che allora era considerata periferica, relativamente lontana dai grandi centri culturali e dalle maggiori università — quella di Padova e quella di Venezia, senza mai potersi confrontare direttamente — ma solo per via epistolare — con i maggiori scienziati del tempo, e senza essere mai stato seriamente candidato (ma è una storia che tante volte si è ripetuta e si ripete, nell’Italia delle raccomandazioni e delle consorterie) a una cattedra universitaria, posizione che avrebbe comportato il riconoscimento dei suoi meriti e quella notorietà, anche internazionale, che gli spettava.

Egli fu un personaggio solitario, sostanzialmente un isolato, pressato da impegni e incombenze di tutt’altra natura che la ricerca scientifica, e, infine, risultò incompreso da molti, i quali lo accusarono di "empietà" ed "ateismo": e tuttavia Anton Lazzaro Moro aveva formulato, in completa autonomia, una teoria sull’origine dei fossili marini che contiene folgoranti anticipazioni di quella che è la moderna paleontologia.

La sua opera voluminosa, «De’ crostacei ed altri marini corpi che si truovano su’ monti», benché tradotta in tedesco e in francese qualche anno dopo, non ebbe quella rinomanza che avrebbe ampiamente meritato, anche se probabilmente fu letta – o, almeno, ne furono letti estratti e recensioni – dai grandi naturalisti, specialmente inglesi e francesi, del secolo XVIII, da Georges-Louis Buffon a James Hutton, i padri delle moderne scienze della Terra. Ferveva allora la vivace polemica fra «nettunisti» e «plutonisti» che, dal terreno specifico della disputa sulla misteriosa origine dei fossili marini, implicava la concezione generale del passato geologico del Pianeta e, per certi versi, riproponeva motivi del conflitto ‘galileiano’ tra scienza e fede, in quanto poneva l’ineludibile confronto con il racconto biblico della creazione.

Moro fu un plutonista convinto e, al tempo stesso, uno strenuo difensore della separazione tra metodo scientifico e Rivelazione; quanto al metodo scientifico, sostenne l’importanza dell’osservazione dei fatti concreti e la superiorità di essa sul procedimento puramente logico-deduttivo. Per questo vide nell’emersione dal mare dell’Isola Nuova, nell’arcipelago delle Cicladi, avvenuta nel 1707, il fatto che avrebbe rivoluzionato le antiche concezioni sulla storia naturale della Terra. E, tuttavia, egli ebbe l’ardimento speculativo di far leva su quel solo fatto, e su pochi altri tramandato fin dall’antichità (relativi alle eruzioni dell’Etna e del Vesuvio) di concepire una teoria modernissima della scienza geologica, che metteva radicalmente in discussione molte "verità" acriticamente accettate e molte apparenti evidenze della natura.

Don Giuseppe Marchettii, un valente storico delle cose friulane anch’egli non adeguatamente conosciuto, ne ha tracciato un ritratto attendibile, e nondimeno, in un certo senso, pieno di lacune e di sottintesi, che stimola la curiosità del lettore moderno, senza appagarla interamente, non per colpa dell’autore, ma perché effettivamente, nella vita di questo prete-scienziato del Setteento, vi è qualcosa di non del tutto chiaro, qualcosa di non detto dai suoi contemporanei, che irrita un poco e lascia perplessi (da: G. Marchetti, «Il Friuli. Uomini e tempi, Udine», Del Bianco Editore, 1974 (2 voll.), vol. 1, pp. 478-485:

«In altri tempi, non ancora molto lontani, la figura di Anton Lazzaro Moro avrebbe potuto presentarsi come quella di un mezzo-martire di un quasi-libero pensiero. La sua vita, piuttosto agitata e travagliata, fu tale anche, e forse soprattutto, perché nel suo ambiente certi suoi atteggiamenti parvero troppo audaci contro una tradizione paesana di sorda e malevola ortodossia: episodio, questo, piuttosto singolare in una regione come il Friuli, che veramente non annovera, tra i suoi pregi o i suoi difetti, l’audacia. […] Ordinato sacerdote intorno al 1710, restò per qualche tempo nel paese natio, attendendo a compiere la sua istruzione ed, in qualche misura, al ministero. Grazie alla buona conoscenza che aveva della lingua francese, gli fu presto affidata la direzione spirituale di una casa delle religiose di S. Francesco di Sales che vennero allora dalla Francia a stabilirsi in San Vito. Ma dopo qualche anno mons. Antonio dei conti di Polcenigo, vescovo di Feltre, lo chiamò ad insegnare lettere e poi filosofia nel suo seminario ed infine gli affidò la direzione dell’istituto stesso. Pare che, in tale qualità, l’abate Moro abbia introdotto parecchie riforme nell’ordine e nel metodo degli studi, sostenuto in ciò pienamente dal suo vescovo, ma forse non approvato dal clero locale. Infatti alla morte del Polcenigo, avvenuta nel 1724, il Moro dovette ritornare a San Vito e manifestò il proposito di dedicarsi alla predicazione. Le insistenze del vescovo di Concordia, nella cui giurisdizione egli era rientrato, per fargli accettare la direzione della cappella musicale nella cattedrale di Portogruaro, poterono nascere, oltreché dalla conoscenza e dalla passione del Moro per la musica, anche dal desiderio del vescovo stesso di legarlo ad un compito, dove avesse minore campo di suscitare scalpore o discussioni. Il Moro accettò, ma forse non capì o non si adattò: essendosi ormai appassionato all’educazione dei giovani, aprì una specie di scuola primaria nel palazzo ora scomparso degli Sbroiavacca, dedicando all’insegnamento il non poco tempo che il suo ufficio gli lasciava libero. I biografi dicono ch’egli lasciò nell’archivio musicale della concattedrale qualche saggio di sue composizioni sacre, ma non precisano per quale ragione, dopo qualche anno, egli abbia chiuso quella scuola e sia ritornato a San Vito. Quivi, a tutte sue spese, inaugurò per i ragazzi più grandicelli una specie di scuola-convitto che, condotta da buoni maestri, per parecchi anni fiorì e fu frequentata con molto profitto educativo e culturali da numerosi giovani di nobili famiglie friulane e forestiere. Ma poi il Moro fu costretto a chiuderla. Ostilità sotterranee, molestie oscure, male arti di avversari, sulle quali si trovano concordi allusioni ma nessuna specificazione nelle notizie della sua vita, lo costrinsero a questo passo, che dovette riuscirgli particolarmente acerbo. Il significativo riserbo da parte dei biografi, che del resto rendono aperta ed ampia testimonianza della competenza, della solerzia e dell’integrità morale del Moro, fa pensare che anche questo episodio sia da ricollegarsi con i precedenti. Il Comune di Corbolone, giuspatrono dell’omonima pieve, che però era soggetta alla diocesi di Udine, invitò allora il Moro ad assumere la cura spirituale di quel luogo. Vi durò alcuni anni, adempiendo con zelo i suoi uffici, come risulta anche dai molti scritti di carattere pastorale che lasciò inediti. Ma poi, un po’ per la salute ormai cagionevole, un po’ per le avversioni che non cessavano dal disturbarlo, vi rinunciò. Il vescovo di Pola, mons. Balbi, gli propose di assumere l’educazione e l’istruzione di tre suoi nipoti; ed egli accolse anche questo invito, mutando così per la quarta volta diocesi di residenza. Ma a Pola resse appena qualche mese, dopodiché, accusando insofferenza per l’aria marina, ritornò a San Vito e trascorse gli ultimi anni nell’abbandono e nell’indigenza. Morì il 15 aprile 1764 di «idropisia secca» (arteriosclerosi?), mentre ancora sognava di poter riaprire il suo convitto.

La ragione prima della fama che il Moro godette (più fuori d’Italia che in Italia) ed anche delle contrarietà ch’egli dovette subire nella sua vita, va ricercata anzitutto nella posizione ch’egli prese, nel campo della scienza, con il suo trattato in due libri "De’ Crostacei e degli altri marini corpi che si truovano su’ monti", pubblicato in nitida edizione da Stefano Monti a Venezia nel 1740. Il titolo modesto (ed oggi un po’ strano) di questo libro non deve trarre in inganno sulla sua portata: si tratta infatti di un largo studio sui fossili in generale e sulla loro formazione, con la presentazione di tesi del tutto nuove circa la genesi delle attuali forme della superficie terrestre. […] Anton Lazzaro Moro, prendendo le mosse dalla recente comparsa (1706) di un isolotto vulcanico ricco di crostacei fossili nell’arcipelago greco, presso Santorini, dalla formazione del vulcano di Montenuovo Pozzuoli, avvenuta nel 1538, e da altri consimili fenomeni verificatisi in tempi storici, propose la tesi che l’emersione d tutte le montagne sia avvenuta sotto la spinta di forze endogene esplicatesi attraverso vulcani. […] Oltre al torto – perdonabile a quei tempi – di generalizzare eccessivamente la portata della sua intuizione, Moro ebbe l’altro – allora più grave – di dedicare tutto il primo libro, cioè metà del trattato, alla confutazione delle ipotesi diluviali del Burnet e del Woodward. Con ciò egli, pur non negando il fatto del Diluvio biblico, assumeva un atteggiamento che poté sembrare sospetto, proprio in quel momento in cui Voltaire e gl’illuministi in genere andavano diffondendo il loro scetticismo antibiblico. Non risulta che alcuna autorità ecclesiastica si sia mai pronunciata apertamente contro le idee del Moro: né avrebbe potuto farlo, giacché egli non esprimeva il minimo dubbio o dissenso su questioni di fede e si limitava ad affermare che la spiegazione dei fenomeni naturali va ricercata nelle leggi della Natura. Ma già una sua dissertazione in forma di lettera sull’origine dei crostacei fossili, pubblicata nel 1736, aveva dato luogo ad uno scambio di repliche polemiche tra lui ed il medico Pujati; e la comparsa dell’opera definitiva destò un vespaio di discussioni, che indussero il Moro a difendere la sua tesi con successive insistenze.»

Secondo il Marchetti, dunque, è probabile che la maggior parte delle difficoltà e delle incomprensioni, che amareggiarono la vita di Anton Lazzaro Moro e che bloccarono, di fatto, la sua carriera, sia riconducibile a un tipico contrasto "galileiano" tra scienza e fede, nel senso che alcuni zelanti difensori di una visione integralmente religiosa del sapere cedettero di scorgere, nelle sue tesi geologiche, un attentato alla lettura tradizionale della Bibbia.

A questo bisogna aggiungere una certa imprudenza, o, forse, una certa tendenza alla sfida, da parte del Nostro, non solo in ambito scientifico, ma anche in quello pedagogico: la sua grande passione educativa, che, come si è visto, non lo abbandonò fino agli ultimi giorni di vita, quando tutti i suoi esperimenti di scuole e convitto si erano chiusi con un sostanziale insuccesso, si accompagnò all’introduzione di metodi educativi nuovi, dei quali poco sappiamo, ma che gli attirarono, anche qui,m le critiche degli ambienti più conservatori. A rendere ancor più debole la sua posizione contribuì il fatto di aver dato alle stampe un libretto, «Elementi di grammatica latina secondo il nuovo metodo di Portoreale», che incautamente, forse solo per ingenuità, tirando in ballo il notissimo centro giansenista di Port-Royal, pareva fatto apposto per rinfocolare sospetti e dicerie malevole nei suoi confronti.

E non basta. Sappiamo che, dopo aver stampato (veramente prodigioso quel suo ingegno così multiforme!) una proposta di «Riforma del Breviario Romano», ebbe il candore, o l’impudenza, di mandarne una copia in dono al pontefice Benedetto XIV (1740-58), cui non piace affatto, anche se non gliene derivarono immediate conseguenze negative: ma è lecito pensare che tale proposta avesse un sentore eccessivamente "progressista" e che essa abbia contribuito a creare verso il suo Autore, in alto loco, un giudizio sfavorevole, che poté contribuire all’arresto della sua carriera. Sta di fatto che quando il vescovo di Concordia pensò di nominarlo direttore del seminario della sua diocesi (lo era già stato in quella di Feltre), la cosa si arenò misteriosamente.

Scrive Bruno Fabio Pighin nella sua dotta e voluminosa monografia, pubblicata nella ricorrenza dei tre secoli della istituzione del seminario della diocesi concordiense «Il Seminario di Concordia-Pordenone» (Pordenone, Seminario Diocesano, 2004, pp. 105-7):

«Altro interesse del Vescovo per il Seminario [stiamo parlando di mons. Alvise Maria Gabrieli, che fu vescovo di Concordia dal 1761 al 1779] è documentato dalla già citata istituzione dell’insegnamento del diritto canonico, tenuto per lunghi anni dal noto giurista nostro conterraneo Giovanni Politi, e dall’introduzione della cattedra di dogmatica, avvenuta nel 1772 come fu propenso a ritenere il Roder (Roder, G., "Sull’origine, progresso e stato presente del Seminario Vescovile di Concordia in Portogruaro. Memoria letta ecc.", San Vito al Tagliamento, 1846). Inoltre, il Gabrieli avviò opportuni contatti per nominare rettore del Seminario Anton Lazzaro Moro, originario di San Vito al Tagliamento e allora parroco di Corbolone, divenuto celebre come studioso di scienze naturali soprattutto per la sua opera "Dei crostacei". L’operazione tuttavia non andò a buon fine, probabilmente per i problemi economici sollevati dal Moro durante la procedura avviata per assegnargli detto ufficio (Degani, E., "La Diocesi di Concordia", II ediz. A cura di G. Vale, Udine,1924, p. 174).»

Anton Lazzaro Moro fu, dunque, se non un perseguitato, quanto meno un personaggio osteggiato e ostacolato deliberatamente, a causa delle sue opinioni ritenute, a torto o a ragione, non del tutto ortodosse, da ambienti particolarmente sospettosi e retrivi della Chiesa cattolica e della stessa cultura laica del suo tempo? A sdrammatizzare una simile prospettiva si potrebbe osservare che, in verità, l’isolamento e la soluti dine del Moro, che certamente furono un dato reale della sua vita e del suo percorso culturale e professionale, fu lo stesso, o molto simile, a quello che vissero e subirono altri personaggi illustri della sua terra, tagliati fuori dai centri più vivi della cultura e, per giunta, operanti in uno Stato, come la Repubblica di Venezia, che, nel XVIII secolo, era avviato ormai decisamente al declino non solo sul versante economico e politico, ma anche su quello culturale, essendosi ormai spostati altrove i più fervidi centri intellettuali italiani, a Milano e a Napoli. Il Friuli, dunque, era una terra marginale in uno Stato marginale, che, nel quadro dell’Italia e dell’Europa settecentesca, appariva sempre più in difficoltà nel tenere il passo con le correnti più vive del sapere. Pier Gaspardo, nel suo saggio «Settecento letterario. La provincia tra innovatori e conservazione», ha così ricostruito quel particolare contesto storico-geografico (in: Giovan Battista Pomo, «Comentari urbani (1728-91)», Grafiche Editoriali Artistiche Pordenonesi, 1990, p. 466):

«Nel contempo il mondo culturale del Settecento conobbe una particolare ricchezza in uomini nati nella periferia e vissuti in una sorta di difficoltà di dialogo e in pratica in un profondo isolamento rispetto alla società che avrebbe dovuto essere loro più vicina. Anton Lazzaro Morto (1687-1764), insegnante e scienziato innovatore, era nato a San Vito, aveva studiato a Portogruaro e operato nella provincia. Così Enrico d’Altan (1653-1738) storico di famiglia e l’altro matematico e storico sanvitese Gerolamo da Renaldis (1724-1803), o l’inventore maniaghese Lorenzo Selva (1715-1800) autore del binocolo. In genere finirono per essere più conosciuti fuori dai confini della Patria.»

Ed ecco come lo stesso Moro definiva la sua condizione: «Questo estremo canton d’Italia, dov’io dimoro», scriveva in una lettera privata, da San Vito, nel 1739; e, verso la fine della sua vita, nel 1762, riteneva di aver «dato a vedere cosa possa fare un pover’uomo destituito di averi e protezioni, e sempre bersagliato da’ malignanti» (dal «Carteggio (1735-64)», a cura di M. Baldini et al., Firenze, 1993, pp. 30, 163). Un atteggiamento vittimistico, quasi la confessione d’una mania di persecuzione? Niente affatto. Le incomprensioni vi furono davvero, come i maneggi ai suoi danni. In un tempo e in un luogo diversi, un uomo del suo sapere e del suo valore, versato nelle discipline più disparate – dalla fisica alla matematica, dal latino al francese, dalle scienze naturali alla filosofia, per non parlare della musica, sua grande passione, e della pedagogia – avrebbe potuto aspirare legittimamente a ben altri riconoscimenti e a ben altra carriera. Ma è una storia vecchia, purtroppo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Hal Gatewood su Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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