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A che serve un treno, se non passa per i paesi? Un aneddoto su Mussolini e l’Alpago

A tutt’oggi, in pieno terzo millennio, il Cadore non è servito interamente servito, ma solo in parte, dalla linea ferroviaria che, muovendo da Ponte nelle Alpi, giunge fino a Calalzo; e anche quel tratto, negli ultimi anni, è soggetto a frequenti interruzioni e disagi per i viaggiatori.

Eppure la linea ferroviaria per l’alta valle del Piave, da Treviso, era stata progettata e realizzata assai per tempo, non moltissimi anni dopo l’Unità d’Italia: precisamente, nel 1886. Vi era stata incertezza, in un primo momento, se farla passare dalla valle del Piave, ossia per Feltre e Belluno, attraverso la stretta di Quero, oppure per la sella di Fadalto, ossia dalla stazione di Conegliano, sulla linea Udine-Venezia, per Vittorio Veneto e Ponte nelle Alpi. Infine si era optato per la prima soluzione, e in soli due anni di lavori, l’opera era stata condotta a compimento.

Più tardi, sotto il fascismo, si era ripresa in esame la possibilità di realizzare il secondo tracciato; ma i fondi scarseggiavano, erano gli anni della grande crisi, e la cosa si poté fare solamente nel 1938. I lavori, anche questa volta, furono condotti con grande velocità, anzi, con velocità eccezionale: solo il tratto fra Vittorio Veneto e la conca del lago di Santa Croce, a cavallo della Sella di Fadalto, presentava delle difficoltà tecniche di non piccolo momento: si trattava di realizzare una serie di gallerie e semigallerie a mezza costa di un ripido crinale, ora sul lato sinistro, ora su quello destro della Valle Lapisina; poi, superata la sella, il più era fatto, e il tratto destinato a Ponte delle Alpi sarebbe stato quasi tutto di facile costruzione. Da Ponte nelle Alpi, poi, la nuova linea si sarebbe congiunta con la Belluno-Calalzo, realizzata fra il 1912 e il 194, proprio quasi alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale. Nel 1921 era stata portata a termine la ferrovia delle Dolomiti, da Dobbiaco a Calalzo, via Cortina d’Ampezzo (una linea che più non esiste; si ricordi che Cortina, fino al trattato di pace di Versailles, del 1919, apparteneva all’Austria). Ultima era stata compiuta la ferrovia Agordina, nel 1924-25, che collegava Bribano con Agordo, nella valle del Cordevole, sede di importanti industrie ottiche.

L’inaugurazione della linea Conegliano-Vittorio Veneto-Ponte nelle Alpi ebbe luogo, alla presenza di Benito Mussolini, il 24 settembre 1938, quando già neri nuvoloni si addensavano sull’Europa: il mondo tratteneva il fiato per la controversia fra il Terzo Reich e la Cecoslovacchia riguardo al territorio dei Sudeti, di cui Hitler pretendeva la cessione alla Germania; i due Paesi parevano sull’orlo della guerra e solo con la Conferenza di Monaco, del 29-30 settembre, il pericolo di una guerra immediata venne scongiurato, grazie anche alla mediazione del Capo del governo italiano, che indusse Francia e Gran Bretagna a dissociarsi dalla Cecoslovacchia, costringendo in pratica quest’ultima a cedere alle rivendicazioni tedesche.

C’è da stupirsi che Mussolini, in quei giorni così concitati e, nello stesso temo, così delicati per le sorti dell’Italia e dell’Europa, abbia trovato il tempo e il modo di partecipare personalmente alla inaugurazione di un ramo ferroviario che, dal punto di vista della rete nazionali, può certamente considerarsi come del tutto secondario. In fondo, si trattava di venire incontro alle esigenze di un bacino di utenza non superiore a poche decina di migliaia di persone. La cosa strana, se di semplice stranezza si trattò, fu che la linea venne pensata, disegnata e realizzata seguendo il tracciato più lineare possibile, vale a dire che, superata la Sella del Fadalto, Ponte nelle Alpi venne raggiunta stendendo il binario (si trattava e si tratta ancora oggi, infatti, di una linea a binario unico) lungo la riva occidentale del lago di Santa Croce, quasi perfettamente in linea retta.

La stranezza, se così vogliamo chiamarla, consiste nel fatto che la riva occidentale del lago, a parte il villaggio di Santa Croce del Lago – frazione di Farra d’Alpago – è alquanto panoramica, ma totalmente deserta: non un solo paese si trova su quel lato del bacino lacustre, infatti la riva corre vicinissima al ripido costone roccioso che corrisponde al lato nord-orientale del Col Visentin (1.763 metri s. l. m.). La zona popolosa si trova sull’altra sponda del lago, a nord-est di esso, e corrisponde alla conca dell’Alpago: si tratta di cinque comuni con le loro numerose frazioni (Farra, Puos, Chies, Pieve e Tambre) le cui popolazioni avrebbero beneficiato moltissimo del passaggio della ferrovia attraverso il loro territorio, o poco discosto da esso, per vedersi facilitate le comunicazioni sia verso Belluno ( e il Cadore), sia verso Vittorio Veneto e Conegliano.

Così come venne realizzata, invece, la nuova linea ferroviaria pareva una beffa: passava sulla riva disabitata del lago e lasciava tagliati fuori i cinque comuni suddetti, nei quali si concentrava quasi tutta la popolazione della conca (rimandiamo il lettore, per informazioni più specifiche, all’ottimo sito Internet intitolato Belluno Ferrovia). Si tentò miseramente di rimediare costruendo una piccola stazione in località La Secca, oltre l’estremità nord-occidentale del lago e già in territorio comunale di Ponte nelle Alpi, alla quale venne dato il promettente nome di Stazione per l’Alpago: come dire, chi vuole proseguire per l’Alpago, ma con i propri mezzi, può scendere qui. Ma altri mezzi non ce n’erano, e anche questa sembrò press’a poco un’altra beffa per le speranze di quelle popolazioni, di vedersi finalmente allacciate dalla ferrovia con il resto del mondo.

Mussolini, che forse era un superficiale, sicuramente un dilettante, ma che di certo non era uno sprovveduto, né uno stupido, nel corso del viaggio si rese conto immediatamente che qualcosa, nella linea appena costruita, non quadrava: il panorama, dai finestrini del treno, era magnifico; si vedevano sfilare, come in una cartolina, i paesi dell’Alpago, adagiati a mezza costa, circondati dalla loro magnifica chiostra di monti, fra il Dolada e il Cavallo; c’era un particolare, tuttavia, che strideva: quei paesi erano sulla sponda sbagliata del lago, o, per meglio dire, era la ferrovia che correva sulla sponda sbagliata! Strano, e tuttavia vero: chi aveva disegnato e realizzato la linea, non aveva tenuto conto di questa semplicissima, elementare verità: che le ferrovie servono a prelevare i passeggeri e le merci e dunque devono passare per i paesi, non in vista dei paesi, perché la gente non paga il biglietto per ammirare il paesaggio dal finestrino, ma per essere portata velocemente presso altri paesi e città, o per spedirvi la propria merce.

Così rievoca quel lontano, ma significativo episodio Emilio Da Rold nella sua interessante e ben fatta monografia «Turismo e sport nella provincia di Belluno durante il Fascismo» (Istituto Bellunese di Ricerche social e culturali, 1994, pp. 27-8):

«Dopo la guerra i lavori per il tronco Vittorio veneto-Ponte nelle Alpi vennero avviati solo nel 1922; ma fu un povero avvio. L’opera rimase infatti interrotta per vari anni, e cioè fino al 1927, allorché — per volere di Mussolini, secondo la nostra fonte — essa venne ripresa. I lavori si protrassero però fino al 1938; e la linea, conformemente al progetto, "filò purtroppo diritta", costeggiando la riva occidentale del lago di S. Croce La nuova linea trascurò quindi la zona bassa dell’Alpago, e cioè in pratica l’Alpago in toto, che si trova immediatamente a oriente del lago: la vicenda della costruzione della linea Vittorio Veneto-Ponte nelle Alpi fu dunque "per l’Alpago uno schiaffo morale, una burla che destò in molti lo sdegno e il disgusto. E se si cercò di correre a qualche riparo, si riparò solamente col far erigere una stazione ferroviaria alla Secca, una località di Ponte nelle Alpi prospiciente all’Alpago. Conforme al rassegnato desiderio dei paesi al di là del lago, ,m ponendovi pure la scritta generica "Stazione per l’Alpago". Triste ed oscura fu dunque la storia di una ferrovia che di lontano guarda all’Alpago" (B. Bersaglio, "Il treno per le valli del Bellunese", p. 129). […]

Sebbene subito dopo l’autore della nostra fonte dichiari che "è ora giusto rivivere, coll’aiuto dell’immaginazione, alcuni momenti del giorno inaugurale", questa affermazione va senza dubbio interpretata come un appello all’entusiasmo del lettore, e non già come una preventiva negazione di validità a quanto egli si appresta a narrare anche perché, nel corso stesso della narrazione, farà riferimento a "un teste oculare, la prof. Bentivoglio", a "informazioni avute e alle comunicazioni avute" (Bersaglio, 1301). In ogni caso l’opera appare complessivamente fededegna, sia per la ricchezza delle informazioni in essa contenute, sia per la vastità del materiale consultato, sia per il temo ("dopo quattr’anni la potei spuntare") ad essa dedicato dall’autore, sia per l’aiuto che afferma di aver ricevuto da parte di studiosi della provincia. Secondo la fonte in questione, dunque, il 24 settembre 1938, a metà del percorso del viaggio inaugurale, della linea Vittorio Veneto-Ponte nelle Alpi, poco dopo aver oltrepassato il paese e la stazione di S. Croce, Mussolini che "oltre ad inaugurare la linea stava compiendo a tappe il suo storico viaggio per le città del Veneto", guardando da un finestrino della vettura in cui si trovava i paesi dell’Alpago, che si trovano tutti al di là del lago,, "colpito da stupore" (ivi, 131), domandò ai costruttori del tronco il motivo per cui la linea non fosse stata costruita lungo la riva orientale del lago, così popolosa e bella". Sempre secondo la nostra fonte gli fu allora risposto, in modi reticenti, che nello stesso Alpago si era così voluto, laddove invece a partire dalla ripresa dei lavori nessuna amministrazione comunale di quella zona era stata interpellata a proposito del tracciato della linea, e il tracciato effettivamente realizzato, a sud-ovest del lago, "fu definito ad opera di tre sole persone dell’Alpago, tra cui un certo Alchini di S. Croce, e un certo Stolfo della Secca, che avevano influito presso i progettisti statali".»

Riassumendo, furono necessari ben sedici anni per realizzare un’opera che era stata pensata fin da prima della Prima guerra mondiale: sedici anni durante i quali si interpellarono solo tre persone, tutte palesemente interessate, perché residenti in località poste sulla riva occidentale del lago, circa l’opportunità del tracciato, se ad ovest o a est del lago stesso; sedici anni durante i quali, a quel che consta, nessuno trovò strano, e nessuno ebbe qualcosa a ridire, circa il fatto che la ferrovia venisse fatta correre lungo la sponda quasi disabitata e lasciasse in disparte la sponda popolosa, e perciò interessata e redditizia. Sembra quasi un aneddoto confezionato apposta per illustrare una cronica disfunzionalità delle opere pubbliche italiane, di allora e anche di oggi, nelle quali si investono fior di quattrini versati dai contribuenti, per finalità che sembrano farsi evanescenti e quasi imo perscrutabili, ma che, in ogni caso, non rispondono a criteri di evidente funzionalità e convenienza, semmai fanno pensare ad oscuri maneggi di persone interessate a livello individuale, o tutt’al più a livello corporativistico, e a non chiari rapporti di connivenza, o forse di complicità, fra certe amministrazioni locali e gli enti statali che finanziano le opere stesse.

In altri termini: sembra una costante della nostra storia nazionale il fatto che le opere pubbliche, e le amministrazioni che le decidono e che le possono influenzare, non siano pensate e realizzate in vista di una palese convenienza dell’utenza cui sono dirette, ma che esse siano l’inesauribile serbatoio di clientele, maneggi e ambigue transazioni, di favori e di consensi, oltre che di denaro, e l’inossidabile strumento per alimentare la macchina stessa dei lavori pubblici, con l’ovvio risultato di un sistematico lievitare delle spese preventivate e un corrispettivo ridimensionamento dei benefici previsti, in una spirale viziosa che si autoalimenta incessantemente e che genera un deficit crescente della spesa pubblica, un massimo di disservizio e, a lungo andare, un inevitabile inquinamento della pubblica amministrazione da parte di interessi sospetti, se non di vere e proprie forme di malavita organizzata.

Non ci vuole poi un cervello particolarmente sviluppato per capire che le linee ferroviarie servono a portare i treni là dove ci sono delle popolazioni che ne possano usufruire, e non altrove: infatti a Mussolini, che nulla sapeva di quei luoghi e di quei lavori, e che certamente, in quei giorni del settembre 1938, doveva avere la mente occupata da mille, gravi pensieri, per il destino del nostro Paese (lo aspettavano, a Monaco, Hitler, Chamberlain e Daladier), nondimeno subito se ne rese conto. Gli ingegneri, gli amministratori e i responsabili della ferrovia, che avevano avuto almeno sedici anni di tempo per pensarci, a quanto pare, no.

È possibile trarre una morale da questo piccolo episodio, che si svolse sullo sfondo e nella cornice di ben più gravi avvenimenti e che sembra così lontani nel tempo, mente, per certi aspetti, ci appare anche così vicino e familiare? Noi crediamo di sì, senza dubbio. Ma ci sembra inutile esplicitarlo ulteriormente: chi voglia trarne delle conclusioni per il presente, ne ha — se lo vuole – tutto l’agio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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