Nella teologia della liberazione il cristianesimo evapora e resta solo il marxismo
28 Luglio 2015
O si costruisce l’uomo come persona buona, o si distrugge sia la persona che la società
28 Luglio 2015
Nella teologia della liberazione il cristianesimo evapora e resta solo il marxismo
28 Luglio 2015
O si costruisce l’uomo come persona buona, o si distrugge sia la persona che la società
28 Luglio 2015
Mostra tutto

Una pagina poco nota di Fénelon apre uno squarcio insolito e affascinante

Fénelon, ovvero François de Salignac de La Mothe-Fénelon (Château de Fénelon, 6 agosto 1651-Cambrai, 7 gennaio 1715): basta pronunciare questo nome, insieme a quello del suo grande amico-nemico Bossuet, perché un brivido di riverenza ci attraversi, come accade allorché ci si trova in presenza di personaggi più che rispettabili, di personaggi venerandi, divenuti tali per unanime riconoscimento e a motivo della stima generale e durevole, sia da parte della critica che del vasto pubblico delle persone qualsiasi.

Dire Fénelon, è come dire un pezzo della storia di Francia; è come introdurre l’altra faccia del regno di Luigi XIV e dell’assolutismo: la faccia amante delle cose di Dio, più che quelle degli uomini; amante della serietà e della sostanza, più che del fasto e dell’apparenza; amante della pace, più che della guerra; amante, anche, dell’agricoltura e della sobria vita rurale, più che del commercio internazionale e dell’economia moderna. Significa, inoltre, entrare, in punta di piedi, nel palazzo del bel parlare e del bello scrivere, là dove si temprava definitivamente lo strumento della lingua francese, per farne la lingua colta d’Europa, la più ammirata, la più prestigiosa.

Fénelon è un monumento: con qualcosa di malinconico, che lo rende ancora più monumentale: le sue vicende biografiche successive alla caduta in disgrazia presso il Re Sole; la condanna della sua opera da parte della Chiesa; la sua pronta, obbediente sottomissione; la sua vita esemplare di arcivescovo in ritiro da se stesso, e tuttavia sempre attivo e sollecito del bene altrui; la sua pacatezza, la sua mitezza, in un’epoca di arroganza e di polemiche roventi, nella quale anche il suo grande accusatore, Bossuet, perde un poco del suo "aplomb" e scende di qualche gradino nella nostra stima: tutto questo fa di lui un personaggio insolito, stranamente distaccato e quasi enigmatico, qualcosa a metà strada fra l’asceta e l’intrigante, fra il santo e il miscredente, fra l’uomo ingenuo e l’esperto manipolatore.

Certo, il secolo — il gran secolo, il Seicento — era quello, e produceva anche quel tipo di uomini: nei quali rimane sempre qualcosa di segreto, di misterioso, d’indecifrabile, come nel caso di Gassendi, che non si capisce bene se sia stato un pensatore cristiano o un libertino; si direbbe che in molti di costoro, e certamente in un uomo come Fénelon, fosse rimasta un’ombra di contraddizione, di doppia morale, di bifrontismo spirituale. Egli cadde in disgrazia per aver preso le difese della mistica madame Guyon; in breve, per avere abbracciato le ragioni del quietismo, in un momento in cui trono ed altare erano d’accordo sul fatto di tenere quel fenomeno religioso sotto strettissima sorveglianza, per evitare che potesse sfuggir loro di mano. Pare, comunque, che il papa Innocenzo XII, che pure aveva avallato la condanna del libro di Fénelon «Maxime des saintes», davanti all’accanimento dei nemici di lui anche dopo la sua disgrazia, abbia commentato con queste parole: «Forse Fénelon ha peccato contro Dio, senza saperlo; certo i suoi nemici hanno peccato contro la misericordia dovuta al prossimo, e ben lo sanno».

Ma, al di là di questo, c’è qualcosa, in Fénelon, che lascia perplessi, un po’ ammirati, un po’ diffidenti: come faceva, ad esempio, questo pio arcivescovo, tanto amato dai suoi fedeli per le sue doti e per le sue virtù, a nutrire un amore così grande per il mondo classico, pagano, da scrivere una delle opere più lette su di esso, «Les aventures de Télémaque» (1699); e, per giunta, un’opera decisamente "leggera", dominata dallo spirito di avventura e non certo dalla serietà morale: nella quale, insomma, anche con la miglior buona volontà, riesce difficile, se non impossibile, intravedere qualcosa di cristiano, o di pre-cristiano, come Dante, per fare un parallelo, aveva visto qualcosa di pre-cristiano nel suo amatissimo Virgilio?

Monumento sconcertante, dunque, Fénelon; monumento quasi imbarazzante. Chi era costui, che si privava anche del necessario per soccorrere i poveri, e che viveva in un magnifico palazzo e accoglieva regalmente i suoi ospiti, mentre, quanto a se stesso, si accontentava di uno stile di vita più che morigerato? Un principe del Rinascimento smarrito nelle nebbie dell’età barocca? Un asceta che non seppe mai sottrarsi al richiamo dell’estetismo? Un contestatore politico, che criticò l’assolutismo di Luigi XIV, fingendo di raccontare un romanzo avventuroso, nel quale Mentore, cioè lui stesso, illustrava a Telemaco i vari tipi di governo e i vari usi e costumi dei popoli e delle nazioni? Insomma: uno sprovveduto uomo di cultura, perso nei suoi libri e nelle sue meditazioni, o una mente politica sopraffina? Un vero cristiano, anzi, un cristiano esemplare, perfino un mistico, o un antico pagano e uno scettico travestito da arcivescovo?

Quante domande senza risposta: e più lo s’interroga, quest’uomo indecifrabile, questo scrittore stupendamente armonioso e musicale, e più si rimane inviluppati nel dubbio; e par quasi di sentirsi addosso il suo sorriso sornione, non malevolo, ma neanche del tutto franco, neanche del tutto aperto: perché egli, lo si sente bene, ci nasconde sempre qualcosa di sé, sempre, anche quando appare più sincero, e, forse, perfino quando crede di esserlo, e si sforza di esserlo. Fénelon è uno di quegli uomini e di quegli scrittori che, per eccesso di sottigliezza, sembrano semplici, e per eccesso di semplicità, sembrano troppo sottili, e, quindi, non del tutto sinceri. Questa, almeno, è l’impressione che noi ne ricaviamo: leggere le sue pagine, vuol dire lasciarsi prendere da una singolare magia del periodo, della frase, come da un amico strano, che ti porta dove vuole, senza che tu neppure te ne accorga, e alla fine ti domandi dove sei arrivato, e perché.

Scrive, dunque, Fénelon, evocando un suggestivo squarcio di mitologia greca (in: «La gioia di ogni ora», a cura di M. Barbano, Torino, Società Editrice Internazionale, 1955, pp. 363-364):

«C’era nel paese dei Celti, non lontano dal famoso soggiorno dei Druidi, una scura foresta le cui querce, antiche quanto la terra, avevano veduto le acque del diluvio e conservavano, sotto i folti rami, una densa notte nel cuore del giorno. In questa foresta appartata era una bella fontana più limpida del cristallo e che dava il nome al luogo dove scorreva. Diana andava spesso a colpire co’ suoi dardi cervi e daini in quella foresta piena di rocce scoscese e selvagge. Dopo aver cacciato con ardore, andava a tuffarsi nelle pure acque della fontana, e la Naiade era fiera d’offrire delizie alla da ed a tutte le Ninfe.

Un giorno, Diana cacciò in quei luoghi un cinghiale grande e furioso. Aveva la schiena armata di setole dure, irte ed orribili come picche; gli occhi scintillanti eran pieni di sangue e di fuoco; dalla gola spalancata ed infiammata usciva schiuma mista di sangue nero; la testa mostruosa rassomigliava alla prora ricurva di una nave. Era sudicio e coperto di fango del suo covo, dove s’era avvoltolato; il soffio bruciante della gola agitava l’aria intorno e produceva un rumore spaventoso. Esso si slanciava rapido come il fulmine; abbatteva le messi dorate e desolava tutte le campagne vicine; rompeva gli alti fusti degli alberi più duri, per arrotare le sue zanne contro i loro tronchi; zanne che erano ricurve e taglienti come le spade ricurve dei Persiani. Gli agricoltori atterriti si rifugiavano nei villaggi; i pastori, dimenticando i greggi indifesi erranti nei pascoli, correvano verso le capanne. Tutto era costernazione; perfino i cacciatori con dardi e spiedi non osavano entrare nella foresta.

Diana sola, avendo pietà del paese, s’avanza con la faretra dorata e con le frecce. Una schiera di Ninfe la segue, ed essa le supera di tutta la testa. Nella corsa, essa è più leggera dello zefiro e più rapida del baleno. Raggiunge il mostro furioso, lo trafigge con una delle sue frecce sopra l’orecchio, nel punto ove comincia la spalla. Eccolo avvoltolarsi nei gorghi del suo sangue; getta grida di cui tutta la foresta risuona, e mostra invano le zanne pronte a fare strazio de’ suoi nemici. Ne fremono le Ninfe. Diana sola s’avanza, gli mette il pie sulla testa ed immerge il dardo; poi, vedendosi macchiata del sangue del cinghiale che le era schizzato sulla persona, si bagna nella fontana e se ne va, felice di aver liberato le campagne dal mostro.»

Certo, questa Diana di Fénelon non è una creatura veramente sensuale, come le dee dell’antichità, e neppure realmente maliziosa, come lo è, ad esempio, la Diana di Poitiers, la famosa amante di Enrtico II di Francia, così come ci appare, e ci guarda in tralice, nel celeberrimo ritratto che la raffigura nelle vesti di Artemide cacciatrice, dipinto dalla scuola di Fontainebleau. È più casta, più naturale, più semplice: viene a sapere dei danni e delle devastazioni prodotte dal cinghiale, va e lo affronta con arco e frecce; poi, dopo averlo ucciso, scende nell’acqua della fontana e vi si terge il sudore, come una creatura umana, non come una dea. Ci si domanda come faccia conservare quell’aura divina perfino in quel frangente, eppure è così; e ci si chiede come faccia Fénelon a tenere insieme le due cose, in quella maniera così immediata: il cielo e la terra, il divino e l’umano, la Grecia pagana e la Chiesa cristiana.

La sua penna è casta, e casta è anche la sua Diana; eppure quella scena di caccia, quei particolari crudi, come lo schizzo di sangue della fiera e le sue grida d’agonia, che risuonano per tutta la foresta, introducono una nota di audace realismo; e poi, di nuovo, quel corpo femminile che s’immerge nell’acqua, per lavarsi e rinfrescarsi, senza lasciarci vedere nulla, ma lasciandoci immaginare tutto: non sai se è un capolavoro d’innocenza o un pezzo magistrale di sottilissimo, irresistibile erotismo. Un po’ come nel Tasso, ad esempio nella scena della morte di Clorinda: siamo lì, in equilibrio fra due abissi: quello della santità e quello della concupiscenza. Spiriti come Fénelon vi si trovano perfettamente a loro agio, e intanto ci confondono: restiamo a domandarci se la malizia sorga spontanea in noi, o se siano stati loro a suggerircela, nascondendo poi la mano che l’ha destata e stimolata.

Anche il paesaggio partecipa di questa ambiguità, di questa magica sospensione: una foresta antichissima, dagli alberi nodosi, buia come la notte; una fontana dalle acque pure come il cristallo; un senso di bellezza grandiosa, aurorale, primigenia, come se fossimo all’alba del mondo e ogni cosa apparisse fresca e nuova, appena uscita dalla mano del creatore. È un paesaggio trasognato, allusivo, metaforico, eppure è anche un paesaggio concreto, che possiamo vedere, e quasi toccare con le mani: sospeso, appunto, fra il dato realistico di partenza e il rapido stemperarsi degli elementi concreti in un’aura fiabesca, rarefatta, ove le cose si trasfigurano e resta quasi solo la potenza evocativa della parola, la musicalità della frase, l’incanto dei suoni.

È certo, comunque, che il Fénelon più vero e più sincero, se mai ve n’è uno, si trova nelle lettere, più che nelle opere edificanti e in quelle scritte per suo piacere (compreso il «Télémaque», che apparve senza il suo consenso, e che subito lo pose in disgrazia della corte di Versailles). Le lettere che egli scrisse ad amici e a conoscenti, talvolta come consigliere spirituale, altre volte come semplice privato, traboccano di una intensa vita interiore, di benevolenza, di scrupolo edificante: si direbbe che egli soppesi ogni parola, perfino ogni virgola, per essere certo di andare dritto al cuore del suo corrispondente, di essere chiaro, di essere rassicurante, di trasmettere la fiducia, la speranza, il buon esempio. Sono le lettere di un uomo buono, che si spende per il prossimo, che si confida con sincerità, che possiede un altissimo senso del dovere e della propria missione spirituale; di un cristiano che vuol farsi latore della Buona Novella, e docile strumento nelle mani di Dio; che vuol fare quanto possibile per portare luce e calore nella vita altrui. Ed eccoci di nuovo impanianti nell’enigma: un santo, allora?

Sia come sia, Fénelon si è portato con sé il suo mistero, e niente e nessuno riusciranno mai a scioglierlo completamente. Anche questo, però, a ben guardare, è cosa di somma importanza: in un certo senso, Fénelon ci è stato maestro, forse, ancora più di quel che egli stesso non credesse: ci ha insegnato la virtù dell’umiltà. Perché egli ha avuto vivo il senso del mistero dell’anima umana, mistero sacro per eccellenza, mistero che Dio solo riesce a penetrare in tutte le sue profondità abissali; e il nostro vago disagio davanti a lui, alle pagine da lui scritte, ne è la testimonianza più efficace. Non si dovrebbe mai presumere di aver capito tutto, o di poter capire tutto: specialmente davanti al mistero più grande che esista, quello del cuore umano. Vi sono cose che non riusciremo mai a penetrare sino in fondo, non solo negli altri, ma anche in noi stessi: cose che solamente Dio sa vedere, comprendere, perdonare, amare. Dobbiamo dire grazie a Fénelon, per questa grande verità…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.