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Se la speciazione ha velocità zero, qualcosa non funziona nella teoria evoluzionista

Gli evoluzionisti ortodossi affermano che le specie viventi si formano nel tempo e che la speciazione è il processo mediante il quale una determinata specie si suddivide in due o più specie figlie che, a partire da quel momento, si evolvono secondo linee distinte.

Si tratta di un processo generalmente graduale (il gradualismo: altro caposaldo dell’evoluzionismo ortodosso di matrice darwiniana), a causa del quale accade che due popolazioni si trovino a differenti gradi del processo di trasformazione in specie nuove, tanto da far sorgere dubbi, nel biologo sistematico, se decidere che gli individui a cui appartengono facciano parte della specie A o della specie B.

Prendiamo, intanto, buona nota di questo fatto: secondo la teoria evoluzionista, esiste un fattore matematicamente misurabile, che si chiama TASSO DI SPECIAZIONE, il quale sta a indicare quante nuove specie sono "comparse" in un certo intervallo di tempo, all’interno di un determinato gruppo di viventi, a partire dalla specie "originaria". Tutto molto semplice e chiaro, no? Peccato che la realtà sia un tantino più complicata; o addirittura più semplice, secondo i punti di vista. Come accade che, in un certo numero di casi, nemmeno tanto trascurabile, il tasso di speciazione abbia velocità zero?

Ci spieghiamo. Mentre l’evoluzionista non ha alcun problema a spiegare la grandissima varietà di specie esistenti in alcune stazioni bio-geografiche (per esempio, le centinaia di specie dell’insetto «Drosophila» sparse sull’arcipelago delle Hawaii), essi hanno qualche imbarazzo, invece, a rendere conto del fatto che, per altre specie, non vi sia stata nessunissima speciazione, ossia che quella determinata specie sia rimasta unica, e sempre identica a se stessa, fin dai più lontani tempi cui si possa risalire.

Come mai squali e coccodrilli sono rimasti quelli che possiamo vedere anche oggi, uguali a come erano 300 milioni di anni fa? Gli evoluzionisti ribattono affermando che, in ambienti uniformi, come le acque marine o le acque fluviali, ciò è possibile, a causa delle condizioni di isolamento riproduttivo. Debole, debolissima risposta: a parte il fatto che, se ciò fosse vero, la stragrande maggioranza delle specie marine e, in genere, acquatiche, dovrebbe rispondere a questa logica e presentare pochissime specie di un determinato genere, mentre è certo il contrario, e cioè che l’unicità delle specie si presenta piuttosto come l’eccezione, che la regola, nel mondo dei viventi; ma che dire delle popolazioni terrestri diffuse non su remote isole, ma nel cuore dei continenti, ove non esistono barriere naturali che, nel corso del tempo, non possano essere superate, come la storia e la stessa osservazioni diretta ci insegnano chiaramente?

Prendiamo il caso di un grande e bellissimo albero, dal portamento elegante e maestoso (può arrivare fino a 40 metri d’altezza, ma anche un’altezza di 30 metri è tutt’altro che eccezionale): il «Ginkgo biloba», vero e proprio fossile vivente dell’Asia orientale. Il Ginkgo è stato rinvenuto, allo stato fossile,in rocce antiche da 250 a quasi 300 milioni di anni fa e appartenenti, perciò, all’epoca del Permiano, nel periodo Paleozoico. Il Paleozoico è il "periodo" più antico nella storia della vita sulla Terra: non ve n’è uno più antico. Ciò vuol dire che questo albero esiste fin da epoche talmente remote, da risultare inimmaginabili per la mente intuitiva, che pensa per immagini e non arriva a immaginare una distanza di tempo così immensa: si può solo coglierla intellettualmente, il che è un’altra cosa. Per dare un’idea di questa immensità: il Ginkgo già esisteva, quando la catena delle Alpi non esisteva affatto , né l’attuale configurazione dei continenti e degli oceani.

Eppure, esso non solo rappresenta l’unica specie esistente (ma gli evoluzionisti direbbero: "ancora sopravvissuta", dando per scontato che dovettero esservene altre) della famiglia Ginkgoacee, ma è addirittura l’unico rappresentante dell’intero ordine Ginkgoales e della divisione delle Ginkgophyta. I botanici, cioè, fin da quando la pianta — che in Cina era nota come "albero di Capelvenere" venne classificata "ufficialmente" dal botanico tedesco Engelbert Kaempfer (1651-1716), nel 1712, e, poi, da quando un altro botanico tedesco, Adolf Engler (1844-1930), nel 1938, ne classificò l’ordine, hanno dovuto creare apposta per lei una famiglia, un ordine e una divisione: un po’ troppo, invero, per andare d’accordo con il gradualismo evolutivo e con la tendenza immancabile alla speciazione, ossia alla formazione di sempre nuove specie, nel corso del tempo.

Bisogna tener presente, infatti, che alla base della teoria evoluzionista c’è l’idea fondamentale che le specie non sono "ferme", ma cambiano nel tempo. Ora, come si spiega che alcune specie non cambiano affatto? Come mai queste specie rimangono sempre identiche a se stesse, sfidano il tempo, attraversano lo scorrere dei milioni e milioni di anni, talché le ritroviamo ai nostri giorni, viventi e in perfetto stato di salute, esattamente uguali a ciò che la documentazione fossile ci mostra per le più lontane epoche geologiche? In altre parole: come si spiega il tasso di speciazione zero? Non è in contrasto con l’idea di una perenne, graduale, incessante trasformazione delle forme viventi in nuove forme, sempre più differenziate dalle prime?

Ne abbiamo già parlato in alcuni precedenti lavori (cfr., in particolare, gli articoli «La resurrezione del Celacanto, fossile vivente dei mari», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 13/06/2007, e «I "fossili viventi" non sono una prova, ma certo un indizio contro l’evoluzionismo», pubblicato sul medesimo sito in data 27/04/2012). Qui c’è qualcosa che non funziona: gli evoluzionisti cercano di minimizzarlo, anzi, fingono proprio di non vederlo; ma tutti, tranne loro, purché dotati di un minimo di spirito d’osservazione, non possono non restare colpiti dall’incongruenza. In un mondo dove tutto muta, dove le specie viventi si trasformano, si moltiplicano, diventano sempre più specializzate rispetto all’ambiente in cui vivono, tanto più che esso pure, a sua volta, si trasforma, ebbene in un mondo del genere vi sono delle specie viventi che se ne vanno per conto proprio, che non rispettano la teoria – o la legge, come i suoi seguaci la chiamano – dell’evoluzione; che se ne infischiano della speciazione; che hanno l’incredibile faccia tosta di non cambiare, di non trasformarsi, di restare quello che erano fin dall’inizio. E ciò mentre tutto cambia, compreso il loro ambiente, dato che non è nemmeno concepibile un habitat terrestre che rimanga uguale a se stesso per diverse centinaia di milioni d’anni.

Eppure, si noti con quanta disinvoltura un testo scolastico per le scuole superiori, uno dei tanti, anch’esso di stretta osservanza evoluzionista, presenta questo piccolo dettaglio, sorvolando completamente su ogni implicazione imbarazzante (David Sadava e altri, «Biologia.blu Plus»; titolo originale: «Life: The Science of Biology», Sunderland, U.S.A., Sinauer Associates, 2008; edizione italiana Bologna, Zanichelli, 2012, p. 198):

«Le specie sono classificate e raggruppate in categorie superiori in base alle somiglianze e alla storia evolutiva. Andando in ordine troviamo generi, famiglie, ordini, classi, phyla, regni, domini. Gli organismi appartenenti a uno stesso gruppo hanno un antenato comune costituiscono un genere, i generi con un antenato comune formano un ordine e così via. La storia di queste categorie superiori, che chiameremo "gruppi", è studiata dalla MACROEVOLUZIONE.

Un dato interessante riguarda il numero di specie presenti in gruppi diversi. Alcuni gruppi di organismi contano molte specie, altri poche. In breve tempo, nelle isole Hawaii, si sono evolute centinaia di specie di "Drosophila", mentre in tutto il mondo esiste una sola specie di ginkgo ("Ginkgo biloba"), sebbene la sua linea evolutiva esista da quasi 300 milioni di anni. Il numero di specie comparso in un certo intervallo di tempo nell’ambito di un gruppo, cioè il TASSO DI SPECIAZIONE, varia considerevolmente da caso a caso. […]

Ma perché i tassi di speciazione dei diversi gruppi di organismi sono così variabili? La probabilità che una linea si divida a formare due o più specie dipende da vari fattori.»

E qui segue l’elenco di codesti fattori: l’abbondanza di specie («più specie vi sono in un gruppo, maggiore è il numero di quelle disponibili per formare ibridi»); la sedentarietà («è probabile che i tassi di speciazione siano più alti nelle specie con scarse capacità di dispersione»), la specializzazione nella dieta (per gli animali) e il tipo di impollinazione (per le piante).

Peccato che il primo e più importante fattore, ossia l’abbondanza di specie, sia puramente tautologico: dia, cioè, per acquisito e assolutamente dimostrato, il fatto dell’evoluzione, anziché concorrere a dimostrarlo; invece di spiegare veramente perché si formino nuove specie viventi, si dice che esse si formano più facilmente dove ve ne sia già abbondanza. Insomma, si pretende di spiegare una sotto-teoria con la teoria principale, da cui la seconda deriva: metodo sommamente antiscientifico.

E peccato che anche il secondo fattore sia poco convincente. Se il tasso di speciazione è più alto nelle specie con scarse capacità di dispersione, che dire del Ginkgo, che, essendo un albero ad impollinazione anemofila, cioè assicurata dal vento, parrebbe avere minori capacità di diffusione rispetto alle piante i cui semi vengono diffusi dagli uccelli o dagli insetti? Come dicono gli stessi Autori sopra citati, «i tassi di speciazione sono in media 2,4 volte superiori nelle piante impollinate dagli animali rispetto alle piante anemofile, impollinate per via eolica». Eppure, in base al secondo fattore, il Ginkgo dovrebbe avere un alto tasso di speciazione: «infatti — proseguono gli Autori sopra citati — una specie i cui membri sono molto sedentari potrà essere frammentata anche da una piccola barriera». Forse che le gigantesche catene di montagne dell’Asia orientale rappresentano delle trascurabili barriere per una specie vegetale che, come il Ginkgo, può contare solo sul vento per superarle, o aggirarle? Secondo la teoria evoluzionista classica, ci si dovrebbe quindi aspettare di trovare moltissime specie di Ginkgo, che, essendo "sedentario", ha pochi mezzi per diffondersi nell’ambiente: esattamente il contrario di quello che accade in realtà.

Qui, in verità, ci troviamo alle prese con un grosso pasticcio concettuale. Da un lato si dice che, quanto più abbondanti sono le specie viventi, tanto più probabile sarà la formazione di nuove specie, da quelle derivate per via di ibridazione. E si fa l’esempio classico degli arcipelaghi oceanici, nelle cui isole si osservano tante specie distinte appartenenti ad uno stesso ordine: a cominciare dalle isole Galapagos e dai famosi (anche troppo) "fringuelli di Darwin", dei quali Darwin aveva capito ben poco (cfr. il nostro precedente articolo: «Darwin, un ambizioso "furbetto", e la leggenda dei fringuelli delle Galapagos», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 09/03/2011). Anzi, perfino sulla stessa isola accade che una specie "sedentaria" si specializzi al massimo, dando vita a nuove specie: ancora gli stessi Autori scrivono (op. cit., p. 199): «Le isole Hawaii contengono circa un migliaio di specie di lumache, molte delle quali sono confinate in un’unica valle. Dato che le lumache coprono solo brevi tragitti, le creste che separano le valli sono barriere efficaci alla loro dispersione.» Dall’altro lato, si afferma che i tassi di speciazione sono più alti nelle specie con scarse capacità di dispersione: ma allora, come spiegare il caso del Ginkgo — e di altre specie vegetali e animali -, nei quali si osserva esattamente il contrario?

Quando si vuole portare avanti una idea per partito preso, tutto ciò che può darle ombra viene allontanato, minimizzato, rimosso; ciò che sembra confermarla, viene enfatizzato. La varietà di specie, faunistica e floristica, del mondo insulare, indubbiamente offre elementi di corrispondenza con la teoria evoluzionista; l’esistenza stessa dei cosiddetti fossili viventi, viceversa, presenta motivi di contrasto. Non è scientificamente corretto soffermarsi sulla prima questione e, intanto, ignorare la seconda: o la distribuzione geografica delle forme viventi è un elemento sempre valido per supportare la teoria evoluzionista, o non lo è mai: non può essere preso in considerazioni a intervalli, cioè quando conviene; e, altrimenti, ignorato.

Certo, non esistono teorie scientifiche che non presentino aspetti di criticità; non esiste la teoria scientifica perfetta, tranne — forse — nell’ambito della matematica: dove, appunto, si ha a che fare non già con le cose concrete, ma con dei concetti logici. Nondimeno, una teoria scientifica deve sempre sottoporsi alla verifica della realtà concreta: e, soprattutto, non può mai prendersi il lusso di contraddire i fatti, o di far finta di non vederli, qualora la disturbino.

Ora, la domanda è: quanto disturba gli evoluzionisti il Ginkgo, quest’albero luminoso e possente?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Vidar Nordli-Mathisen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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