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28 Luglio 2015
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28 Luglio 2015Era il 5 giugno 1981 allorché il Centro per il monitoraggio e la prevenzione delle malattie di Atlanta, negli Stati Uniti d’America, annunciò di aver individuato una pneumocistosi polmonare in alcuni soggetti omosessuali di Los Angeles: a partire da quel momento, il mondo veniva ufficialmente a conoscenza di ciò che già da tempo serpeggiava, sotto forma di voci e sensazioni, ossia della diffusione di una nuova epidemia virale di natura sconosciuta, ma legata, comunque, a ben precisi stili di vita: omosessualità maschile e assunzione di droghe per via endovenosa.
Nei mesi e negli anni immediatamente seguenti, l’opinione pubblica mondiale venne gradualmente a conoscenza di ciò che, negli Stati Uniti, un numero relativamente ampio di persone sapeva già perfettamente, anche se la maggior parte di esse aveva tenuto il massimo riserbo in proposito: e cioè che in alcuni ambienti, particolarmente quelli legati alla pubblicità, al cinema e ad alcuni circoli "artistici" più o meno alternativi e anticonfornisti, soprattutto in California e in alcune città della costa orientale, esisteva una vastissima area di ambienti, di locali particolari e di ritrovi gravitanti intorno al circuito della omosessualità maschile, praticata senza alcuna precauzione igienica e sanitaria e, sovente, con un grado di promiscuità addirittura sconcertante, ad esempio con soggetti che erano capaci di avere decine di rapporti sessuali non protetti nell’arco di una sola settimana, e centinaia e centinaia nel corso dell’anno, con partner di ogni età, razza e condizione sociale, nonché, ovviamente, nelle più varie condizioni di salute.
In altre parole, il mondo veniva a sapere che l’omosessualità maschile, negli Stati Uniti d’America, era ancor più diffusa di quanto non lasciassero immaginare studi di settore, quali il famoso rapporto Kinsey; che, in quegli ambienti, praticare il sesso nella maniera più libera e spregiudicata era la regola, o quasi; che persone assai note del mondo dello spettacolo, come il celebre attore Rock Hudson (che sarebbe deceduto nell’ottobre del 1985), pur avendo costruito la propria carriera sullo stereotipo del maschio virile e grande amatore di donne, praticavano, invece, il sesso omofilo da sempre, e cioè, in pratica, conducevano una doppia vita, quella privata essendo totalmente diversa da quella pubblica. Ma la cosa più scioccante era scoprire che, da molto tempo, all’ombra di una rete di connivenze e di complicità estremamente ramificate, questa realtà era stata tenuta gelosamente celata allo sguardo della società, sicché si era creato un contrasto vivissimo fra ciò che l’opinione pubblica sapeva, o immaginava, o credeva di sapere, e ciò che effettivamente stava accadendo nella "pancia" della società americana.
In un certo senso, e fatte le debite distinzioni, si potrebbe dire che l’annuncio "bomba" del giugno 1981 ebbe un effetto analogo a quello che aveva avuto, sul piano dell’immaginario collettivo, l’uscita, nel 1959, del film di Fred Zinnemann «A Hatful of Rain» («Un cappello pieno di pioggia»), interpretato da Don Murray, Eva Marie Saint e Anthony Franciosa, il quale, come un sasso gettato nelle acque calme d’uno stagno, aveva bruscamente rivelato alla società americana l’esistenza del problema droga, attraverso il dramma personale di un bravo ragazzo reduce dalla guerra di Corea, Johnny Pope, diventato morfinomane e costretto a tenere per sé il proprio segreto, con la giovane moglie in attesa di un figlio che ha notato il suo strano comportamento ma, lontanissima dall’immaginarne la causa, teme che lui la tradisca con un’altra donna.
Quello che si notò fin dall’inizio, ad ogni modo, nel 1981 e negli anni seguenti, fu la pronta levata di scudi, non solo da parte della comunità gay (espressione che allora non si era ancora diffusa), costretta, in un certo senso, a venire allo scoperto, ma anche degli ambienti politicamente corretti, liberali, progressisti, laici e "aperti": una levata di scudi finalizzata a respingere qualsiasi possibile equivalenza fra il diffondersi dell’epidemia (che stava mietendo vittime anche fra persone non tossicodipendenti ed eterosessuali, le quali avevano avuto la sfortuna di essere contagiate, ad esempio mediante delle trasfusioni di sangue) e il comportamento sessuale della categoria che maggiormente ne era colpita, e dalla quale, presumibilmente, la malattia aveva avuto inizio. Ciò che tutti costoro volevano impedire era che l’opinione pubblica vedesse nell’AIDS una sorta di "castigo" o di "punizione", o anche soltanto una sorta di conseguenza, logica e inevitabile, della promiscuità e della sregolatezza di parecchi maschi omosessuali.
Si voleva evitare che si formasse, nell’opinione pubblica, una mentalità da "caccia all’untore", cosa del tutto legittima e comprensibile; ma si voleva anche negare l’evidenza: ossia che esisteva, senza ombra di dubbio, un rapporto di causa ed effetto tra il diffondersi degli stili di vita sempre più promiscui dei maschi omosessuali, e il proliferare della nuova, terribile epidemia. Diventava insomma indicibile il pensiero che qualunque persona di buon senso non poteva non formulare dentro di sé: ossia che l’AIDS era il risultato di un disordine sessuale e di una serie di comportamenti non solo improntati alla più discutibile leggerezza, ma anche, in certi casi, a una malignità deliberata e criminale.
Era emerso, infatti, che alcuni malati di AIDS, pur sapendo di essere sieropositivi, e quindi contagiosi, anche se la loro malattia non si era ancora manifestata, avevano continuato a comportarsi come se nulla fosse, contagiando, così, decine e centinaia di partner occasionali, ai quali si erano ben guardati dal dire qualcosa che potesse metterli sull’avviso e renderli consapevoli del rischio mortale cui si stavano esponendo. Storicamente si tratta di un comportamento che è già stato osservato in occasione di altre epidemie, una sorta di vendetta deliberata contro il mondo dei "sani": come se il malato, consapevole di trovarsi nelle spire di un male che non perdona, voglia rivalersi sull’intera società, infettando quante più persone possibili, per strappare l’amara soddisfazione di sapere che non morirà da solo, ma che porterà alla tomba anche molte altre persone, prendendosi, in tal modo, una sorta di vendetta contro la malattia stessa.
Mirko D. Grmek, già docente di Storia della medicina e scienze biologiche all’École pratique des Hautes Études e illustre studioso dei riflessi culturali delle malattie, così ricorda la "scoperta" ufficiale dei primi casi di AIDS negli Stati Uniti d’America, nella sua monografia «Aids. Storia di una epidemia attuale» (titolo originale: «Histoire du sida», Paris, Éditions Payot, 1989; traduzione dal francese di Claudio Milanesi, Bari, Editore Laterza, 1989, pp. 29-31):
«David Auerbach, William Darrow e altri investigatori dei CDC [Centers for Disease Control; siamo all’inizio degli anni Ottanta del ‘900] scoprirono che nove dei tredici malati omosessuali interrogati (su un totale di diciannove individuati) nelle contee di Los Angeles e di Orange formavano come una specie di circuito sessuale. Questi nove malati avevano avuto, nel corso dei cinque anni precedenti, rapporti con almeno uno degli altri malati del gruppo. Il più delle volte, questi rapporti risalivano a un periodo precedente l’apparizione dei sintomi nel partner. Persone apparentemente sane potevano quindi trasmettere la malattia. Furono riscontrate relazioni anche tra i membri del circuito californiano e un gruppo simile di New York. Asl centro di questo diagramma di contatti omosessuali si trovava un giovane: Gaetan Duglas. Fu soprannominato il "paziente zero".
Quest’uomo, commissario di bordo della Air Canada, omosessuale attivo e passivo, avrebbe contagiato, direttamente o per interposta persona, almeno 40 dei 248 malati americani diagnosticati prima dell’aprile del 1982. Lo si ritrovava come partner sessuale di 9 dei primi 19 casi di Los Angeles, di 22 malati di New York e di 9 malati in otto altre città (Miami, Chicago, ecc.). Steward in congedo, Dugas poteva spostarsi in aereo gratuitamente. Grande viaggiatore, bel ragazzo, e poco avaro del suo fascino, aveva seminato la malattia e la morte in tutti i suoi scali, alla cadenza di circa 250 partner all’anno. Gli investigatori constatarono con orrore che egli era stato certamente contagioso prima di presentare il minimo sintomo. Secondo le loro analisi, l’incubazione di questa nuova malattia superava i dieci mesi.
Il caso di Dugas è allo stesso tempo esemplare e caricaturale. La dimostrazione epidemiologica del suo ruolo di anello centrale, di "punto di intersezione" di una rete di contatti sessuali a catena "dimostra la realtà della trasmissione intima, l’attivismo di certuni, il suo pericolo infettivo e contagioso". In questo contesto, la parola attivismo indica la promiscuità, ma non pregiudica assolutamente la posizione attiva o passiva nell’atto sessuale, poiché — come notava Leibowitch nel 1984 — su questo punto di importanza fondamentale mancavano del tutto informazioni quantitative.
Colpito nel giugno 1980 da un sarcoma di Karposi, identificato nel novembre 1982 come "untore", e informato del rischio che faceva correre ai suoi partner, Dugas non volle cambiare il suo modo di vivere. Fino alla sua morte, avvenuta il 30 marzo 1984, quando aveva 32 anni, ebbe rapporti sessuali senza alcuna misura di protezione. A volte, avvisava i suoi partner, ma solo dopo il passaggio all’atto. Aveva preso l’abitudine di dir loro: "Ho il gay cancer; ne morirò; forse, anche tu". Una sorta di sorda rabbia contro il destino lo dominava, come un desiderio di vendetta. Nel corso di un colloquio medico, dichiarò senza alcuna vergogna: "Io l’ho preso; possono prenderlo anche loro".
Gli storici delle malattie sanno benissimo che tale atteggiamento vendicativo, o quantomeno vendicativamente noncurante, ha contribuito, in tempi più lontani, all’espansione della tubercolosi e della sifilide.
Il caso di Dugas illustra certi errori iniziali commessi tanto dai responsabili della Sanità che dalle organizzazioni omosessuali. Quello che si temeva erano gli ostacoli posti al libero esercizio del "diritto alla sessualità". Più tardi, a partire dal 1985, diversi autori hanno sottolineato "l’irresponsabilità" degli uomini politici e dei leader della comunità omosessuale di fronte ai primi segni del propagarsi dell’epidemia. I primi non hanno stanziato adeguatamente dei mezzi finanziari adeguati, né hanno saputo imporre certe misure legali di coercizione; i secondi non hanno invocato la moderazione dei costumi, né ammesso la "medicalizzazione" della sessualità di gruppo.
Di fronte a questo flagello, quasi tutti i responsabili politici e sociali reagirono in un primo momento con l’incredulità. Avrebbero preferito che il male non fosse contagioso. Ammesso a malincuore la sua contagiosità, trovarono incredibile che una malattia così strana non fosse anche una malattia straniera, venuta dal di fuori. Ma allora, chi l’aveva introdotta negli Stati Uniti, quando, a partire da quale paese? Si trovarono allora delle risposte, le quali, di primo acchito, sembrarono piuttosto soddisfacenti, ma di cui in seguito si dovette riconoscere l’insufficienza e l’arbitrarietà.
Gaetan Dugas non era un cittadino statunitense, cosa che faceva di lui un perfetto capro espiatorio. Ma bisognava arrendersi all’evidenza: non c’era nessuna ragione plausibile per dire che la malattia era venuta dal Canada.
Se, agli inizi dell’epidemia, Dugas ne costituì un "promotore" senza pari, questo non prova ancora che egli sia stato effettivamente il "paziente zero" nel senso forte del termine. Sicuramente, egli ha "regalato" il germe a molti dei suoi partner americani, ma questo non esclude affatto che egli stesso abbia potuto "riceverlo" da un altro americano. Va infatti notato che alcuni dei suoi partner manifestarono prima di lui certi sintomi della malattia.»
Anche se, lo ripetiamo, il comportamento di uomini come Gaetan Dugas rientra in una psicopatologia ben nota alla storia della scienza, e specialmente alla storia delle malattie infettive, resta il fatto che vi è stato un deliberato tentativo per minimizzare o tacere comportamenti come il suo, in parte per non aumentare la diffusione del panico nella popolazione, ma in pare, crediamo, anche per altre ragioni meno nobili, di matrice essenzialmente ideologica: rovesciare il giudizio morale dell’opinione pubblica, facendo in modo che gli omosessuali colpiti dall’AIDS venissero percepiti come vittime "innocenti" e meritevoli esclusivamente di compassione e solidarietà, e non come persone che, con i loro comportamenti e i loro stili di vita, si erano attirate la malattia, e adesso la stavano diffondendo fra ampi strati di popolazione. Si pensi, in proposito, a film come «Philadelphia», girato da Jonathan Demme nel 1993, con la superstar Tom Hanks che interpreta un omosessuale, malato in fase avanzata, costretto a lottare contro la malevola ottusità dei suoi simili…
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