
L’enigma Canaris
28 Luglio 2015
Il Vangelo è annunciato specialmente ai poveri: ma chi sono i «poveri»?
28 Luglio 2015«Poi egli mi mostrò un fiume di acqua viva, limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città e del fiume, che scorre da una parte e dall’altra, vi era l’albero della Vita…". Con queste parole, cariche di suggestione, si apre il ventiduesimo capitolo dell’«Apocalisse», l’ultimo libro del Nuovo Testamento e della Bibbia: il più misterioso, il più inquietante e, per taluni aspetti, anche il più affascinante.
Lasciamo stare, in questa sede, gli aspetti strettamente teologici: ad esempio, il fatto che il fiume di acqua viva, simbolo dello Spirito Santo, scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello; dunque, come affermano i cattolici, e contrariamente a quanto sostenuto dagli ortodossi, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio e non solo dal Padre (quante controversie, quante diatribe e dolorose incomprensioni, a causa di quel fatidico «filioque»!).
Concentriamo invece la nostra attenzione sugli aspetti escatologici e, più in generale, spirituali: l”umanità è in marcia verso la Rivelazione finale, nella quale ritroverà quella sorgente di acqua viva promessa da Gesù alla Samaritana, ma con una caratteristica speciale, che non fa parte della dimensione terrena: che l’acqua dello Spirito Santo non sarà soggetta alla mutevolezza dell’anima umana.
Nella dimensione attuale, caratterizzata dal peccato e dalla morte, la creatura umana si protende verso il suo Creatore e può giungere fino a dissetarsi alla sorgente d’acqua viva della Parola di Cristo; ma, appunto, si tratta di una conquista precaria, costantemente soggetta agli alti e bassi dell’anima e, perciò, sempre minacciata da una forza estranea, capace di seccarla e inaridirla, lasciando l’anima assetata e disperata, persa nel deserto della vita. Nella dimensione della Rivelazione finale, invece, l’acqua viva non sarà più soggetta ad alcun fattore estraneo, ad alcun disturbo da parte della forza maligna, perennemente invidiosa dell’uomo, perché quella forza maligna, totalmente e irrevocabilmente debellata, avrà cessato di esercitare il suo sinistro potere sulla creazione. Lo Spirito, allora, si effonderà direttamente nelle anime, donando loro quella vita eterna, perfetta, incorruttibile, di cui l’immagine del fiume d’acqua viva — tanto più in un contesto geografico caratterizzato dall’estrema aridità, come quello dell’antica Giudea — è il simbolo umanamente più chiaro e comprensibile, oltre che più seducente.
Questo non significa che la situazione finale descritta nel libro dell’«Apocalisse» corrisponda a un puro e semplice ritorno dell’umanità alla dimensione adamitica precedente il peccato originale, cioè alla situazione edenica; non sarà una mera reintegrazione nello stato d’innocenza originario, ma qualcosa di molto più profondo e di più complesso: la riconquista del Bene assoluto, dopo aver fatto l’amara esperienza della caduta. Sarà come ritrovare la strada smarrita, resi più limpidi e trasparenti dall’esperienza della sofferenza; come ritornare alla salute, dopo aver combattuto e vinto contro una gravissima malattia, che aveva minacciato di distruggerci.
La storia umana, dunque, benché destinata a finire, non è una inutile serie di errori, di colpe, di tradimenti dell’uomo verso Dio e verso se stesso; non è una insensata successione di nefandezze e di orrori, scaturita dagli incubi di una mente ottenebrata. La storia umana ha un senso, benché non sia possibile decifrarlo fin tanto che si rimane all’interno della sua prospettiva; così come un senso, inestimabile, lo possiede la singola vita umana, che non è una pagliuzza getta in balia del vento, ma l’occasione preziosa per individuare già qui, fin da ora, nella dimensione della realtà terrena, il proprio significato ultimo: quello del ritorno alla Sorgente, del ritrovamento dei passi perduti e della riconquista, matura e consapevole, della grazia originaria. L’uomo trasfigurato dalla Grazia finale sarà ben altra cosa dall’uomo santificato, ma a prezzo di cadute dolorose, dalla ricerca di Dio.
Così rappresenta il passaggio dalla situazione dell’Eden a quella dei Novissimi il teologo Massimo Rastrelli nel suo libro «Meditazioni sull’Apocalisse» (Roma, Edizioni Dehoniane, 1989, pp. 301-303):
«[Quella descritta in "Apocalisse2, 22, 1-5] si direbbe una descrizione dell’Eden, e infatti qui si raccoglie l’umanità che ha percorso il lungo itinerario del ritorno.
Con il Paradiso cominciava il primo libro della Bibbia, esponendo gli inizi della storia di Dio nell’umanità; con il Paradiso si conclude ora l’ultimo libro, e tale storia sfocia ora in un nuovo felice inizio che non conoscerà fine" (E. Schick, "L’Apocalisse", Roma, Città Nuova). Qui, però, non si tratta semplicemente del paradiso terrestre rinnovato o restaurato, si tratta della Chiesa universale trasfigurata e trasferita dall’esilio alla Patria, . la piazza della celeste Gerusalemme è fiancheggiata da un fiume di acqua viva, che sgorga dal trono di Dio e dall’Agnello: è lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio e alimenta l’albero della Vita, che frondeggia al centro della piazza
.L’immagine della sorgente della vita, dell’acqua viva, è tradizionale nell’Antico Testamento e nel giudaismo. Non si può dire altrettanto dell’espressione: "fiume d’acqua viva", che troviamo soltanto nella letteratura giovannea (cfr. "Giov.", 7, 37 sgg.)… Nel quarto Vangelo la spiegazione viene data nel v. 39 ("Egli designava in tal modo lo Spirito che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in Lui"). Ma il nocciolo del simbolismo non sta nell’equazione acqua-spirito, bensì nella precisazione: coloro che credono in Gesù sono, dopo la sua dipartita da questa terra, lo strumento attraverso il quale la totalità delle forze di vita, che egli vuole donare agli uomini, continua a espandersi nel mondo. Altrettanto si dovrebbe dire per il nostro testo: la presenza assicurata di Dio e dell’Agnello fa sì che la salvezza, e la vita che essi offrono, sgorghino in abbondanza. È un fiume la cui sorgente è divina e non si può mai seccare" (P. Prigent, "L’Apocalisse di San Giovanni", Roma, Borla). Come si vede tra il paradiso terrestre delle origini, tra la vita divina dei redenti da Gesù lungo la storia e la vita divina del paradiso, intercorre una differenza essenziale. Nel paradiso terrestre delle origini il fiume usciva da Eden per irrigare il giardino ("Genesi", 2, 10). Secondo Giovanni, il fiume d’acqua viva usciva dai credenti in Gesù ("Giov.", 7, 39). In entrambi i casi il fiume può venir meno. Le fonti non assicurano la sua perennità. Solo in "Apocalisse", 22 le fonti si identificano con la sorgente indefettibile. Come in "Ezechiele", 47, 1-2, dove il tempio è il luogo della presenza di Dio e dove destro indica la potenza di Dio, anche in "Apocalisse", 22, Dio stesso, cioè il Padre e il Figlio fatto uomo, crocifisso e risorto, asceso al cielo e incoronato Signore dell’universo; Dio stesso, dicevamo, effonde direttamente la fonte della Vita che è lo Spirito santificante e ormai glorificante. Non più mediazione, quindi, ma diretto contatto con la sorgente indefettibile: ecco la novità assoluta delle cose nuove fatte da Dio. Perciò, a differenza della grazia donata dall’Eden, e di quella donata durante il decorso storico mediante la Chiesa, nello stato glorioso il dono di grazia escluderà ogni possibile maledizione [spiacevole refuso, crediamo, "mediazione"].-
La esperienza dell’Eden non si ripeterà una seconda volta. La fragilità della grazia donata dal battesimo cederà il posto alla indefettibile unione con Dio nella gloria. Già "Ezechiele", 14, 11, aveva profetizzato questa gloria e questa pace che avrebbero regnato nella Palestina escatologica. La storia, varcata la soglia della fine, non torna daccapo. Tentatore e caduta sono destinati a scomparire per sempre. Grazie alla vita divina comunicata con pienezza definitiva nel dono dello spirito vivificante, l’albero della scienza del bene e del male cederà il posto all’albero della Vita; cioè, quel porsi dell’uomo di fronte a Dio nella indipendenza orgogliosa di chi ha il diritto di decidere il bene ed il male, cederà il posto alla adorazione amorosa inaugurata da Maria, per cui ogni libertà si eserciterà nel farsi generare da Dio, che è l’albero della vita. Ogni salvato sarà tralcio innestato, che consentirà a Cristo di generare e di fruttificare. E i frutti di Cristo, espressi dalla umanità gloriosa, saranno essi stessi elementi costitutivi del paradiso e per sempre. Quando quei frutti daranno la loro beatitudine inconfondibile ed irrinunciabile, allora si comprenderà come quell’Albero della Vita, che in paradiso dona i suoi frutti, già agiva e verdeggiava nel decorso della storia, quando ancora la caducità umana non consentiva quella "stagione estiva" in cui i frutti possono maturare. Ricordiamo quanto Gesù diceva nel Vangelo di Marco: "Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria…".»
Dunque: il ritorno degli uomini a Dio, che avverrà alla fine dei tempi e, dunque, oltre l’orizzonte della storia, sarà altra cosa dal ritorno degli uomini a Dio, così come si opera nella conversione durante il corso della vita umana, a livello individuale, nell’incontro dell’anima con il suo Padre e Creatore; non è possibile confondere le due cose.
Ne consegue che il cristiano, nella dimensione della vita terrena, deve pur sempre ritenersi un "homo viator", un viandante dai calzari impolverati, che percorre le vie del mondo, ma non è di questo mondo; che gode delle cose del mondo, ma senza farsene assorbire; che teme le cose del mondo, ma senza mai cedere alla disperazione; che opera per la giustizia e per la pace, ma senza l’assurda pretesa di vederle pienamente realizzate, consapevole che essa corrisponde, né più, né meno, al peccato d’idolatria: al volersi fare Dio egli stesso, quasi che la giustizia e la pace vere e definitive potessero uscire dall’opera delle sue mani, mentre sono una promessa e un mistero che rimane ben custodito nelle mani di Dio.
La lotta dell’uomo per la giustizia, per la verità e per il bene, nella dimensione terrena, è condizionata, appunto, dalla sua natura fallibile: la tremenda responsabilità di aver scelto di farsi giudice dell’Albero del Bene e del Male lo opprime, lo svia, lo confonde: non è cosa che egli possa realizzare da sé, e troppo spesso la superbia lo trattiene dal domandare l’aiuto di Dio. L’uomo ha la tendenza a farsi giudice, in proprio, di ciò che è bene e di ciò che è male; ma, così facendo, cade nel peccato di superbia e snatura la sua relazione con Dio, quando non la rinnega addirittura, apertamente ed esplicitamente. Ecco perché la storia umana è una sequela ininterrotta di cadute, di riprese e di nuove cadute: proprio come la storia dell’anima dei singoli esseri umani, nessuno dei quali — neppure i santi più grandi — hanno potuto sottrarsi al peso dell’umana fragilità, dell’umana debolezza, dell’umana tentazione della superbia.
Le filosofie e le religioni che promettono la realizzazione di una super-umanità, mediante l’opera dell’uomo stesso, sono menzogna e delirio: non a caso, oggi si diffondono a macchia d’olio, perché l’uomo moderno è, per eccellenza, superbo e delirante. Superbo, perché si crede Dio egli stesso; delirante, perché ha smarrito la voce del Maestro interiore, e quindi ha perduto, insieme con Dio, anche se stesso, e reso un inferno la relazione con gli altri. Bisogna essere molto chiari su questo punto: sono inganni e imposture tutte le ideologie, tutte le fedi politiche, sociali, filosofiche, religiose, culturali, le quali promettono agli uomini il Paradiso in terra, mediante la realizzazione piena e definitiva di tutte le loro potenzialità, ad opera degli uomini stessi. E, del resto, si è ben visto, e si continua — purtroppo – a vedere, a che cosa tali ideologie hanno portato, e fino a che punto hanno deluso, tradito e profanato l’intima dignità della persona umana.
L’unica maniera di superare la contraddizione fra ciò che l’uomo è e ciò che vorrebbe essere, fra l’uomo peccatore e l’uomo redento, fra l’uomo desiderante e l’uomo pacificato, non è quella di addossargli la responsabilità di leggere il segreto dell’Albero del Bene e del Male, ma di mostrargli l’Albero della Vita e di fargli piegare le ginocchia di fronte ad esso.
L’Albero della Vita è la Croce: la croce di Cristo. È la porta stretta per la quale Cristo ha dischiuso agli uomini la possibilità di ricostruire la relazione autentica con Dio, deponendo il loro orgoglio luciferino: di accettar e la grazia della Redenzione. Nello stesso tempo, la Croce indica al cristiano la via concreta del ritorno a Dio: nell’accettazione piena, incondizionata, perfino gioiosa, della sofferenza e delle tribolazioni. Desiderare il compimento del Paradiso in terra non è cristiano, perché elude il significato della Croce. Non si passa per la porta stretta, se non ci si carica la propria croce sulle spalle; ma Cristo ha fatto la promessa solenne che non ci lascerà soli, che ci aiuterà a portarla. Come potrebbe mai turbarsi, il cristiano, dopo avere ricevuto il dono di una tale promessa?
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