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Quale dev’essere il giusto atteggiamento cristiano nei confronti del successo mondano?

Qual è il giusto atteggiamento del cristiano nei confronti di ciò che, in termini mondani, si suole definire "successo"? Nei confronti, cioè, del successo politico, economico, sociale, culturale: di tutto quello che, a livello individuale, così come a livello collettivo, conduce alla realizzazione effettiva, visibile, immediata (o quasi) di ciò che ci si era prefissati di conseguire?

Gira e rigira, si torna sempre alla vecchia questione posta da Machiavelli: il fine giustifica i mezzi? E, se non li giustifica, qualora essi siano cattivi — ed è ovvio che, per il cristianesimo, non li può e non li deve giustificare — come deve porsi il cristiano rispetto al successo, così ottenuto? Senza nascondersi, perché qui sta il punto, che la storia umana sembra essere la storia dei successi del vincitore; e che la vita del singolo si deve confrontare ogni giorno, ma specialmente nei momenti e nelle circostanze decisivi, con la ricerca del successo e con il mistero, doloroso, della sconfitta.

Sbaglierebbe, a nostro avviso, chi rispondesse, in maniera affrettata, che il cristiano non si rammarica dell’insuccesso, perché egli è l’uomo del dolore, essendo, alla lettera, l’uomo che ha scelto la croce: quasi che il cristiano odiasse il successo in quanto tale; così come sbaglierebbe chi, con altrettanta precipitazione, rispondesse che il cristiano, per poter agire sulla società, deve stare sempre e comunque dalla parte della "storia", vale a dire dalla parte di chi ha successo: perché questa sarebbe una abietta adorazione dell’esistente, e l’esistente può anche essere malvagio.

Insomma: nell’ambito della dimensione quotidiana, il cristiano deve sentirsi anzitutto un pellegrino, un viandante sempre in cammino, che guarda con supremo distacco al fattore "successo", oppure una persona profondamente inserita nel contesto sociale di cui fa parte, che considera suo diritto e suo dovere agire, proprio in quanto cristiano, nella dimensione terrena? Il primo è l’atteggiamento ascetico, che rimarca la distanza fra cristianesimo e mondo e che, anzi, la considera come un abisso incolmabile; il secondo è l’atteggiamento secolarizzato, che tende a negare tale distanza, in nome di un coinvolgimento attivo nella dimensione terrena, mirante, semmai, nel caso di una realtà terrena malvagia, o comunque non cristiana, a modificarla dall’interno.

La questione del "successo" è, in fondo, un aspetto particolare della questione più generale del rapporto fra cristianesimo e società, fra cristianesimo e storia, fra cristianesimo e "mondo", inteso come l’insieme della realtà terrena, segnata dal peccato e pertanto, almeno tendenzialmente, lontana dal richiamo amorevole di Dio e refrattaria ad accogliere la Grazia. Ed è una questione strettamente connessa con la filosofia della storia: perché la storia è, da un lato, l’azione dispiegata dall’uomo nel mondo, ma è anche, al di sopra di questo, e per vie misteriose, l’esplicarsi dell’azione salvifica di Dio, il quale – come è stato detto – sa scrivere dritto anche sopra le righe storte.

Ora, è chiaro che se il cristiano rifiuta la storia, considerandola il regno del male (ciò che essa, effettivamente, spesso è), si auto-esclude dalla realtà dei suoi simili; ma è altrettanto chiaro che, se l’accetta in partenza così come essa è, ripromettendosi, eventualmente, di modificarla dall’interno, rischia di farsi assorbire dalle forze esistenti, di smarrire la propria specifica identità e la propria carica rivoluzionaria; di uniformarsi ai valori, ai giudizi, ai comportamenti del "mondo", magari senza rendersene conto, magari in perfetta buona fede.

Su questo argomento, ci piace prendere lo spunto da una riflessione del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, tratto dal suo libro più famoso, uscito postumo: «Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere» (titolo originale: «Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft. Neuausgabe», a cura di Eberhard Bethge, München, Chr. Kaiser Verlag, 1970; traduzione dal tedesco di Alberto Gallas, Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni Paoline, 1988, pp. 63-64):

«È certamente falso che il successo giustifichi anche l’azione cattiva e i mezzi riprovevoli; ma non è d’altra parte possibile considerare il successo come qualcosa di assolutamente neutrale dal punto di vista etico. Vero invece è che il successo dal punto di vista storico crea il solo terreno sul quale la vita può continuare, ed è molto dubbio se sia più responsabile opporsi ai tempi nuovi come dei don Chisciotte, piuttosto che servire ad essi ammettendo ed accettando liberamente la propria sconfitta. Alla fine, il successo fa la storia. E al di sopra degli uomini che fanno la storia, colui che ne conduce il corso sa sempre trarre il bene dal male. Ignorare semplicemente il valore etico del successo è un cortocircuito degno di un cavaliere dell’ideale che pensa in modo astorico, cioè non responsabile; ed è una buona cosa che noi finalmente siamo costretti a confrontarci seriamente sul piano etico col problema del successo. Finché il bene ha successo, possiamo concederci il lusso di ritenere il successo stesso eticamente irrilevante. Ma quando al successo portano mezzi cattivi, allora nasce il problema. Di fronte a questa situazione sperimentiamo come non sia all’altezza del compito che ci è dato né l’atteggiamento di chi avanza critiche astratte e pretende di aver ragione come se fosse un semplice spettatore, né l’opportunismo, cioè l’arrendersi e il capitolare davanti al successo. Noi non vogliamo e non dobbiamo comportarci da critici offesi, né da opportunisti, ma da uomini corresponsabili, come vincitori e come vinti, della forma che viene data alla storia, nei singoli casi e in ogni istante. Chi, sapendo che la corresponsabilità per il corso della storia gli viene imposta da Dio, non permette che nulla di quanto accade lo privi di essa, costui saprà individuare un rapporto fruttuoso con gli eventi storici, al di là della sterile critica e del non meno sterile opportunismo. Chi parla di soccombere eroicamente davanti ad un’inevitabile sconfitta, fa un discorso in realtà molto poco eroico, poiché non osa levare lo sguardo al futuro. Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi che in atteggiamento di concreta responsabilità. La generazione nuova possiede sempre l’istinto sicuro per riconoscere se si agisce solo in base a un principio o in base ad una responsabilità vitale; perché in questo si gioca il suo stesso futuro.»

"Alla fine, il successo fa la storia": è, questa, un’affermazione pesante come un macigno; e tutto ruota intorno ad essa, per cui è assolutamente indispensabile verificare se sia una affermazione veritiera, e in che senso lo sia, entro quali limiti, in quale prospettiva.

Bisogna riflettere bene su questa affermazione: che cosa intende, Bonhoeffer, dicendo che il successo fa la storia? La storia non è una dimensione metafisica: è l’insieme delle umane vicende; ed è fatta di processi palesi e sotterranei, di forze complesse che s’intrecciano e si sovrappongono: nemmeno l’occhio più esperto sarebbe capace di scorgere tutti i fili che operano in essa. Comunque, bisogna vedere che cosa s’intende per "successo"; e, anzitutto, il successo di chi? Se s’intende dire che il successo è dei vincitori, si dice una tautologia; ma è tutto da dimostrare che il successo esteriore, apparente, sia anche il successo reale, effettivo. Per fare un esempio: Roma ha conquistato la Grecia, dunque ha avuto successo; però ne è stata culturalmente conquistata: dunque, ha avuto successo la cultura greca. Ma, al di là di questa semplice constatazione: che cosa vuol dire "aver successo"? Se identifichiamo il successo con la vittoria, rischiamo di ingolfarci in un circolo vizioso: che cosa è vittoria, che cosa è sconfitta? La vittoria materiale equivale, di per sé, alla vittoria "in toto"? Eppure, si può vincere materialmente e rimanere soccombenti in altri sensi: come nell’esempio testé fatto. E poi, giudicare il "successo" come un evento di per sé positivo, è molto semplicistico. Io posso vincere una grossa somma alla lotteria: ma, se non saprò fare buon uso di quel denaro, se mi lascerò prendere la mano dall’ebbrezza del nuovo ricco, potrei andare incontro al disastro, sia morale, sia, anche, materiale; e ciò dimostra che la vista umana è troppo corta per poter giudicare, nel breve periodo, ciò che nella vita si dimostra un bene, e ciò che finisce per essere un male. Ora, la stessa cosa vale nell’ambito della storia dei popoli, delle culture, delle civiltà: è dimostrato, per fare un esempio, che le immense quantità di metalli preziosi, importate dagli Spagnoli nella loro patria, dopo la conquista del Messico e del Perù, non solo non servirono a promuovere il benessere di quel popolo e la ricchezza e la potenza di quella nazione, ma, al contrario, furono una delle cause della rapida decadenza della Spagna, sia sul piano economico, che su quello politico (fra le altre cose, spingendola a impegnarsi su troppi fronti contemporaneamente, sì da andare incontro a ripetuti e irrimediabili insuccessi).

Non si deve, pertanto, sopravvalutare, né, tanto meno, assolutizzare il "successo". Che cosa esso sia, non sempre lo si vede subito; a volte ci vogliono intere generazioni per poter giudicare; inoltre, molto dipende dal punto di vista che si adotta. È chiaro che, per il cristiano, la nozione di "successo" ha un significato completamente diverso da quella che ha in ambito profano: se non si tiene presente questo fatto, si rischia di cadere in un grave equivoco. Ciò, ripetiamo, non significa che il cristiano debba aborrire dall’idea del successo in sé; se così fosse, egli sarebbe un perdente per vocazione. Al contrario, il cristiano non disprezza, né teme, di avere successo in questo mondo: a condizione, però, di non smarrire mai la distinzione, per lui essenziale, tra il "bene" come realtà terrena, e il Bene assoluto, che è Dio, e che passa attraverso l’esperienza della croce.

Gesù Cristo, il Crocifisso, simboleggia il fatto che, per il cristiano, non c’è vittoria senza sacrificio, ma non un sacrificio qualunque, non un sacrificio patteggiato, calcolato, ridotto al minimo indispensabile, bensì l’offerta totale di sé, senza residui e senza strategie dilatorie. Dio fatto uomo e morto sulla croce, dopo essere stato tradito e abbandonato dai suoi stessi discepoli e dopo essere stato processato, insultato, torturato e deriso davanti alla folla, sta ad ammonire che nessuno, il quale voglia farsi suo seguace, può pensare di poter evitare la prova della croce: vale a dire, della sconfitta — di ciò che è sconfitta secondo il linguaggio degli uomini, e che viene giudicato tale agli occhi del "mondo".

Lo ripetiamo: ciò non significa magnificare la sconfitta, solo perché non si è capaci di ottenere il successo. Per il cristiano, ciò che è successo agli occhi del mondo, è solo polvere che il vento porta via. Quanto al fatto che la storia sia il luogo del "successo", è tutto da vedere. Per prima cosa, la "storia", nel senso in cui ne parla Bonhoeffer, semplicemente non esiste: non esiste, cioè, un blocco coeso di eventi, separabile da ciascuno di essi, preso singolarmente: e i più piccoli — che poi sono di gran lunga più numerosi — sono fatti dalle vite individuali, umili, quotidiane, di ciascun essere umano, per quanto lontano dalle stanze del potere. Esistono, dunque, le singole azioni umane: ciascuna col suo peso specifico, con il suo quoziente di responsabilità (o di irresponsabilità); ciascuna col suo esito felice oppure fallimentare. Ma nessuna azione umana si perde nel nulla: ciascuna, vittoriosa o meno, lascia un segno, una traccia; ciascuna si incontra e s’interseca con cento, mille, diecimila altre. Quel che chiamiamo "storia" è il gioco incessante, interrelato, complicatissimo, di tutte queste infinte tracce: ciascuna delle quali continua ad esercitare un effetto anche molto tempo dopo essersi materialmente conclusa. In senso profondo, infatti, nulla si esaurisce: nessuna azione umana, nessuna scelta, nessuna parola, nessun pensiero, restano senza effetti, vicini e lontani, visibili e invisibili.

A tutto ciò, nella prospettiva cristiana, si aggiunge — ma non come un "deus ex machina", bensì dall’interno, organicamente, capillarmente — l’azione di Dio. Easa si inscrive in un disegno superbo e sapientissimo, immensamente articolato e complesso, infinitamente benevolo e misericordioso. Il senso della storia umana, infatti, è quello del venire da Dio e del tornare a Lui. Esattamente come il seno della vita umana singolarmente considerata: è l’anima che viene da Dio e a Dio ritorna. Tutto il resto non è che polvere e soffio di vento. Il successo non va ignorato, ma nemmeno preso a criterio per giudicare il giusto orientamento dell’uomo e della storia. Il successo non è moralmente indifferente, certo: ma questa affermazione, rispetto a come la intende Bonhoeffer, va rovesciata: il successo è significativo nella misura in cui attesta la fedeltà dell’uomo a Dio. Tutto ciò che realizza questo fine è bene, ciò che vi si oppone, è male. Compreso il successo medesimo, qualora esso divenga un idolo pagano, da adorare in quanto tale…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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