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Perché esiste qualcosa invece che nulla?

Recentemente i cosmologi, – o, per dir meglio, alcuni cosmologi — hanno deciso di riformulare l’antica domanda: «Perché esiste qualcosa invece del nulla?», convinti di aver trovato la "giusta" maniera di porla: partendo, cioè, dall’acquisizione, sulla base degli sviluppi della fisica e della stessa cosmologia, che essi intendono come una super-fisica, che la non-esistenza è uno stato alquanto instabile e precario, alquanto improbabile e incerto: e che, pertanto, il vero prodigio non è che qualcosa esista, ma lo sarebbe il fatto del nulla.

Si noti che già dire: «se qualcosa non esistesse, VI SAREBBE il nulla», è una contraddizione logica, perché del nulla non si può dire niente, tanto meno affermare che esso "è" o anche solo che "potrebbe essere"; anzi, a rigore, non si dovrebbe nemmeno parlarne, perché già il solo fatto di parlarne equivale a riconoscere che si sta parlando di un qualcosa, dunque di uno stato che possiede la proprietà dell’esistenza, e sia pure per negarla e per toglierla, insomma come una specie di esistenza "al contrario".

Si tratta – e lo si è sempre saputo – di una questione prettamente filosofica; per dir meglio: della principale questione filosofica, dalla quale tutte le altre domande e tutte le altre risposte dipendono; non di una questione scientifica, non di una questione fisica o cosmologica. Ma i cosmologi, oggi, hanno deciso di saltare il fossato e di entrare a gamba tesa nel campo della filosofia. Niente di male in questo, in linea di principio: ormai lo statuto della filosofia è diventato talmente incerto, talmente sfumato, talmente approssimativo e generico, che ci si stupirebbe se qualcuno fosse così timido o così modesto da riconoscere di non avere alcun titolo per entrarvi, alcuna competenza, alcuna motivazione sostenibile.

Il problema, dunque, non è che gli scienziati, e in particolare i cosmologi, o almeno quei cosmologi che si considerano i rappresentanti di una "fisica dopo la fisica", pretendono di diventare filosofi, e di porsi la domanda sul perché esista qualcosa invece del nulla; il problema è che essi, dal momento che studiano, o cercando di studiare, la totalità dell’universo, sono portati a pensare di "dover" essere filosofi, perché, nella loro concezione materialista – che danno semplicemente per scontata – l’universo non è l’insieme delle cose visibili, ma la realtà "tout-court". Essi, cioè, per una sorta di deformazione professionale (ma non è vero che lo scienziato, cosmologo o no, "deve" avere una prospettiva materialista: questo lo immaginano loro, senza prendersi il disturbo di rifletterci), scambiano la dimensione materiale dell’esistente per la totalità del reale: pertanto, essendo la cosmologia la scienza dell’intera realtà materiale, suppongono di essere tra i più qualificati per esprimersi in merito alla domanda, prettamente filosofica, sull’inizio e sul perché.

Si tratta di una impostazione meramente quantitativa del problema; e non è un caso che taluni di essi si richiamino a Kant e alla sua "rivoluzione copernicana" nell’ambito della filosofia: così come Kant ha fatto piazza pulita della metafisica, e ha chiamato progresso un tale regresso, una tale limitazione e una simile castrazione del pensiero (cfr. il nostro articolo: «L’"io penso" kantiano e l’autocastrazione del pensiero moderno», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 10/05/2007), allo steso modo costoro vorrebbero imporre una nuovo paradigma culturale, fondato sull’idea quantitativa della scienza materialista: esiste ciò che la scienza stessa può osservare e studiare; il resto, non conta. Insomma, un paradigma culturale regressivo (perché restringe gli orizzonti del conoscere), che viene bellamente spacciato per moneta buona, ossia per un paradigma progressivo, che apre nuove prospettive e allarga l’orizzonte della consapevolezza, da parte della Scienza, che, a sua volta, si auto-erige al rango di nuova religione totalizzante. Ed ecco la necessità dei nuovi eunuchi: proprio su richiesta di quella scienza che, guarda caso, essendo la cosmologia, promette, alla lettera, l’accesso alla nuova dimensione "celeste": il cielo al posto del Cielo.

Scrive Mário Novello nel suo libro «Qualcosa anziché il nulla. La rivoluzione del pensiero cosmologico» (titolo originale: «O que è Cosmologia. A revolução do pensamento cosmológico», Rio de Janeiro, Jorge Zahar Editor Ltda, 2006; traduzione dal portoghese di Ugo Moschella, Torino, Einaudi, 2011, pp. 172-75):

«Pensare la totalità, rifondare la fisica — funzione che abbiamo identificato con l’attività della cosmologia — richiede un impegno integrale. Il compito non può essere realizzato a pezzi, a tempo parziale. Mi pare di aver chiarito questa necessità nella realizzazione di una scienza globale. Non dobbiamo pertanto identificare la fisica con la cosmologia, anche se tutte e due hanno le loro origini tra i compagni di Galileo. […] Rifondare non è stabilire la struttura logica di una conoscenza che acquisiamo o che fabbrichiamo. Come già fu per la critica kantiana, allo scienziato che si dedica a questa rifondazione non è imposta la condizione dell’abbandono del suo profilo di fisico. Infatti, nell’intraprendere la rifondazione della metafisica, Kant identifica se stesso integralmente come filosofo; così, nell’intraprendere la rifondazione della fisica, anche lo scienziato può presentarsi come fisico. […] Heidegger poteva chiamare Kant filosofo, poiché la critica era stata compiuta. Noi, che camminiamo nella stessa direzione di Einstein, siamo cosmologi non perché non siamo più fisici, ma perché il compito della rifondazione, iniziato nel 1917, è ancora in corso, è ancora in formazione. E, contrariamente alla filosofia, che è sopravissuta ed è andata oltre Kant, ci chiediamo se un giorno saremo liberati dal nostro compito di rifondazione, o se questo ruolo, una volta iniziato, non sarà portato per sempre dal fisico-cosmologo.

Possiamo dunque capire perché la cosmologia moderna consente di mettere a tema l’universo e perfino di elaborare uno scenario completo del processo della sua creazione, partendo da uno stato cui assegniamo il none di vuoto e che può essere identificato come la rappresentazione scientifica di quello che normalmente vogliamo dire con questo none: assenza, inesistenza di qualunque cosa, di materia, di energia e di strutture geometriche nello spazio e nel tempo. […] È precisamente perché la cosmologia critica i fondamenti della fisica per stabilirli più in profondità, che possiamo investigare l’esistenza di uno stato fondamentale associato a una descrizione dell’inizio dell’universo, avvenuto da un tempo finito o infinito. Ed è proprio perché permette di porre domande fondamentali di cui la principale è: "Perché esiste qualcosa anziché il nulla?" che la cosmologia va oltre la fisica, e non si può identificare con la fisica. La cosmologia deve essere intesa come critica che stabilisce una ragione cosmica e costituisce con questo atto la rifondazione della fisica; poiché tratta questioni che la fisica si è proibita quando si è autolimitata a trattare di quello che le pareva essere la realtà, il suo dominio di azione, evitando a tutti i costi di considerare la virtualità come un serbatoio di intenzioni della natura. Ebbene, è esattamente ciò che la cosmologia fa o, meglio, si propone di fare: andare oltre, avere l’audacia di gettare un ponte tra la fisica e gli altri saperi che guardano alla totalità, rendendo possibili le due direzioni. La cosmologia può avanzare nel pieno territorio della virtualità e strappare da lì la maschera del reale, che quasi non poteva più essere tolta. È così che dobbiamo intendere la funzione della cosmologia, come un riscatto della scienza dei primordi, quando ancora lasciava le porte aperte alla tradizione accumulata dall’uomo durante la storia e codificata nei tanti saperi, perché potesse attraversarle, entrare e uscire. Riscattare altri saperi, porsi la domanda fondamentale e ripeterla innumerevoli volte: Perché esiste qualcosa invece del nulla?"

Se i filosofi facevano di tale questione un tema abituale della loro investigazione, non vuol dire che essa fosse proibita per gli altri, per gli amici di altri saperi. La fisica ha tralasciato questa domanda, e oggi dobbiamo riconoscere che questa strategia è stata vittoriosa, perché ha permesso il progresso nelle sue conoscenze e nella sua dominazione della natura. Ma oggi che la cosmologia assume il suo ruolo e si struttura per rifondare la fisica nella sua pratica scientifica, non si può più rinunciare a esaminare la questione fondamentale in nome di impegni passati o per non volere formulare ipotesi sulla natura della "physis". Ritenere che la cosmologia non abbia prodotto gli strumenti formali per dare significato al suo interno a questa domanda e permettere l’accesso a risposte accettabili, sarebbe disprezzare l’evoluzione per la quale è passata la cosmologia, sarebbe dimenticare che, alla fine, questa deve essere intesa con il suo significato ampio, come la fase attuale di evoluzione della fisica. In questa maniera si stabilisce la sua funzione e una denominazione convenzionale nella quale ciò che importa non è il nome — cosmologia o fisica — ma è l’atteggiamento, l’impegno alla rifondazione di questa scienza.

Tuttavia non possiamo dimenticare che c’è un altro aspetto grandioso dell’azione della cosmologia, giacché mentre stiamo osservando e organizzando, con i nostri compagni di scienza, l’ingresso di questo problema fondamentale nella pratica scientifica, non possiamo dimenticare che stiamo ugualmente penetrando nel cuore dell’insediamento filosofico, e che lì non dobbiamo dichiararci amici della sapienza, amici dei filosofi, ma loro concorrenti. Dobbiamo disputare, nel territorio tradizionale della metafisica, la questione fondamentale. E, arrivando là, tra questi amici del sapere, quando siamo interrogati da loro sulla nostra funzione e la nostra aspettativa, in quel luogo dove la questione fondamentale si stabilisce come tale, non dobbiamo rispondere come fisici, ma come cosmologi. Non dobbiamo cercare di affermare una risposta controllata, ma ripetere ad "nauseam": siamo qui perché vogliamo utilizzare tutti i mezzi che la ragione permette per porre la stessa domanda. Non perché, come alcuni affermano con arroganza, abbiamo la risposta alla nostra portata, pronta, definitiva. Nemmeno perché vogliamo imporre a questi amici del sapere un modo privilegiato, unico, di formulare questa domanda. E neanche per contrapporre la nostra visione speciale alle loro. Ma semplicemente perché […] noi cosmologi abbiamo trovato un modo differente, nuovo, particolare di rispondere alla domanda fondamentale, all’antica questione: perché esiste qualcosa invece del nulla? […] Partendo dalla constatazione dell’instabilità del vuoto e dal decadimento e dalla trasformazione di questo vuoto, il cosmologo può affermare che non sembra possibile che niente esista: l’universo era condannato a esistere. In altre parole […], è difficile, è molto difficile, è quasi impossibile non esistere.»

In questo brano di prosa, quello che fonda tutto il ragionamento è la conclusione, cui l’Autore voleva arrivare: « il cosmologo può affermare che non sembra possibile che niente esista: l’universo era condannato a esistere. In altre parole […], è difficile, è molto difficile, è quasi impossibile non esistere». Con il che si realizza l’antico sogno della scienza materialista: chiudere il discorso sul principio, sull’origine, sulla causa, e concentrare tutta l’attenzione sulla dimensione del presente e dell’esistente, del mondo così com’è e come appare ai nostri occhi (come se le due ultime cose fossero una sola….).

Se non ha senso porre una domanda sull’origine (così come, per Kant, non aveva senso porre una domanda sugli enti, in quanto tali, nella loro interezza, cioè sulla metafisica), è chiaro che il gioco passa nelle mani dei cosmologi: essi hanno la chiavi per interpretare la mappa dell’universo, e nessuno potrà permettersi di fare loro una domanda cui non saprebbero rispondere («Che cosa c’era prima?»): le uniche domande lecite sono quelle relative al "come", non quelle relative al "perché". Cosa, ribadiamo il concetto, perfettamente lecita nell’ambito della sana ricerca scientifica; del tutto sbagliata, invece, nel campo della filosofia; e ancora più sbagliata, se alle domande della filosofia si presume che gli scienziati, e specialmente i cosmologi, meglio di chiunque altro, siano in grado di dare le risposte appropriate.

Già da alcuni anni il fenomeno è diventato evidente. Cosmologi e divulgatori scientifici ci stanno familiarizzando con l’idea che a loro bisogna indirizzare le domande (o piuttosto le non domande) sull’origine e sulla causa, non ai filosofi, e tanto meno ai teologi. Stephen Hawking, Paul Davies e altri hanno battuto e ribattuto su questo tasto: basta scorrere i titoli dei loro libri, ad esempio «Dio e la nuova fisica», di Davies, per capire dove vogliono andare a parare. È l’antico sogno di onnipotenza, faustiano e demoniaco, degli scienziati-maghi del Rinascimento: non fate domande sull’origine del tutto, perché questo vi porterebbe a Dio; fate le domande agli scienziati circa il modo di manipolare le forze della natura: e loro sì, che vi sapranno rispondere.

Eppure Mario Novello, Piero Angela, Margherita Hack devono farsene una ragione: che le cose esistano, non è affatto una necessità, ma un atto creatore, e libero, di Qualcuno; è un atto d’Amore…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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