
«Non prendete Pelagio alla leggera, ma sul serio»: parola di Paul Tillich
28 Luglio 2015
Il “caso Williamson” fu un complotto per screditare il pontificato di Benedetto XVI
28 Luglio 2015Una delle cause principali, se non addirittura "la" causa principale della grave crisi morale che la nostra civiltà sta attraversando, e dalla quale dipende anche la sua crisi intellettuale, spirituale, culturale, economica, sociale, politica, è il rifiuto della sofferenza.
Tale rifiuto nasce non da un ragionamento, ma da una petizione di principio: il principio del "diritto" alla felicità, intesa come la realizzazione del massimo benessere per l’Io. Ora, a parte il fatto che la vita non sa nulla di questo genere di "diritti", per cui non è affatto tenuta a rispettarli, si tratta di vedere se il massimo benessere dell’Io equivalga al vero bene della persona; e, inoltre, se la felicità sia davvero l’opposto della sofferenza, e dunque se, per conseguire la prima, sia necessario rifiutare ed estromettere, possibilmente, la seconda.
Ma qual è il vero bene della persona? A nostro avviso, non ci sono dubbi: il vero bene della persona consiste nella realizzazione del suo fine. E qual è il fine della persona? Il fine della persona è comprendere quale sia codesto fine. Non si tratta di un circolo vizioso, ma di un circolo virtuoso. Il fine della persona è conoscere, amare e lodare l’Essere, dal quale ogni cosa proviene, e al quale ogni cosa ritorna. I credenti lo chiamano Dio. Quando la persona ha riconosciuto nell’Essere la sua ragione di esistere; quando, piena di gioia per tale scoperta, smette di cercare i beni secondari e ingannevoli, e si concentra tutta in questo Bene supremo, allora l’anima ha trovato il suo fine, e la persona ha realizzato lo scopo per cui è stata chiamata alla vita.
La felicità, allora, non coincide affatto con l’eliminazione di ciò che provoca sofferenza; essa coincide con la scoperta dell’Essere e con la dedizione gioiosa dell’anima al Principio luminoso, da cui proviene. La sofferenza, peraltro, è di tre specie: fisica, emotiva e morale. Nessuna delle tre rappresenta un ostacolo al ritorno dell’anima verso l’Essere; ciascuna di esse, al contrario, può rappresentare — e, di fatto, generalmente rappresenta — il ponte attraverso il quale l’anima realizza la sua scoperta e, pertanto, raggiunge il suo fine. Non che desiderare di eliminarla (cosa peraltro impossibile), noi dovremmo dunque guardare alla realtà misteriosa della sofferenza con uno sguardo nuovo e completamente diverso.
La sofferenza fa paura: e questa è la ragione principale per cui cerchiamo di tenerla lontana da noi. Tuttavia, oltre al fatto che ciò è impossibile, perché, in moltissimi casi, non dipende dalle nostre possibilità, bensì la sofferenza deriva dalla nostra stessa condizione umana, c’è un’altra ragione per non fuggire davanti ad essa, beninteso quando non la si può evitare (perché cercarla volontariamente, senza una ragione seria, è contrario alla nostra natura e, di solito, si accompagna a delle patologie psichiche): ed è che essa ha molte, moltissime cose da insegnarci. È la migliore maestra di vita che esista: non ce n’è una migliore, all’infuori di Dio stesso. E siccome sono in pochi ad affidarsi direttamente a Dio, la maggior parte delle persone hanno bisogno, per così dire, di questa rude e severa maestra di vita, proprio per arrivare a Dio, e, con ciò, realizzare il loro fine e trovare, in ultima analisi, la vera felicità: quella che non se ne va più, che non delude, che non tradisce.
Del resto, basta una breve riflessione per rendersi conto che sono molte le cose che, inizialmente, fanno paura, ma che, nondimeno, sono necessarie per realizzare qualche cosa di duraturo, e tale da trasmettere un autentico appagamento interiore. Per un musicista, per una danzatrice, per un conferenziere, affrontare il pubblico, le prime volte, è una cosa che fa paura; ad un rocciatore principiante, la parete di roccia su cui arrampicarsi la prima volta, fa paura; un trapezista che si lancia nel vuoto la prima volta, ha paura; e ha paura il domatore che entra per la prima volta nella gabbia dei leoni, o il paracadutista che, per la prima volta, si lancia nel vuoto dall’aereo, da un’altezza di alcune migliaia di metri. Sicuramente il navigatore che, per primo, volge la prua su mari sconosciuti, prova anche una certa dose di paura; e la madre che sta per partorire, non ha forse paura delle doglie, della sofferenza che le strazierà le viscere? Però tutti costoro, una volta che avranno affrontato la loro paura e che l’avranno vinta, proveranno una gioia immensa, perché avranno realizzato ciò che desideravamo, ciò verso cui tendevano ardentemente.
Ebbene: la sofferenza non è fine a se stessa: è, o meglio può diventare, se noi lo vogliamo, la porta mediante la quale entrare nella dimensione più autentica della vita, sfrondata dalle futili apparenze e dalle maschere posticce: come una farfalla che esce fuori dal bozzolo, lasciando dietro a sé la sua precedente esistenza di bruco, libera ormai di volare nell’aria profumata, in mezzo all’erba e ai fiori, avvolta dalla luce del sole. Questo può avvenire se noi viviamo la sofferenza senza inutili ribellioni, senza vili tentativi di fuga, ma ringraziandola per il servizio che ci offre, rendendoci più umani, e offrendola, a nostra volta, come il dono più prezioso che possiamo fare, a Colui che è il nostro Bene, la nostra Pace, il nostro ultimo Fine.
Osservava acutamente Emilianos Timiadis, già metropolita di Calabria, nella sua pregevole monografia «Grandezza e fragilità del cristiano nel pensiero e nella tradizione della Chiesa ortodossa d’Oriente» (titolo originale: «Interrogations de l’homme et sur l’homme. Essai d’anthropologie chrétienne», traduzione dal francese di Marilena Grasso, Brescia, Morcelliana Editrice, 1972, 105-108):
«Distraetevi alla vostra pena, dimenticatela, raccomandano i "molesti consolatori". Fate un viaggio; le impressioni di luoghi nuovi, le varie visite, il cambiamento di ambiente faranno sparire l’afflizione.
È un modo molto facile di consolare una persona, ma è un rimedio da ciarlatani, perché pochissimi hanno risorse finanziarie tali da poter sostenere il costo del viaggio. Così, sarebbe il colmo della stupidità dire a un povero di fare un viaggio per dimenticare la sua afflizione, quando egli vede i suoi figli andare in giro affamati; o anche dirlo a un ricco, se soffre di una malattia che non gli permette di muoversi, e quando ha bisogno di cure continue; a un capo famiglia, che ha la sua fonte di afflizione nella famiglia, che non può lasciare; o ad un impiegato, che un professionista, una vedova con figli piccoli, che devono essere ogni giorno al lavoro o a casa. Per di più, i viaggi non possono durare tutta la vita, anche per quelli che hanno danaro. Ritorneranno dopo un certo periodo di tempo. Ma se devono tornare in quell’ambiente, da cui proviene l’afflizione, si dirà loro di fare un altro viaggio? Che conforto vano!
Vieni a divertirti e dimentica i tuoi guai, dicono ai loro amici sofferenti i tipi più comuni di uomini dalla "consolazione facile". I centri ricreativi offrono effettivamente un piacevole narcotico, che provoca torpore nel corpo sofferente ed euforia nel cuore ferito dal dolore; ma questo narcotico non può curare la causa dell’afflizione; non fornisce l’antidoto benefico, ma, al contrario, avvelena il corpo e l’anima dell’uomo. I luoghi di divertimento offrono un sollievo temporaneo alla pena, solo per introdurre una maggior dose di afflizione nell’anima. Si cerchi divertimento e conforto al dolore nell’alcol o in qualche altro veleno, il risultato a cui si giunge è lo stesso: l’intossicazione, l’avvelenamento fisico e mentale, e quindi la moltiplicazione del dolore e dell’afflizione. Quanti uomini rovinati e finiti vivono nella società di oggi! Con simili mezzi di conforto tentano di curare un male minore e ne creano uno più grande, incurabile, mortifero; provocano un dolore che porta corpo e anima alla morte!
Ci sono altri rimedi usati da questi consolatori momentanei, ma sono tutti dello stesso tipo e producono lo stesso risultato; piuttosto che curare l’afflizione, aprono nuove e più dolorose ferite.
"Ho sentito molte cose del genere" — diceva Giobbe a quei tre odiosi amici che venivano a confortarlo — "ma voi tutti siete dei consolatori ben fastidiosi". Tutti quelli che fanno aumentare il dolore sono consolatori molesti. Naturalmente, non tutti gli uomini sono cattivi: può darsi che abbiano buone intenzioni; ma sono guaritori "empirici", che non sanno come curare il dolore e danno rimedi che fanno più male che bene. Così queste persone diventano davvero "molesti consolatori" anche senza volerlo essere, e il mondo resta pieno di gente sofferente, depressa, disperata.
Molte volte, negli ultimi anni, eminenti rappresentanti della medicina (come il famoso biologo Alexis Carrel) hanno fatto notare che i disturbi nervosi sono aumentati, e che un’alta percentuale di persone soccombe al proprio dolore. La gente cade in una profonda depressione, diventa nevrotica, pazza…
Come possono sfuggire a questa situazione, dal momento che non trovano conforto in nessun luogo, ma dolore dappertutto?
Eppure, l’unica, la migliore medicina, è così vicina e a portata di mano: la religione, l’insegnamento di Cristo, che può riempire di luce l’anima dolente, e scoprire la causa, come pure il fine, delle afflizioni. Il Consolatore, il vero e infallibile Consolatore, è così vicino!
Egli chiama, piuttosto che essere chiamato; è tanto umile, invita anche il più piccolo e povero e meno importante uomo che soffre. "Venite a me voi tutti che soffrite e siete affaticati" — egli chiama — "ed io vi darò riposo" — promette. "Venite a me tutti voi che siete curvi sotto l’affanno e il fardello delle vostre afflizioni, ed io vi ristorerò. "Chiamami nei giorni dell’angoscia, e io verrò a te, e tu mi loderai" — aggiunge -. Rivolgi a me la tua anima, e chiedi conforto e salvezza, nei giorni della pena; allora io ti salverò, ti ristorerò fino al punto che sentirai nell’anima un bisogno irresistibile di lodarmi.»
Sì: il mondo è pieno di consolatori molesti; e adoperiamo la parola "mondo" nel senso specifico di una dimensione terrena, presuntuosa e ingannevole, che vuole opporsi alla dimensione eterna, luminosa e beatificante. L’abbondanza di consolatori molesti (e, qualche volta, francamente odiosi, come i falsi amici del povero Giobbe) dipende dal fatto che la vera amicizia è così rara; e ancora più raro è avere un amico abbastanza evoluto da desiderare il nostro vere bene, e on un bene qualsiasi, non il primo bene che capita, magari il più "facile" e, quindi, fasullo. Il gran padre Dante, nella sua genialità, esprime meravigliosamente questo concetto – ossia che il vero amico è colui che sa vedere, che possiede una retta volontà e che ci ama nel senso più profondo – nello spazio di neppure una terzina («Paradiso», XVII, 103-105): «… come colui che brama, / dubitando, consiglio da persona / che vede e vuol dirittamente e ama».
Quali sono i consigli che ci rivolgono i consolatori molesti, allorché siamo alle prese con la sofferenza? Sostanzialmente, si riducono tutti ad uno solo: quello di sottrarci alla sua stretta, di voltarle le spalle, di spostarci fisicamente per non vederla più, per non sentire su di noi il suo fiato pesante, per sfuggire alla morsa dei suoi denti e dei suoi artigli affilati. Miseri consigli: si può consigliare la fuga solo a chi non ha nulla da sperare dalla battaglia; ma al soldato valoroso, che ha fiducia in se stesso e che ne ha ancora di più nel proprio condottiero, non si consiglia mai la fuga, che è la via più facile, ma anche quella del disonore e della vergogna di se stessi, bensì la lotta. Per vincere, bisogna lottare: perché la vita è una lotta. E chi non ha compreso questa verità, si può dire che è rimasto un bambino anche da adulto; e che non ha compreso l’essenziale, per quante cose secondarie possa aver capito, o creduto di capire.
La vita è lotta e noi siamo dei combattenti, chiamati ad affrontare la prova sul campo. Possiamo non accorgercene, ma sarà la vita stessa a riscuoterci dalla nostra languida inconsapevolezza, con la sua maschia pedagogia. Dovremmo avere sempre ben chiaro nella mente questo fatto, e tenerlo presente nella educazione dei nostri figli: diversamente, dovremo assumerci la responsabilità di averli consegnati inermi e impreparati alle battaglie che li aspettano. Un giorno potrebbero maledirci, per questo: e ne avrebbero tutte le ragioni.
Sono quattro le cose che spaventano gli uomini: la povertà, la solitudine, la sofferenza e la morte. Le prime due fanno paura non in se stesse, ma perché si ritiene che producano sofferenza: una volta compreso che la sofferenza non è una nemica, ma una maestra, anch’esse cesseranno di tormentarci. La morte, poi, dovrebbe spaventarci ancor meno: non è che una soglia; verso cosa, dipende da noi…
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