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Nemico della mistica e dell’ascetismo, Abelardo è il precursore dei moderni “philosophes”

Su Pietro Abelardo, universalmente noto — anche al di fuori della cerchia degli specialisti, per la sua tragica e passionale storia d’amore con l’allieva Eloisa, che tanto piace agli spiriti romantici ed emotivamente superficiali — il giudizio degli storici della filosofia è diviso: alcuni vedono in lui niente di meno che l’alfiere del libero pensiero contro l’oscurantismo della Chiesa cattolica; altri ne rilevano la scarsa o nessuna originalità di pensatore e, pur riconoscendogli un orientamento intellettuale innovativo, specie nella sintesi fra pensiero greco e cristiano, negano decisamente che egli abbia voluto o saputo rivoluzionare la cultura del suo tempo.

La questione sarebbe vastissima e richiederebbe, ovviamente, un esame approfondito e puntuale delle sue opere logiche, teologiche e morali: lavoro da specialisti. A noi preme piuttosto vedere se, nello spirito complessivo della sua opera, nonché nella sua stessa personalità di uomo e di studioso, nella sua sfrenata ambizione di successo mondano, negli atteggiamenti da riformatore che amava assumere, e che lo ponevano in rotta di collisione con Bernardo da Chiaravalle e con altri esponenti della cultura e della spiritualità cattoliche (ai quali toccava in sorte, per forza di cose, di recitare il ruolo dei conservatori, degli ottusi e dei reazionari), non vi sia in effetti il tipico atteggiamento del "philosphe" illuminista: non — ovviamente – riguardo ai contenuti, ma riguardo al modo di porsi e di intendere la propria funzione in seno alla società.

Abelardo è stato un uomo immensamente vanitoso; inoltre, era un uomo cui piaceva assumere atteggiamenti ora di titanismo, ora di vittimismo, mettendo in piazza tutto se stesso e rivendicando per sé l’attenzione della ribalta; infine, un uomo che poneva la propria intelligenza al servizio della sua stessa fama, in una maniera e in una misura sconosciuta ai filosofi del Medioevo, rivendicando nel mondo intellettuale parigino ed europeo un ruolo commisurato alla grande idea che aveva di se stesso e dei propri meriti.

Questa è la prima cosa che balza all’occhio, quando ci si accosta alla sua figura e alla sua opera, con mente sgombra da pregiudizi, sia positivi, sia negativi: in un tempo in cui gli uomini di cultura, ma anche gli artisti e i letterati, ponevano la propria gloria nel servire Dio, nel tradurre in segni, in forme, in immagini, la sapienza e la maestà divine e nel farne partecipi le comunità in cui essi vivevano, Abelardo vive per se stesso, cerca la gloria per se stesso, trova naturale essere ammirato e invidiato per ciò che di personale, di originale, vi è nelle sue posizioni e nelle sue battaglie culturali. E quando, poi, si scopre — come i suoi stessi ammiratori ammettono — che di originale, nel suo pensiero, c’è ben poco, e meno ancora di audace o di ribellistico, non si può non ricavarne l’impressione che egli sia stato un rivoluzionario mancato, soprattutto per calcolo di prudenza: aveva il temperamento intellettuale dell’eretico, ma non la stoffa, e, soprattutto, non ne aveva la coerenza, la dirittura, la lineare intransigenza, perché amava troppo se stesso. Adorava essere ammirato e circondato da studenti adoranti e da colleghi consumati dall’invidia: gli piaceva oltremodo parlare e far parlare di sé, convinto, com’era, di essere un grand’uomo.

Quando, per esempio, paragonava le tre Persone della Santissima Trinità agli attributi della potenza, della sapienza e della bontà e quando accostava lo Spirito Santo al concetto greco dell’anima del mondo — concetto pagano per eccellenza — Abelardo mostrava una disinvoltura sconcertante e faceva un uso del sapere aristotelico, quale nessuno aveva mai fatto prima di lui, in ambito cristiano: per cui riesce davvero difficile credere, come invece pensa Federico Roncoroni, che egli, per primo, si stupisse delle accuse di eresia che gli vennero rivolte. La verità è che sapeva benissimo quel che faceva e che, addirittura, probabilmente calcolava l’effetto che le sue proposizioni teologiche avrebbero avuto, proprio perché esse gli avrebbero dato la possibilità di interpretare l’ansia di "rinnovamento" e di "superamento" che pervadeva certi settori della cultura cristiana, i quali si ritenevano più aperti, a somiglianza di quel che avrebbero fatto, otto secoli dopo, teologi come Karl Rahner durante il Concilio Vaticano II.

In fondo, il suo pensiero si capisce meglio mettendo a fuoco ciò che egli avversava, invece di quel che perseguiva: i suoi veri avversari erano il misticismo e l’ascetismo, vale a dire i due pilastri fondamentali della religiosità medievale. Fino a quel momento, il pensiero cristiano aveva trovato e realizzato un precario, ma ammirevole equilibrio fra le esigenze specificamente speculative, proprie della tradizione greca, e quelle mistiche e ascetiche, proprie della tradizione latina (e delle sue radici giudaiche). Tommaso d’Aquino e San Bonaventura, l’uno rifacendosi ad Aristotele, l’altro a Sant’Agostino, giungeranno alla sintesi mirabile dei due grandi rami, se così vogliamo chiamarli, del cristianesimo medievale: l’uno prevalentemente intellettuale, l’altro prevalentemente mistico, ma entrambi ben consapevoli del reciproco rapporto dialettico intercorrente fra loro e niente affatto incompatibili, bensì complementari, come si vedrà in quella mirabile sintesi che ne avrebbe fatto Dante nel più grande poema teologico e mistico dell’intero Medioevo.

Il fatto è che uomini come Tommaso, come Bonaventura, come Dante, non persero mai di vista il legame necessario che esiste fra il pensiero e la fede, e, soprattutto, il delicato, ma armonioso punto d’equilibrio che le due istanze possono e devono trovare nella prospettiva autenticamente religiosa: quella in cui Dio è l’inizio ed il fine ultimo d’ogni cosa, dunque anche della ricerca, del sapere, del conoscere; uomini che non concepivano il pensiero come una attività autonoma dello spirito, ma come una delle maniere in cui si manifesta l’azione della Grazia. Tommaso, per esempio, quando non riusciva ad andare avanti nella sua monumentale «Summa Theologiae», perché invischiato in qualche grave difficoltà speculativa, aveva un "metodo" caratteristico per trarsi d’impaccio: andava a buttarsi sull’altare del Santissimo, abbracciava il tabernacolo e chiedeva a Dio, dal fondo della propria miseria, di soccorrere la sua ignoranza, pregando e piangendo abbondantemente, magari pe delle ore: e non se ne andava, fino a quando Dio non veniva incontro alla sua umana limitatezza, suggerendogli e ispirandogli la maniera giusta di superare lo scoglio.

In nessun modo, al contrario, noi potremmo immaginare Abelardo in un simile atto di umiltà e di assoluta fiducia, d’incondizionata devozione a Dio. Abelardo non si dimenticava mai di essere un grande professore, un celebrato teologo di Parigi: se non aveva l’audacia intellettuale del ribelle, aveva, però, tutto il narcisismo del pensatore "moderno", intendendo, con quest’ultimo termine, colui che non si affida, in ultima analisi, alla Verità divina, ma che pensa di essere capace, con le proprie forze, di svelare gli arcani della fede. Così, pur essendo vissuto assai prima di Tommaso e di Bonaventura, Abelardo rappresenta una figura d’intellettuale certamente più vicina a noi, appunto perché più disinvolta, più attenta alla propria immagine, più auto-centrata, oltre che pienamente inserita in un contesto urbano, cittadino, universitario; in una parola: più secolarizzata.

Ha scritto Mario Dal Pra (citato da F. Roncoroni nel saggio introduttivo ad: Abelardo, «Storia delle mie disgrazie. Lettere d’amore di Abelardo ed Eloisa», Milano, Rusconi, 1971, poi Garzanti, 1974, pp. XXXVII-XL):

«[Abelardo fu accusato] di aver dato troppo rilievo alla razionalità di Dio rispetto alla sua libertà, di aver cercato nella filosofia greca dei precorri menti della trinità cristiana, facendo perdere al cristianesimo alquanto di quella originalità assoluta e di quel distacco storico che stavano tanto a cuore a Bernardo ed ai custodi intransigenti del misticismo cristiano; fu condannato [il "De Trinitate et Unitate Dei" fu condannato e bruciato per decisione del concilio di Soissons nel 1121, e poi, di nuovo, del concilio di Sens, nel 1140] per aver escogitato l’immagine del sigillo per spiegare l’identità e l’alterità delle tre Persone divine, lasciando in verità aperta la strada all’idea dei gradi di realizzazione della divinità; fu condannato per aver accostato la concezione dell’anima del mondo a quella dello Spirito Santo e per aver identificato le tre Persone con i tre attributi della potenza, della sapienza e della bontà. […]

In fatto di morale, l’atteggiamento più originale di Abelardo consiste nella sua opposizione all’ascetismo, che considerava peccato certe inclinazioni radicate nella natura dell’uomo e nella sua critica della morale conformistica che tendeva a fissare in modo rigido il bene e il male, identificandoli con determinati comportamenti esterni, indipendentemente dall’interiorità che li accompagna. Circa il primo punto, Abelardo introduce un’importante distinzione fra vizio dell’anima e peccato; ad esempio, l’essere iracondo, ossia pronto e facile a lasciarsi prendere dall’ira, è un vizio che spinge la mente a compiere in modo inconsulto qualche cosa che non si deve fare; altrettanto si dica per la lussuria a cui molti sono inclini pere natura o per complessione fisica; tuttavia per il fatto che si trovano ad essere così caratterizzati, non per questo peccano; il vizio dell’anima ci rende inclini ad acconsentire a cose illecite; ma propriamente peccato si deve chiamare appunto il fatto dell’acconsentire; le inclinazioni che si trovano radicate nella natura umana ci spingono anche a desiderare le cose illecite; ma, secondo Abelardo, queste inclinazioni non si possono eliminare; ed esse non sono in se stesse peccato; non si può chiamare peccato la volontà o il desiderio di fare ciò che non è lecito, ma piuttosto il consenso alla volontà o al desiderio; così Abelardo sottrae le inclinazioni umane, già gravate dalla condanna dell’ascetismo religioso, alla sfera del male e le colloca piuttosto nel campo degli strumenti neutrali da cui l’intenzione interiore può trarre sia il male che il bene.

Abelardo poi insiste sul fatto che solo l’intenzione, cioè il consenso, costituisce il vero nucleo el bene e del male; invece l’azione, in quanto tale, non aggiunge niente alla bontà o alla malizia del nostro atteggiamento; l’intenzione è buona o cattiva per se stessa, l’azione si dice buona o cattiva non perché implichi qualche elemento di bontà di malizia in se stessa, ma perché procede da una intenzione buona o cattiva; la stessa azione, vista nella sua materialità esteriore, può diventare buona se deriva da una buona intenzione, cattiva se deriva da una cattiva intenzione; con ciò Abelardo prende posizione contro il legalismo etico che era strettamente unito all’ascetismo e mira a staccare l’iniziativa morale umana dall’adesione passiva a schemi fissi ed esteriori di comportamento. Allo stesso modo Abelardo prende posizione contro la considerazione puramente mistica e carismatica dei poteri del clero, che vuole invece fondati su solidi valori morali: color che si vantano di essere i successori degli apostoli egli osserva, tengano presente che tale successione ha vero valore quando è fondata sulla dignità morale corrispondente, non quando si appella soltanto ad una trasmissione formale del potere ecclesiastico; gli accenni che si incontrano nelle pagine di Abelardo contro la ricchezza e la corruzione del clero, contro il formalismo ecclesiastico, contro l legalismo morale, ricordano, almeno in parte, gli atteggiamenti dei moti religiosi popolari e richiamano alla mente che, non senza ragione, alla sua scuola crebbe quell’Arnaldo da Brescia che divenne, circa un decennio dopo la morte di Abelardo, l’eversore del potere temporale dei papi a Roma e l’instauratore del comune popolare. I fermenti critici che animano tutta la speculazione di Abelardo sono in accordo col fermento che pervade la società del suo tempo, del suo tempo, protesa nel campo religioso , come in quello etico-politico, alla conquista di più ampie libertà.»

Ecco, qui veramente troviamo — e per bocca di un suo palese ammiratore — il nucleo del significato della figura e dell’opera di Abelardo: il fermento, l’irrequietezza, la ricerca di "nuove libertà" intellettuali, religiose, sociali e politiche; e qui sta il punto: per tutto il Medioevo, "libertà" significa fare ciò che Dio vuole; a partire da Abelardo, significa poter fare quello che all’uomo sembra giusto. È una differenza di prospettiva radicale: la prospettiva di Abelardo non ha più quasi niente a che fare con quella dei suoi predecessori; è una prospettiva mondana, laica, secolarizzata, in cui vi è ancora l’ossequio alle verità della fede, ma un ossequio condizionato, che deriva dall’assenso della ragione e dalla intenzione umana.

Evidentemente Dal Pra non si rende conto che la distinzione operata da Abelardo fra retta intenzione e retta azione è, né più, né meno, quella che sarà alla base della teologia di Lutero: le buone azioni non contano nulla, conta solo l’intenzione; questo è protestantesimo allo stato puro, e, nonostante le apparenze contrarie, il suo esito non potrà mai essere una accresciuta stima per le capacità umane, ma un pessimismo radicale nei confronti della natura umana. Se quel che conta è solo la retta intenzione, quale anima umana è capace di concepire solo ed esclusivamente rette intenzioni? Quale anima umana può dirsi immune da cattive inclinazioni, che, a loro volta, influenzano negativamente la vita dell’anima? Abelardo finge di credere che le cattive inclinazioni siano, per così dire, un fattore neutrale, e che, fino a quando la volontà non le asseconda, non significhino nulla: ma come non vedere che le cattive inclinazioni spingono, quasi fatalmente, verso il disordine morale e verso i cattivi pensieri e le cattive azioni? Lui, che accusa di legalismo e, in fin dei conti, d’ipocrisia l’ascetismo del suo tempo, davvero non si rende conto di cadere nell’eccesso opposto, ma altrettanto esiziale, di quello che rimprovera ai suoi avversari: ossia d’ignorare il peso che le cattive inclinazioni esercitano nella vita umana? Se l’ascetismo sbaglia nell’equipararle al peccato (ma quale ascetismo sosteneva una cosa simile? non sarà che Abelardo si sceglie un nemico di comodo, per far meglio risaltare la propria posizione?), Abelardo, certamente, sbaglia nel ritenerle indifferenti. E sbaglia ancora di più nel limitare il concetto di peccato alla sola azione cattiva: come se l’azione cattiva non fosse preparata e accompagnata da una cattiva disposizione dell’anima e da una perversione del retto volere.

Abelardo vuol partire, lancia in resta, contro la roccaforte del "conservatorismo" cristiano, e la individua nell’ascetismo e nel misticismo: le due cose più belle che abbia prodotto la religiosità medievale, quelle che hanno prodotto le opere più grandi, i santi più ammirevoli, gli slanci più intrepidi e generosi, quali ben raramente, in seguito, l’Europa ha saputo produrre. Ma non osa attaccarli frontalmente: preferisce darne un’immagine deformata, per poterli colpire più facilmente e, soprattutto, per attirare su di sé le simpatie di tutti i "novatori". Il legame del pensiero di Abelardo con l’eresia di Arnaldo da Brescia è verissimo: a quanto pare, a Mario Dal Pra non viene in mente che, dopotutto, nel contesto del pensiero e della società medievale, la posizione di Abelardo è stata simile a quella del cattivo maestro, che scaglia il sasso e poi nasconde la mano, lasciando che siano altri a scottarsela al suo posto. È una cosa che vedremo ancora, nei secoli della modernità, e sempre più spesso: sorgono dei "philosophes", dei "savants", o delle persone che si auto-proclamano filosofi e sapienti, e si mettono a predicare gran novità, demolendo pezzo a pezzo l’edificio pazientemente costruito nei secoli che li hanno preceduti; poi arrivano gli agitatori politici, i quali, sulla base di quelle nuove idee, eccitano le masse, le riscaldano, le portano al punto di ebollizione: e scoppiano lotte furiose, si versa il sangue a torrenti, si mette a soqquadro la società e talvolta, il mondo intero, per poi scoprire, non di rado, di aver prodotto situazioni assai più ingiuste, crudeli, disordinate, di quelle che ci si era proposti di emendare.

Qualcuno potrebbe obiettare che la storia procede così; e che questo è il prezzo del progresso. Può darsi. Ma una cosa è certa: il cristianesimo, per quanto — all’atto pratico – cammini sulle gambe degli uomini, e dunque vada soggetto alle stesse dinamiche del mondo secolare, in se stesso, nella sua essenza, non è cosa puramente umana — almeno per coloro che ci credono. Di conseguenza, la cosa migliore che possano fare i cristiani è quella di custodire gelosamente quel nocciolo di verità, con il massimo rispetto nei confronti della Tradizione, da cui l’hanno ricevuto: perché la pretesa di molti cristiani, da Abelardo, a Lutero, a Karl Rahner, di "rinnovarlo", e magari di "purificarlo", per renderlo più adeguato ai tempi, cioè più storicizzato — pretesa che sarebbe normale, e probabilmente legittima, nell’ambito di una ideologia secolare -, in pratica nasce da un radicale fraintendimento e produce una imperdonabile adulterazione della Buona Novella. La quale non ha alcun bisogno di essere "aggiornata" o "storicizzata", se non in talune forme esteriori (e non nella sacra Liturgia, che non è affatto forma esteriore, ma espressione della sostanza teologica stessa), dal momento che essa scaturisce da una Parola eterna, rispetto alla quale la nozione di "moderno" è semplicemente priva di significato…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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