
È la “croce della storia” che fa nascere la domanda sul suo significato
28 Luglio 2015
Come i teologi “progressisti” hanno eroso la credibilità del cristianesimo
28 Luglio 2015La figura e l’opera dello scrittore toscano Tito Casini — che è stato, con Papini, Lisi, Betocchi, Bargellini e altri — uno dei fondatori, nel 1929, della leggendaria rivista «Il frontespizio», forse il principale organo della rinascita cattolica nella cultura italiana fra le due guerre — è stata ingiustamente dimenticata, cancellata, seppellita. A gran fatica si possono ancora reperire i suoi scritti (specialmente in rete), belli, d’una bellezza semplice e chiara, tanto pregevoli sul piano letterario, quanto sentiti e commoventi sul piano dei contenuti, sempre umanissimi, sempre capaci di posare sull’uomo uno sguardo comprensivo, delicato, gentile, quasi ingenuo, ma anche fiero, coerente e moralmente esigente, talvolta perfino risentito, quand’è in gioco l’essenziale.
La ragione di questo silenzio, di questa rimozione, che hanno quasi il sapore di una implicita "damnatio memoriae", crediamo sia da ricercarsi non solo, né tanto, nel prevalere, dopo la Seconda guerra mondiale, d’una prospettiva culturale sempre più radicalmente laicista e secolarista, sempre più dominata dal marxismo e dal relativismo materialista, quanto — è triste dirlo, anzi, è triste il solo doverlo ammettere — in una progressiva conquista degli spazi culturali, all’interno dello stesso mondo cattolico, dei settori che si autodefiniscono "progressisti", e che altro non sono se non i diretti prosecutori del protestantesimo e del modernismo; i quali, sentendosi (fra l’altro) compagni di viaggio dei marxisti (si noti che la parola "comunismo", chissà perché, non viene mai citata, in nessuno dei numerosi documenti del tanto strombazzato Concilio Vaticano II), hanno preso particolarmente di mira i loro correligionari e i loro fratelli spirituali da essi definiti, con disprezzo, "tradizionalisti", per nessun’altra ragione se non perché questi ultimi vedevano con chiarezza, e denunciavano, la deriva protestante e modernista verso cui la Chiesa cattolica veniva trascinata dalla loro opera funesta e, sovente, estremamente subdola.
Per fare un solo esempio: né il Concilio, né il papa Paolo VI (e meno ancora Giovanni XXIIII) hanno mai inteso la riforma liturgica come una abrogazione del latino; se la lingua (latina) non è una opinione, viene confermato, al contrario, che il latino resta la lingua universale e normale della Chiesa cattolica: solo, si lascia libertà alle comunità locali di adottare le lingue nazionali, qualora lo vogliano e qualora ve ne siano le condizioni di opportunità e di praticità. Eppure, di fatto, si è lasciato credere ai fedeli e all’intera opinione pubblica – complici i mezzi d’informazione, quasi tutti asserviti alla nuova "teologia" postconciliare, a cominciare proprio da quelli di parte cattolica – che il Vaticano II avesse abolito l’uso del latino nella liturgia; e subito i cattolici "progressisti" si sono scagliati contro chi la pensava diversamente, tanto che solo quarant’anni dopo, e con molta pena, quasi come una speciale concessione, papa Benedetto XVI ha potuto reintrodurre l’uso della messa in latino per chi ne faccia richiesta. Ma anche questo è sembrato troppo ai cattolici "progressisti", già scandalizzati per la mano tesa da papa Ratzinger ai vescovi lefebvriani (scandalo che non sarebbe stato altrettanto fragoroso, se egli avesse fatto un gesto conciliante verso i peggiori nemici esterni della Chiesa): bisognava rimettere le cose a posto — si fa per dire. Ed ecco papa Francesco I affermare, nel corso di una omelia nella stessa chiesa romana (quella di Ognissanti, sulla Appia) ove Paolo VI aveva celebrato, nel 1965, la prima messa in lingua italiana, che molti sostenitori dell’antica liturgia hanno, puramente e semplicemente, dei «problemi psichici» da risolvere.
Ma torniamo a Tito Casini. Lo scrittore toscano (nato a Cornacchia, una piccola frazione di Firenzuola, il 23 novembre 1897, e morto centenario nel 1897) è stato un autore molto fecondo: alcuni suoi libri, come «Il pane sotto la neve», «I giorni del ciliegio», «I giorni del castagno», «L’anno liturgico», «Il Rosario», ci mostrano la facilità, la scorrevolezza, la freschezza della sua vena narrativa, vicina a quella di Nicola Lisi nello stupire francescano di fronte alla bellezza della natura e nell’afflato di gioia e gratitudine verso il Creatore di tutte le cose; ma ce n’è almeno uno, «La tunica stracciata» (sottotitolo: «Lettera di un cattolico sulla "riforma liturgica"» (sì: "riforma liturgica" tra virgolette) che andrebbe ristampato, letto e riletto in chiave di estrema attualità, perché in esso viene analizzata con pietà cristiana e senza astio, ma anche con una lucidità che non fa sconti a nessuno, l’involuzione neomodernista che, spacciata per apertura ecumenica e per dialogo interreligioso, oltre che per svecchiamento di forme e strutture ormai obsolete, sta letteralmente conducendo alla dissoluzione ciò che ancora resta del cattolicesimo, sia come stile di vita, sia come concezione teologica del mondo.
Tito Casini, per esempio, coglie nell’atteggiamento tenuto dai cattolici, compresi gli uomini politici democristiani e molti membri del clero, nel 1974, in occasione del referendum sul divorzio – in cui la vittoria dei "laici" è stata trionfalmente celebrata da quelli stessi che avrebbero dovuto dolersene – come il segnale inequivocabile che la diga era rotta, che la coerenza dei cristiani si era sbriciolata e che altre leggi, sempre più anti-cristiane, come quella sull’aborto, sarebbero presto seguite, sì da smantellare quel che di autenticamente cristiano rimaneva ancora nella società italiana: il tutto con buona pace e nel perfetto silenzio, se non, addirittura, nell’aperto compiacimento, di molti cattolici che si definivano, e si definiscono, "moderni", "aperti", "dialoganti" e così via. Non si è visto perfino un padre servita, per giunta poeta, David Maria Turoldo, spezzare pubblicamente la corona del rosario, per mostrare a tutti quanto simili cattolici si consideravano aperti e moderni nel dialogo col mondo? Quelli come padre Turoldo era uomini di Chiesa, ma erano anche divorzisti, abortisti, liberali; figuriamoci com’erano i cattolici "progressisti" laici.
Tito Casini, comunque — lo ripetiamo — benché toscano "maledetto", come avrebbe detto Malaparte, non era uomo da serbare rancore verso alcuno, poiché il rancore non appartiene allo spirito del cristianesimo; era uomo coerente, questo sì, e uomo che vedeva lontano, quando pareva che vedere lontano fosse guardare a sinistra e plaudire ad ogni moda che venisse da quell’area ideologica, da quella parte politica, da quella cultura, da quella nuova Gerusalemme laica; e fu, pertanto, profeta inascoltato, anzi, peggio, fu accusato di spirito retrivo e reazionario, come cattolico attardato e passatista, e gli venne comminata la sola che simili reprobi meritano: il silenzio. Nessuno leggeva più i suoi bei libri; in compenso, venivano celebrati dalla critica, e furoreggiavano anche fra molti lettori di formazione e di sentimenti cattolici, i romanzacci pornografici e banali di un Alberto Moravia, impregnati di cinismo e di disprezzo per la creatura umana.
Non è a «La tunica stracciata» (libro che venne tradotto anche in francese), tuttavia, che vogliamo qui fare un particolare riferimento, bensì a uno dei suoi agili e poetici libri ispirati dalla natura e dalla spiritualità cristiana, «I giorni del ciliegio» (corredato da bellissime fotografie, semplici e poetiche come lo sono le pagine del testo), e, in special modo, a un racconto che ci è piaciuto, perché mostra come un uomo semplice e schietto possa essere un vero "signore", nel senso autentico e originario della parola, mentre i damerini in giacca e cravatta, con le loro belle lauree universitarie e la loro cultura aggiornata, moderna, cosmopolita, possono essere nient’altro che zoticoni provinciali malamente dipinti e camuffati: una situazione che ci ha fatto venire in mente cose che accadono non troppo di rado nel panorama della società odierna, e specialmente nella cultura nostrana, dove "modernità" è, automaticamente, sinonimo di "civiltà", "progresso" e chissà quali altre meraviglie, mentre "tradizione" dev’essere, per forza di cose, il suo contrario, vale a dire "arretratezza", qualcosa che va superato e cancellato.
Così, dunque, scrive l’ottimo Tito Casini in un suo racconto pieno di grazia e di freschezza (da: T. Casini, «I giorni del ciliegio», Torino, Società Editrice Internazionale, 1955, pp. 160-163):
«… Passava, lento e solenne come un antico patriarca, sospingendo nel medesimo antico ordine il suo armento. In testa, il branco cornuto e barbuto, nero e puzzolente dei becchi e delle capre; dietro, i dimessi somari con le provviste e ogni bagaglio dei pastori; quindi, con gli occhi biechi e le robuste corna a più giuri, i montoni dai gravi campani; dietro a loro, tutto il grosso del gregge, il branco lanoso, serrato e belante delle pecore, degli agnelli e dei castroni. Ultimo veniva, circondato da’ suoi cani, il padrone e capopastore, mentre i garzoni, camminando a tratti a tratti lungo l’armento, ne dirigevamo e sollecitavano la lenta, polverosa marcia.
Giunto alla tappa di Firenze, Martin Buti lasciava il gregge in custodia ai garzoni, ed entrava in città. A far che cosa? Oh, bella! Uno che è padrone di novecento o mille pecore, che ha da vendere ogni anno centinaia di agnelli e quintali di lana e quintali su quintali di cacio, avrà bene le sue cose da fare in città! Martin Buti entrava, in ogni modo, in città.
Vi entrava così com’era, ossia in abito da pastore: scarponi grossi e ferrati in piedi, ghette di cuoio ben cignate intorno alle gambe, calzonacci di fustagno o di mezzalana fermati a cintola da una gran fucaccia rossa che gli ciondolava sul fianco, corpetto di pelle di capra con tutto il pelo attaccato, giubba come i calzoni e con la gran tasca di dietro da metterci anche l’agnello nato di fresco, che non può tener dietro alla madre, cappellaccio a gran tesa, buono contro l’acqua e il sole, grande incerato a tracolla come uno schioppo e bastone di leccio in mano.
Uno che è padrone di tutta quella roba che s’è detto ormai due o tre volte, sarà ben padrone anche di entrare, se gli pare, a pigliare un caffè; e, se gli pare, anche in un caffè di piazza del Duomo. Padronissimo; come di fatti, una volta, Martin Buti vi entrò. Una volta soltanto? Chissà quante! ma quella volta che dico io,è degna d’esser rammentata, a gloria di lui, a esortazione della modestia, a confusion degli sciocchi, e a conferma della vecchia sapienza che l’abito non fa il monaco.
Una volta, dunque, trovandosi in piazza del Duomo, Martin Buti ebbe voglia di pigliare un caffè. Cercò di una bottega, ne vide una piuttosto di lusso — ma il lusso non metteva soggezione a Martin Buti — ed entrò.
Al suo entrare, orrore di quattro o cinque cittadinelli lì ai tavolini a succiare un po’ l’orlo di una tazza e un po’ una cicca di sigaretta!
– Chi è questo cencioso che non si vergogna di mettere i suoi piedacci dove siamo noi, di sedersi dove ci sediamo noi, di ordinare il caffè come l’ordiniamo noi, quasi fosse una bevanda per la sua bocca…?-
E buon per lui — dirò così — che lo sdegno si cambiò presto in ilarità! Muto lo sdegno e muta l’ilarità; Martin Buti capì lo stesso, ma finse di non capire, come pure vide, e finse di non vedere, che quelli a cui s’era messo vicino cambiavan di posto, scostandosi da lui.
Prese il suo caffè imperturbato, anzi con l’aria di chi si sente tutt’altro che a disagio e quasi d’abuso lì dove si trova; bevve l’ultima sorsata quando gli altri bevvero l’ultima, e quando gli altri ebbero pagato — intascando con sublime disprezzo il resto, contato con l’occhio mentre il garzone lo rifaceva — anche Martino si cavò di tasca e buttò sul marmo del tavolino la sua moneta: un bel marengo d’oro che que’signori compari non si sarebbero neppur sognati potesse uscire da quelle brutte tasche pelose di quel corpetto.
Restarono certamente un po’ mortificati a quel suono e a quella vista, ma il bello non era ancora venuto.
Il bello fu quando il garzone, meravigliato certo anche lui, mise mano a fare il resto. Martino fece col capo un segno negativo e disse insieme, guardando a sua volta con aria di naturale superiorità quei cittadinelli rimasti tutti muti, disse grave e solenne:
"Martin Buti non piglia resti".
Tirò fuori da una tasca la sua gran pipa di scopa a testa di re incoronato, levò da un’altra una borsaccia di pelle piena di tabacco, riempì la pipa e accese strusciando ai calzoni lo zolfino, calcò col polpaccio del dito grosso la carica accesa, tirò due o tre volte, e quindi, raccolto il suo bastone e alzatosi, si avviò, con la medesima sovrana indifferenza e fumando, verso la porta.
Il garzone si precipitò ad aprirgliela.»
Ah, quanti intellettuali presuntuosi e cafoni ammorbano l’aria del nostro Bel Paese; quante persone che si credono moderne e progredite, tengono in ostaggio il mondo della cultura italiana, occupando poltrone e spazi giornalistici e televisivi, per ripetere fino alla nausea le solite banalità politicamente corrette; e, viceversa, di quanti pastori signorili come Martin Buti ci sarebbe bisogno, per portare un po’ di sano sterco e fresche zolle sui pavimenti tirati a lucido dei salotti intellettuali di casa nostra, onde suonare la sveglia ai tanti, ai troppi addormentati: alcuni divenuti tali per pura e semplice stupidità, altri per conformismo e molti, ahimè, per il più venale e opportunistico dei calcoli…
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