
L’uomo spirituale sa che ogni cosa è assurda, se guardata nel solo significato fenomenico
28 Luglio 2015
Gli interessi degli industriali inglesi dietro gli orrori della Guerra del Pacifico
28 Luglio 2015Una domanda che ci ha sempre tormentati è se Abraham Lincoln, venerato negli Stati Uniti come un secondo padre della patria e come un nobilissimo idealista caduto sul campo del dovere, meriti un giudizio così generoso; e se la sua gloria fu realmente tale, considerato che fu la sua presidenza a spingere quel Paese negli orrori di una guerra civile che ebbe pochi equivalenti, nel mondo, quanto a ferocia sanguinaria, barbarica spietatezza e sistematica devastazione.
La versione ufficiale e politicamente corretta è che Lincoln non porta alcuna responsabilità né politica, né — tanto meno — morale, per lo scoppio della Guerra di Secessione americana, e meno ancora per il suo andamento così terribilmente distruttivo; o che, se la porta, la porta solo in maniera indiretta, nel senso che gli toccò l’amara incombenza di assumere quel pesantissimo fardello, che era assolutamente inevitabile se si voleva salvare l’unità della nazione e, nello stesso tempo, la validità universale del principio dell’uguaglianza fra gli uomini.
Lincoln, insomma, sarebbe stato il Cireneo che dovette portare la croce di decisioni ingrate e difficili, ma che ebbe il coraggio di assumerne la responsabilità e di seguire la sua strada senza esitazioni, perché da quella decisione dipendeva non solo una fondamentale conseguenza politica, l’integrità della nazione statunitense, ma anche quella di un principio etico assolutamente irrinunciabile: che gli esseri umani hanno uguali diritti, indipendentemente dal colore della pelle o da altre circostanze esteriori.
Ma è proprio così?
La storia, si sa, la scrivono i vincitori; e la vittoria militare dell’Unione sulla Confederazione sudista ha tagliato la testa al toro dei dibattiti e delle eventuali perplessità: in questo senso, nessuno storico americano della Vulgata culturale oggi imperante si è mai permesso di chiedere conto al presidente Washington dei suoi errori, perfidie e imprudenze, che lo condussero al disastro nella primissima fase della Guerra franco indiana (1754-55); a Jefferson, di essere stato un proprietario di numerosi schiavi; a Jackson, di aver avallato l’esproprio delle terre dei Cherokee della Georgia, e la loro deportazione (il "sentiero delle lacrime"), per la sordida ragione della scoperta dell’oro sulle loro terre; a McKinley, le oscure trame per muovere guerra alla Spagna e sottrarle Cuba e le Filippine; a Wilson, la campagna elettorale menzognera, basata sul neutralismo, mentre poi si affrettò a dichiarare guerra alla Germania e, per buona misura, anche all’Austria-Ungheria (che non aveva mosso un dito contro gli Stati Uniti), nonché la pace tirannica e fasulla di Versailles; a F. D. Roosevelt, una eguale menzogna in campagna elettorale, e per le stesse ragioni, nonché la costruzione della bomba atomica; a Truman, la responsabilità di averla gettata su due inermi città giapponesi (due, perché non bastava una sola): Hiroshima e Nagasaki; e l’elenco, come si può facilmente immaginare, è alquanto incompleto.
Certo, ogni nazione, specialmente se giovane, ha bisogno di fabbricarsi la propria mitologia, atta a legittimarne l’esistenza e l’integrità; gli Statunitensi, però, si sono segnalati, fin dall’inizio, per un autentico eccesso di zelo, oltretutto di ascendenza religiosa e puritana (i Padri pellegrini, prima; il mito del "destino manifesto", equivalente a una nuova Terra Promessa, poi), nel senso che hanno preso i propri miti con la massima serietà, come se nessun’altra nazione al mondo possedesse titoli di eguale nobiltà, non diciamo per contrastare, ma neanche per competere, sul terreno della libertà e della democrazia, con la nazione nordamericana. Col risultato che chiunque osi intralciare quel glorioso cammini merita non solo la distruzione, ma anche una condanna morale inappellabile.
E tale è stato il destino degli Stati confederati, quando la Guerra civile si concluse con la loro totale e irrimediabile disfatta. «Vae victis!», ammonivano gli antichi romani: guai ai vinti! Gli Stati del Sud vennero trattati con la stessa durezza che già aveva sperimentato il Messico, dopo la sconfitta nella guerra del 1846 (e l’amputazione di oltre metà del proprio territorio nazionale a vantaggio del vincitore, con il Trattato di Guadalupe-Hidalgo): non solo vennero prostrati, spogliato, umiliati, ma venne anche negata la dignità morale della loro lotta eroica e sfortunata, con il pretesto che essi avevano combattuto per degli scopi abietti e puramente egoistici.
Così ha riassunto la questione lo storico inglese Godfrey Benson, barone di Charnwood, nella sua classica biografia del Presidente americano (titolo originale: «Abraham Lincoln», 1916; traduzione dall’inglese di Lidia Velani, «Lincoln», Milano, Dall’Oglio Editore, 1968, pp. 184-186):
«Il Sud non era né vile, né pazzo; solo, era in errore. Qualcuno potrebbe ritenere che questa non fosse una buona ragione per muovergli guerra; e infatti, come spesso accade, coloro che erano nel giusto presero le armi con maggiore esitazione di quelli che avevano torto. Se si fosse sopportata una pacifica separazione degli Stati schiavisti, questi avrebbero instaurato una nuova e particolare società politica, tenuta insieme, con maggiore fedeltà che all’Unione originaria, da un unico principio manifesto: l’ineguaglianza fra gli uomini. Non si può certo pensare alla libera vita nazionale, che avrebbero in tal modo iniziata, come ad una cosa da rispettare e da conservare. E non è neanche vero che la scelta, da essi fatta, di questa abietta libertà non riguardasse affatto i loro vicini. Abbiamo veduto come gli interessi schiavistici aspirassero a un ampliamento dei propri dominî; la Confederazione del Sud, una volta saldamente instaurata, avrebbe indubbiamente avuto un notevole potere di aggressione e di disturbo sul continente americano. I problemi dei diritti territoriali e di altro genere fra essa e la vecchia Unione potevano, per il momento, trovare una soluzione soddisfacente, oppure, secondo l’opinione di Lincoln, dimostrarsi insolubili. Ma se, nella migliore delle ipotesi, gli Stati che aderirono alla vecchia Unione avessero ammesso il diritto a separarsi proclamato dai primi Stati secessionisti, avrebbero avuto poi un’esistenza quanto mai incerta come nazione, minacciata ad ogni nuovo conflitto d’interessi o di sentimenti di ulteriori fratture alle quali non avrebbero potuto resistere. Nei capitoli precedenti abbiamo ripetutamente insistito sui sentimenti che contribuirono alla formazione del popolo americano, e sulla forma e sul grado in cui questi sentimenti erano condivisi da Lincoln. Solo così, forse, possiamo pienamente apprezzare per qual fine combattessero i Nordisti. È impreciso, per quanto non del tutto errato, dire che combatterono contro lo schiavismo. Sarebbe totalmente falso dire che combatterono per semplice desiderio di potenza. Entrarono in guerra per conservare e completare un’unità politica nobilmente concepita da coloro che già avevano contribuito a crearla e capace, come i risultati dimostrarono, di una stabile e sana continuità.
Se vogliamo penetrare nello spirito che sostenne il Nord in questa lotta, non dobbiamo dimenticare che il senso di lealismo verso l’Unione ebbe un significato molto più vasto di una semplice fedeltà verso un’autorità particolare. Vividamente presente alla mente di una grande moltitudine, c’era la sensazione che, anche se lo schiavismo non fosse entrato nella vertenza, un motivo ben più profondo di quello della recente Unione era legato all’esito della guerra. Gli Stati Uniti avevano compiuto il primo e il più famoso tentativo, in un grande Paese moderno, per garantire un governo che esprimesse la volontà di tutto il popolo. Se in quel momento cruciale tale governo avesse mostrato una inammissibile debolezza, se si fosse messo alla mercé della prima potente minoranza pronta a cogliere, per ribellarsi, un’occasione artatamente preparata, ciò che il popolo aveva imparato a considerare come il mezzo più potente per elevare ì’uomo in ogni senso si sarebbe rivelato un fallimento per tutti gli anni futuri. Nessun americano se ne rendeva conto meglio di Lincoln, il quale ebbe a dire: "È stata sempre una questione molto dibattuta quella di sapere se un governo non abbastanza forte per difendere la libertà del popolo, può esserlo abbastanza per conservare il potere". Questo patriottismo presenta un aspetto ben definito, che può essere chiarito da numerosissime frasi tratte dai suoi discorsi e dai suoi scritti, e che molti popoli possono oggi apprezzare. L’attaccamento di Lincoln al proprio Paese e alle sue istituzioni dipendeva strettamente da un più vasto sentimento di umana bontà, né era per questo meno intenso. Tale sentimento, diffuso in tutto il Nord, trova a maggior espressione nel discorso che egli improvvisò, in procinto di essere proclamato presidente, in quella sala di Filadelfia dove era stata formata la dichiarazione d’indipendenza: "Non ho mai professato un movente politico che non scaturisse dai sentimenti espressi nella dichiarazione d’indipendenza. Ho spesso riflettuto sui pericoli ai quali si erano esposti gli uomini che si sono riuniti qui e che hanno progettato e adottato questa dichiarazione. Ho riflettuto sulle fatiche sopportate dagli ufficiali e dai soldati dell’esercito che portarono a compimento questa indipendenza. E mi sono spesso chiesto quale fosse il grande principio o l’idea che ha mantenuto così a lungo la Confederazione. Qui non si tratta soltanto della separazione di alcune colonie dalla madrepatria, ma dello spirito che informa la dichiarazione d’indipendenza e che dona la libertà, non solo al popolo di questo Paese, ma, io spero, al mondo, per tutto il tempo a venire. E la promessa che, un giorno, il peso verrà sollevato dalle spalle di tutti gli uomini.»
Ora, a parte il fatto che Lord Charnwood non si prende il benché minimo disturbo di fare un cenno alle potenti ragioni economiche e finanziarie di quella sciagurata guerra civile, ma ne discute — oh, ma con l’aria di una grande imparzialità e di un signorile distacco!, questo bisogna ben riconoscerlo — resta il fatto che egli non sembra neppure sfiorato dal dubbio che il suo punto di vista, il punto di vista di un liberale anglosassone fermamente convinto della bontà del libero mercato e del rispetto assoluto della volontà popolare, non rappresenti affatto l’ultima parola del giudizio di Dio sulle vicende umane, ma, dopotutto, solo l’espressione di una ideologia fra le tante.
Si direbbe, del resto, che il buon Lord inglese si senta un tantino a disagio nel sostenere che Lincoln, il suo eroe, non aveva altra scelta che quella di imboccare la vita della guerra civile: tanto è vero che si profonde in spiegazioni che, però, hanno il grave difetto di basarsi su mere supposizioni e su opinabili ipotesi. «Se l’Unione non avesse reagito alla secessione del Sud, eccetera»: eppure anche l’ultimo studente sa bene che la storia non si può fare con i "se", e nemmeno la politica; mentre le minacce da lui ventilate alla sopravvivenza dell’Unione hanno qualcosa di artificioso, di stiracchiato, di pochissimo persuasivo; che, semmai, è legittimo pensare che la schiavitù sarebbe lentamente scomparsa, come era scomparsa nel mondo antico, semplicemente per il mutare dei rapporti di produzione e perché altre forme di lavoro erano più convenienti per gli stessi proprietari terrieri; ma, soprattutto, che la guerra a morte condotta dal Nord contro il Sud contraddice, nella maniera più cruda, tutte le nobili chiacchiere sul rispetto della volontà popolare, dal momento che lo stesso Autore è costretto a riconoscere che i Sudisti credevano fermamente nella bontà della loro causa. A questo fatto egli non sa opporre null’altro che una petizione di principio: ci credevamo, sì, tuttavia avevano torto: parola di Lord Charnwood.
Ma l’aspetto più allarmante del ritratto di Lincoln, delineato nella pagina che abbiamo riportato, è il suo atteggiamento da paladino, anzi, da antico crociato, nei confronti di una questione che avrebbe richiesto somma duttilità e illimitata buona volontà (mentre egli l’aveva già liquidata come "insolubile": tranne che a colpi di cannone, beninteso). Nel discorso di Lincoln a Filadelfia traspare tutta l’arroganza di una ideologia, quella democratica, che ha promosso se stessa al rango di parola definitiva della Storia, e che intende bandire una lotta senza quartiere contro chiunque osi opporsi alla sua marcia trionfale, con l’obiettivo dichiarato di regalarne i benefici a tutti i popoli della Terra, e sino alla fine dei tempi. Per chi voglia comprendere la linea costante della politica estera americana, fino ai nostri giorni, e soprattutto ai nostri giorni, sono parole chiarissime: gli Stati Uniti non deporranno le armi sino a che il mondo intero non si sarà inchinato al principio del libero mercato e della democrazia; finché ci sarà un solo Stato, un solo gruppo umano che non riconoscerà tali principi, gli Stati Uniti non desisteranno dalla lotta.
Non occorre scomodare né la Massoneria, né il Gruppo Bilderberg, né la Commissione Trilaterale; non occorre aggiungere altro. Le cose sono fin troppo chiare. La "pax americana" si basa sulla guerra a oltranza contro chiunque non riconosca la supremazia del dollaro: il tutto, però, condito con la massima ipocrisia, senza neppure nominare i reali interessi finanziari che stanno dietro a una simile ideologia. Proprio come fa il nostro bravo storico inglese Godfrey Benson, Lord Charnwood.
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