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Le tentazioni di Cristo nel deserto racchiudono tutto il mistero della storia

Che cosa è, precisamente, la storia – sia la grande storia, quella che accompagna le vicende dei popoli, degli imperi, delle civiltà -, sia la storia intima, personale, privata, dell’anima umana, se non una lotta continua, una incessante scaramuccia, una guerriglia che rimane indecisa fino all’ultimo istante, tra il richiamo di Dio e la tentazione del Diavolo?

Ecco perché Gesù, prima di iniziare la sua predicazione, è andato nel deserto ad affrontare il Diavolo: quello era, ed è, il Nemico numero uno; non ha senso battersi contro i nemici secondari, se prima non si è affrontato lui, il Principe delle tenebre. Ed ecco il racconto delle tentazioni, nella versione di Luca (4, 1-13):

«Gesù, ripieno di Spirito Santo, tornò dal Giordano e venne condotto dallo stesso Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Egli non mangiò niente durante quei giorni, e quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse. "Se tu sei il Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane". Ma Gesù gli rispose: "Non di solo pane vivrà l’uomo." Il diavolo poi, sollevatolo in alto, gli mostrò in un attimo tutti i regni della terra e gli disse: "Io ti darò tutta questa potenza, e la loro gloria, perché è stata data a me e la do a chi voglio; se dunque tu ti prostrerai davanti a me, tutto sarà tuo. Ma Gesù gli rispose: "Sta scritto: adorerai il Signore Duo tuo e servirai a lui solo". Il diavolo lo condusse infine a Gerusalemme, lo pose sull’angolo del tempio e gli disse: se tu sei il Figlio di Dio, di qui buttati di sotto, poiché sta scritto (Salmo91, 11-12): Ha dato ordini per te ai suoi Angeli, affinché tu proteggano, e che ti portino sulle loro mani, perché il tuo piede non urti contro una pietra". Ma Gesù gli rispose, difendo: "è stato detto: non tenterai il Signore, Dio tuo". E dopo averlo tentato in tutti i modi, il diavolo si allontanò da lui, fino ad un altro tempo stabilito (da Dio).»

Tutta la vita pubblica di Gesù assume una prospettiva chiara soltanto se ci si pone sotto questa angolatura: tutto quello che ha fatto e detto, è stato per strappare gli uomini all’influsso del Demonio e per riportarli nell’alveo dell’amore del Padre. Il Diavolo non è un simbolo, ma una presenza reale, oscura e minacciosa: come dice San Pietro nella prima delle sue epistole, egli se ne va in giro simile a un leone ruggente, in cerca di anime da divorare.

Anche Paolo VI ricordò questa presenza terribile, in due interventi pubblici, nel 1972: si alzò un baccano d’inferno (è proprio il caso di dirlo); si gridò allo scandalo; si disse che, con quelle poche parole, il papa aveva riportato indietro la Chiesa, a prima del Concilio Vaticano II (sempre questo benedetto mito del Vaticano II, letto e interpretato come piace ai cattolici "progressisti"). Il giornalista Vittorio Gorresio, tanto per citarne uno, si fece interprete del generale stupore e del generale imbarazzo: ma come, Santità, non sta bene dire certe cose, siamo nel XX secolo e non più nel buio e superstizioso Medioevo…

Eppure uno dei papi che maggiormente piacciono ai "progressisti", Leone XIII (per via della "Rerum novarum": sempre letta e interpretata come piace a loro, era stato chiarissimo su questo punto: il Diavolo esiste, eccome: tanto è vero che lo vide coi suoi occhi. E non per niente volle che la Messa fosse accompagnata da una speciale preghiera di protezione, rivolta a San Michele Arcangelo, contro le insidie del Maligno. Tutti i pontefici, del resto – moderni o non moderni – hanno ribadito questo punto del Magistero: il Diavolo esiste; è un essere spirituale, intelligente, potente; suo scopo costante è trascinare gli uomini lontano da Dio, cioè nel peccato; tutti i pontefici lo hanno ripetuto, compresi gli ultimi tre: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco.

I cattolici "progressisti" si mettano il cuore in pace e se ne facciano una ragione: questo è ciò che la Chiesa insegna, che ha sempre insegnato: e se, per loro, ciò è motivo di imbarazzo, ebbene, che se ne vadano per la loro strada, e la smettano di dirsi cattolici. Non si può essere cattolici e deridere la credenza nel Diavolo (anche perché è il Diavolo, semmai, a deridere siffatti "credenti"). E chi mai potrebbe permettersi di ridere del Diavolo? Nemmeno Jean-Marie Vianney, nemmeno san Pio da Pietrelcina, che pure lo hanno visto e ne hanno subito gli attacchi, per gran parte della loro vita. Col Diavolo non si scherza: sarebbe come scherzare con la morte, e peggio: perché l’anima è più preziosa della vita fisica, avvolta nel corpo mortale.

Gesù, dunque, per prima cosa, non appena battezzato nel Giordano, decide di affrontare il Nemico più pericoloso di tutti: e di affrontarlo sul suo terreno, cioè nel deserto. Il deserto è il regno dell’essenziale, e, perciò, è anche il regno delle tentazioni: chi è capace di accontentarsi dell’essenziale? Eppure, l’inganno del Diavolo consiste proprio in questo: far credere all’uomo che non può accontentarsi dell’essenziale, vale a dire che non può fidarsi veramente di Dio. E allora si fa avanti lui: promette la sicurezza economica, indi promette anche il potere, il successo, l’ammirazione degli uomini.

Ma tutto quello che viene da lui, è maledetto: accettare le sue offerte, significa mettere in pericolo mortale la propria anima. Chi incomincia a non fidarsi di Dio e a diventare schiavo delle cose che non vengono dall’Alto, ma dal basso, è già quasi perduto. Chi si lascia attirare e sedurre dai subdoli suggerimenti del Diavolo (come accadde ad Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden), è già nelle sue mani, ed egli ne farà quel che vorrà. Ne farà un adoratore dell’effimero, del transitorio, del superfluo; ne farà un adoratore degli idoli. E dietro gli idoli ci sarà sempre lui, il Principe del Male: perché chi adora gli idoli, non adora soltanto delle cose inerti, prive di valore in se stesse, ma adora anche colui che si nasconde dietro di esse e che si serve di esse per confonderlo, per irretirlo, per stregarlo. Non si adorano gli idoli impunemente, perché non si possono servire due padroni nello stesso tempo. Chi non serve Dio, serve il Diavolo: non esiste una posizione neutrale; a nessuno è concesso di fare il semplice spettatore.

Nel deserto, dunque, Gesù incontra il Diavolo. Ma come lo incontra? Fisicamente, mentalmente, spiritualmente, allegoricamente? Allegoricamente, no: lo incontra per davvero. Altro non possiamo dire: sono esperienze inesprimibili. Eppure, i Vangeli sinottici ne parlano concordemente. Questo significa che Gesù ha ritenuto talmente importante quel suo primo faccia a faccia con il Signore del Male, che ha voluto raccontarlo, poi, ai suoi discepoli: altrimenti, non ne sapremmo nulla. Non c’era nessun altro, lì, nel deserto: solamente Gesù e il suo Nemico. E anche quest’ultimo, da parte sua, riconobbe tosto il Redentore: riconobbe in lui non un nemico qualsiasi, ma il Nemico: il Figlio di Dio. E comprese che quella era la partita decisiva. Perché Gesù, in quanto uomo, era soggetto alle tentazioni, come qualunque altro essere umano: non aveva la corazza, non aveva alcuna protezione particolare; del resto, si era fatto uomo per questo, per condividere la condizione umana sino in fondo, debolezze comprese. Se Gesù avesse voluto affrontare il Diavolo nel pieno della sua divinità, avrebbe potuto annientarlo al primo assalto: ma non era quella la sua missione, non per questo si era incarnato. La sua missione era quella di aprire la strada che porta dall’uomo a Dio, togliendo di mezzo il principale ostacolo: il Diavolo, e il potere di seduzione che egli esercita, da sempre, sull’anima umana. Solo se lo avesse affrontato e vinto così, ad armi pari, da semplice uomo fra gli uomini, la sua vittoria sarebbe stata decisiva; solo così la sua venuta avrebbe avuto un significato di Redenzione universale.

S’intende che la partita non sarebbe finita lì; che il Diavolo, sconfitto, non avrebbe desistito nemmeno per un attimo, sino all’ultimo giorno, sino all’ultimo istante. Infatti, leggendo il Vangelo, lo ritroviamo ancora in agguato, dietro le quinte, a spiare le mosse di Gesù e dei suoi apostoli, a cercare l’occasione favorevole. Un varco lo ha trovato nel cuore di Giuda: e, attraverso quel varco, ha cercato di far crollare l’intera opera del Redentore. Ci ha provato ancora nell’Orto degli ulivi, e durante il processo, la flagellazione, la crocifissione: fino all’ultimo. Se Gesù avesse rifiutato il suo amaro destino, in quanto uomo; se si fosse ribellato, in qualsiasi maniera; se fosse morto disperato, convinto di essere stato abbandonato da Dio, il Diavolo avrebbe fatto ancora in tempo a vincere la grande partita. E invece Gesù lo ha beffato: quando ha gridato, dall’alto della croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», non gridava la sua disperazione, ma citava le parole del Salmo 22: perché la sua missione umana, di profeta e redentore venuto a compiere le Scritture, fosse realizzata sino in fondo, sino all’ultimo dettaglio. Perché i Giudei lo potessero riconoscere, anche se già lo avevano rifiutato e mandato al supplizio.

Scriveva David Maria Turoldo nel suo saggio «Il diavolo sul pinnacolo» (Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1988, pp. 45-47):

«Ricordiamo ancora Dostoevskij secondo il quale la pagina delle Tentazioni contiene tutto il mistero della storia. Tutto dipende se si risponde di sì o di no. Proviamo solo a pensare se Cristo avesse detto di sì: tutto sarebbe finito, e l’uomo sarebbe ancora da redimere. Cristo finito come uno qualsiasi di noi, come ogni imperatore, come un Cesare qualunque. Anzi, non avrebbe neppure senso che si parlasse di lui, come non ha senso parlare di nessun Cesare.

Di lui invece si parlerà fino alla fine del mondo, perché ha detto di no. Tutta la storia corre sulla traiettoria di queste due proposte: la proposta di Dio (proposta della divina alleanza): "Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio; e la proposta di Satana: "Sarete voi stessi come Dio". È il "Grande Inquisitore", che risponde di sì, l’immagine di tutte le potenze della terra (compresa la Chiesa quando accetti di essere una potenza, quando precisamente risponda di sì alla proposta del seduttore); ma il "Grande Inquisitore" non salva nessuno, non libera nessuno. Egli rinuncia a segnare l’unica via della libertà: per salvarsi bisogna perdersi. Non per caso Cristo dice: "Confidate in me, io oggi ho vinto il mondo"; e lo diceva il giorno che andava a morire. Era la conclusione di quella battaglia iniziatasi nel deserto.

Tutto dipendeva da quel confronto iniziale: da quale parte schierarsi? È qui, pertanto, che si deve scandagliare e capire. Un confronto metafisico, un confronto che sta alle radici di ogni esistenza, appena tu arrivi allo stato di coscienza. Tutti "condannati" a scegliere. Non esiste neutralità nella vita dello spirito. Non si possono servire due padroni; non si può essere eredi di due regni. I compromessi sono costosissimi: illusioni che renderanno ancora più amara la morte, quando ti accorgerai che tutto sarà perduto, che sei corso dietro a un tragico miraggio: il miraggio che precisamente ti era baluginato agli occhi in fiamme per la cupidigia delle cose, in quello spazio non condizionato e fatale all’incontro con i due Assoluti, nel deserto delle tue responsabilità (ove tu sei sempre solo), spazio delle tue scelte.

E dunque un Cristo tentato sì, ma non un Cristo vile: questo è l’importante. E poiché dice di no, egli è la figura più riuscita di vincente, l’unico vittorioso. Ora non interessa più che diventi un trastullo nelle mani del seduttore, preda del furore satanico: un Cristo portato qua e là dal suo avversario, come un fuscello. Sembrerebbe un Cristo in balia degli eventi. Travolto dalle forze oscure, come sembrano essere tutti gli inermi del mondo, tutti gli umili, i giusti, gli anonimi "servi di Jahvé". Un Cristo ora aggredito nel deserto, ora trasportato sul pinnacolo del tempio, indi sull’alto di una montagna.

Anche questo ha una grande, duplice importanza: la prima, che il forte può anche concedersi al gioco losco del seduttore, può perfino assistere all’incantesimo più sofisticato e non solo di una creazione che aspetta di essere sconvolta (pietre da convertirsi in pane), ma anche in una città distesa ai suoi piedi, con una grande piazza sotto la torre; e lui a picco, da lassù, esibirsi per lo spettacolo più irrazionale ("buttati giù che verranno gli angeli a sostenerti"); indi assistere alla profferta di una potenza cui si è già rinunciato: all’incanto di regni che possono essere nostri, a condizione che si abdichi al dominio già stabilito su noi stessi ("tutti questi miei regni io ti darà se tu prostrato mi adorerai"). E la seconda importanza è quella del vittorioso che può sembrare temporaneamente sconfitto: quella di un Cristo non soltanto in balia della storia, ma addirittura in balia delle forze del male.

Invece solo così Cristo è coerente alla logica della sua incarnazione, la logica di essere immerso totalmente e interamente nella nostra avventura. Ed è in virtù di tale visione che va capito da queste pagine, come, del resto, dalle altre della sua passione; quando già inchiodato sull’alto della croce, pur avendo liberato tanti dalla propria condizione di sventura e di morte, ancora risponde di no, di non voler discendere: precisamente per non rinunciare all’unica signoria che voleva portare a ogni uomo. Anche allora gli diranno, ripetendo lo stesso rischio delle tentazioni: "Tu che hai salvato gli altri, salva te stesso e discendi". E invece non discende.»

Già: non discende, non si lascia provocare e ingannare dall’astuzia del Diavolo: perché era il Diavolo, senza alcun dubbio, a parlare così, per bocca di quei Giudei che lo irridevano e lo schernivano, già in agonia sulla croce; il Diavolo che faceva il suo ultimo sforzo, che sferrava il suo ultimo assalto per far cadere Gesù nel tranello. Ma Gesù non vi cadde.

Forse, vi caddero e vi cadono quei "cristiani" che non hanno ben mediato questa pagina del Vangelo; quei "cristiani" che sorridono a sentir parlare del Diavolo, perché si credono adulti ed emancipati, loro; si credono uomini moderni e cristiani moderni.

Ma il cristiano non è moderno, come non è antico: il cristiano vede la malizia del Diavolo e non si lascia irretire, non si lascia tentare, non si lascia ingannare. Prende a modello Gesù Cristo, anche in questo, come sempre. Gesù ha compreso l’inganno: lasciarsi attrarre nelle logiche del mondo, farsi attirare sul piano della immanenza chiusa in se stessa. Riconoscere la supremazia del Diavolo, avrebbe voluto dir questo: riconoscere la sua superiorità pratica, nelle cose di quaggiù. Ma Gesù non è venuto per rendere perfetto il mondo di quaggiù, bensì per mostrare agli abitanti di quaggiù la via della perfezione: che non si realizza mai del tutto nella vita umana, e che tende sempre più in alto, verso il Cielo: la vera patria dell’uomo, dove l’incontro con Dio diventa perfetto, e tutto quel che non riuscivamo a capire in questa vita, diventa finalmente chiaro, rasserenante, luminoso.

A cominciare dal mistero della sofferenza.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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