
La storia moderna non è che il tentativo dei popoli di sottrarsi alla dittatura finanziaria mondiale
28 Luglio 2015
Pierre-Simon Ballanche vede la storia umana come perpetuo processo di caduta e redenzione
28 Luglio 2015«Io sono e nessuno, nemmeno io, sa che cosa sono»: Prezzolini e il mistero dell’autocoscienza

«Io sono, e nessuno, nemmeno io, sa che cosa sono»: con questo paradosso Giuseppe Prezzolini esprimeva tutta la sua perplessità, forse il suo disagio esistenziale, oltre che intellettuale, di fronte al mistero dell’autocoscienza: della coscienza che ha consapevolezza di se stessa, che s’interroga su chi o che cosa essa sia, sulla sua origine e sulla sua natura, sulle sue possibilità di conoscere e, prima di tutto, di conoscersi.
Vale la pena di riportare almeno la pagina iniziale di questa riflessione (da: G. Prezzolini, «Dio è un rischio», Milano, Rusconi, 1979, pp. 47-50):
«Se guardo la mia mente, si modifica e si oscura; colui che mi risponde non è più quello che volevo interrogare. Quando entro dentro me stesso, non sono più solo; e quindi non sono più me stesso; siamo in due; è la mia coscienza veduta in uno specchio che la riflette invertita e nell’atto di trasformarsi o di nascondersi, c’è in me l’atteggiamento del delinquente che parla con il giudice.
Se io guardo la mente degli altri, debbo contentarmi degli aspetti esteriori, e perciò cerco di coglierli quando non si sanno osservati. Quello che vedo e ascolto ordinariamente soltanto ciò che lasciano o vogliono rivelare. Ed essi guardano ed ascoltano me, che non voglio rivelare tutto quello che sono. Ogni dialogo tra uomini è un colloquio tra bugiardi. Anche io sono un altro per me stesso. Sono lo spettatore di quello che accade in me. Ed un testimonio recalcitrante. Qualche volta un bugiardo.
Che cos’è la coscienza? Ha per base il corpo e per cima una visione panoramica del mondo che traduce in un linguaggio parlato soltanto con se stessa. Non assiste impassibile. Constata ma anche giudica. Essa provvede ad un cibernetico ordine di reazione e correzione degli stimoli che le vengono di fuori. È libera in certi rari momenti di esaltazione, ma la massima parte delle coscienze comuni appare svolgersi in un seguito di passività e di meccanicità. Il mondo dei simili di corpo l’intimida o la spinge. Coloro che ne son liberi sono pochi ed in pochi momenti della loro vita creativa o attiva. La coscienza è lo spettacolo di ciò che avviene in noi, cioè del prevaler di un istinto, di una accettazione, di un’ispirazione. Come accade agli eroi e ai delinquenti, ai peccatori ed ai santi, ci vediamo in preda alle forze che ci conducono ad operare. Le menti prendono un avvio e le volontà si decidono nel segreto della coscienza. Queste forze sono sconosciute come l’elettricità è sconosciuta nella sua essenza ai fisici e l’energia della vita ai fisiologi. Che cosa c’era in Napoleone quando vinse e quando perse? Non lo sapeva nemmeno lui. Gli storici ce lo raccontano dal di fuori, egli ne fu il primo spettatore: nulla di più.
Soltanto ciò che scaturisce nel mio spirito dal profondo e appare immediatamente è genuino. Questo mondo che il mio corpo mi costruisce col filtro delle sensazioni, che io non posso modificare in se stesse, e che viene organizzato dalla mia mente, la quale pure non posso trasformare nella sua essenza che mi fu data con i suoi limiti ed entro le sue esigenze, È IL SOLO MONDO CHE IO CONOSCO E POSSEGGO.
In questo mondo personale risiede la sola certezza che abbia: chi vede giallo il verde, chi si sente male entrando in una stanza, chi ha antipatia per una persona, e chi prova fiducia per quella stessa persona potranno correggere le loro impressioni; ma non potranno di nulla esser più certi che di quello che hanno SENTITO interiormente, come risposta di tutto il loro essere, anche se poi la ragione o l’esperienza loro e di altri diranno che si sono sbagliati. Non si saranno mai sbagliati in quello che la loro coscienza ha testimoniato. Si saranno sbagliati nella interpretazione, nella spiegazione, ma non nel fatto fondamentale, che continuerà ad aver per loro una importanza fondamentale.
Ecco anche la forza di quello che chiamiamo "errore", che è poi una verità parziale o momentanea, un gradino della verità (o dell’errore) seguente. Per sostituirlo si deve, fra l’altro, rendersi conto dell’errore e delle sue cause; ossia non si corregge un errore se non innalzandolo al grado di verità. Nulla si fonda sul nulla. E tutto quello che si fonda ha una base.
Raccolto intorno al mio io gira tutto il mondo. Non c’è altro pernio, non ha altro di solido. Qualunque dottrina o cognizione che mi venga insegnata, rimane verbale se non si è fusa con il mio io, se non si è fatta mia verità. Tutto riceve un colorito personale dal mio io, e l’esperienze degli altri non possono penetrarlo: tutto quello che fu scritto sull’amore non è nulla in paragone del nostro "innamorarsi". Il fatto che adoperiamo le parole degli altri per esprimer questo mondo nostro, non significa nulla altro che ci accontentiamo di un mezzo di comunicazione che sappiamo imperfetto. Soltanto l’immediato, il genuino conta nella vita. Tutto può esser migliorato dall’arte, dalla istruzione e dalla esperienza; ma la creazione è sempre un atto interiore fondamentale senza il quale arte, istruzione ed esperienza d’altri non contano nulla; essa si trova alla base.
Ci son così in noi due mondi: quello che abbiamo fatto noi, o trovato dentro fatto, e che noi abbiamo assistito nella sua rivelazione; e il mondo che abbiamo imparato da altri, parlando o leggendo (che è il modo di parlare con persone lontane nel tempo o nello spazio che anche loro l’hanno ricevuto; oppure lo ripetono da chi l’ha ricevuto).
Ora, questo mio io, col suo vasto panorama del mondo, che sempre si muta, è esso stesso in continuo mutamento INEVITABILE. Il tempo non è soltanto la misura del passato e l’ordine degli eventi, e l’attesa di quelli a venire ma è una NECESSITÀ, una DOMANDA persistente alla quale dobbiamo rispondere. Il futuro non è soltanto previsione e speranza; ma è una SCADENZA. Ad ogni momento esso aspetta la nostra risposta e vuol esser vissuto; e noi non possiamo far a meno di darla, anche se ci fosse possibile di fermarci, e, immobili e muti come una statua, cercassimo di fermare il nostro pensiero in un assorbimento che lo annullasse completamente: anche questo atteggiamento non servirebbe a nulla, perché sarebbe una RISPOSTA AL FUTURO. Accettare ciò che sta per venire è già una decisione, è sempre un’azione; e, come sappiamo, talora formidabile e impegnativa quanto i movimenti più decisi e le rivoluzioni più turbatrici.»
Per Prezzolini, dunque, il fatto dell’autocoscienza non esprime alcuna verità evidente di per se stessa, tranne il fatto del "sentire" che qualcosa accade in noi, allorché ci troviamo in presenza di certi enti o di certe situazioni.
In particolare, non è vero che noi siamo gli autori delle nostre decisioni e delle nostre scelte, perché ogni volta che assumiamo una decisione e operiamo una scelta, in noi vi è perlomeno uno sdoppiamento fra colui che interroga e colui che risponde; di fatto, la nostra coscienza altro non è che una specie di palcoscenico, sul quale avviene lo spettacolo dei nostri pensieri e dei nostri atti, che, alla loro radice, sono misteriosi a noi stessi. Quanto alla coscienza, essa è il testimone dei fatti che le accadono intorno, e null’altro: non è propriamente lei a viverli, ma è come se li vivesse qualcun altro. Noi, insomma, siamo misteriosi a noi stessi quanto l’anima di Napoleone è misteriosa per gli storici che tentano di indagarla, ma sono in realtà costretti a fermarsi alla constatazione dei suoi atti esteriori. Nessuno saprà mai veramente perché Napoleone ha preso certe decisioni; e, soprattutto, nessuno saprà mai che cosa ne pensava lui, che cosa "sentiva" in cuor suo. Noi siamo un mistero per quel che ci riguarda: nell’attimo in cui cerchiamo di afferrarlo, esso ci è già sfuggito, perché colui che ci troviamo davanti, dopo aver preso la decisione d’interrogarlo, non è più quello, ma un altro: noi mutiamo incessantemente, secondo gli stati della nostra coscienza. Non abbiamo un forma definita: siamo come un tessuto che assume qualsiasi forma, o come un liquido che si dispone secondo la forma del recipiente.
Quello di Prezzolini è, pertanto, un vitalismo assoluto: ogni cosa è in continuo fluire, sia dentro che fuori di noi; un vitalismo anteriore a qualsiasi atto determinato della coscienza, perché, perfino nel momento in cui volessimo assumere la decisione di lasciar andare la nostra coscienza vigile, per immergerci nel flusso immediato delle sensazioni (un po’ come Vitangelo Moscarda alla fine del romanzo di Pirandello «Uno, nessuno e centomila»), ebbene, perfino allora non saremmo veramente noi stessi, ma colui che prende una decisione, quella di accettare il futuro; e chi prende una decisione è qualcuno, o qualcosa, che si concentra in un atto determinato, e dunque, per definizione, non è affatto coscienza immediata, ma coscienza che si distacca da sé e si pone di fronte a una parte di sé, come il soggetto di fronte al proprio oggetto. E ciò vale anche come critica alla "saggezza" di Zarathustra e alla dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno dell’uguale.
Prezzolini, dunque, con Berkeley, nega che noi possiamo conoscere qualcosa che non sia l’espressione del nostro percepire, anzi, nega che esista qualcosa all’infuori di questo; però non accoglie la "pars costruens" della dottrina berkeleiana, perché non ne deduce che deve esistere una Mente Infinta che pensa le menti finite, ma rimane bloccato e, si direbbe, appeso, alla fase negativa, per cui nessun "io" sembra capace di muovere il più piccolo passo verso il "tu", anzi, a ben guardare, neppure verso l’effettiva presa di coscienza di sé.
Inoltre, a differenza di Berkeley, che rifiuta l’esistenza d un mondo "oggettivo" posto al di fuori di noi, o meglio, che rifiuta l’esistenza di un mondo oggettivo di natura fisica (perché non rifiuta affatto, al contrario, un Dio che suscita in noi le percezioni di quel mondo "fisico", o che è tale all’apparenza), Prezzolini ammette l’esistenza di un "secondo mondo" oltre al nostro, ossia un mondo di cui abbiamo appreso l’esistenza da altri, oppure leggendo; ma qui, a nostro giudizio, si contraddice, perché anche questo "secondo mondo" noi non lo riceviamo affatto bell’e pronto, ma lo filtriamo pur sempre attraverso la nostra coscienza, proprio come l’altro, che chiamiamo "nostro", perché formato da noi, oppure perché, pur avendolo trovato già fatto, abbiamo assistito alla sua rivelazione.
Evidentemente, egli si sforza di salvare una certa quota di "realismo", per non cadere nel baratro del solipsismo totale: vuol credere che questa sedia, che ho qui, davanti a me, esista indipendentemente da me, perché non sono stato io a crearla, ma l’ho trovata, e non posso farci nulla, essa è lì e lì rimarrebbe, anche se io non la volessi. Eppure, se la "sedia" è davvero un oggetto esterno, come avviene che essa entri nel campo della mia coscienza, se non per mezzo di una percezione da parte mia? Per il cieco, ad esempio, la sedia non esiste, finché non va a sbatterci contro. E, se pure vi sbatte contro, quel che avviene non è l’incontro con una realtà oggettiva, ma con una realtà pur sempre soggettiva, che verrà percepita secondo la coscienza di quel tale soggetto. Nessuno percepisce le cose alla stessa maniera, perché le cose ci sono misteriose, proprio come è misteriosa, a noi stessi, la realtà della nostra coscienza.
Comunque, a parte l’influenza di Bergson (e di Sorel), Prezzolini non è un vero filosofo, né pretende di porsi tali interrogativi in senso strettamente filosofico: il suo problema fondamentale è il problema della verità, ed egli se lo pone prima di tutto in quanto giornalista, e giornalista di lusso. Se noi non siano certi di nulla, tranne dei nostri stati elementari di coscienza, come possiamo pretendere di conoscere la verità delle cose, e, per giunta, di raccontarla agli altri? Perché la verità — e qui è Platone che insegna — è sempre, e non può essere nient’altro, che la verità del tutto, non mai di una singola parte.
Non per nulla Prezzolini, in una lettera apparsa sul numero 28 de «La rivoluzione liberale», del 28 settembre 1922 (si noti la data: siamo all’epoca della "marcia su Roma"), auspicava la formazione di una "società degli apoti", ossia di tutti coloro i quali, insoddisfatti della politica attuale, intendevano porsi idealmente al di sopra delle fazioni e delle verità partigiane, in nome di una verità disinteressata, così da poter trasmettere alle generazioni future un patrimonio ideale ancora integro, sulla base del quale costruire, o ricostruire, la società italiana.
Ma come arrivare ad una verità disinteressata, cioè a una verità totale, integra, completa, se quel che sappiamo, lo sappiamo dalla nostra coscienza, che è soggetta ad un continuo mutamento? Ed ecco affacciarsi, dubbiosa, quasi timorosa, l’ipotesi "Dio"; di un Dio, certo, percepito come un "rischio", sia per la ragione che per le conseguenze pratiche e morali dell’assenso. L’ateo Prezzolini, attratto e respinto dal rischio di Dio, non ha mai osato varcare quella soglia: e tuttavia si è posto il problema…
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione