
Detrattori e sostenitori della teoria di Wegener: per un senso del limite nella ricerca scientifica
28 Luglio 2015
L’enigma Canaris
28 Luglio 2015Parlando con un parroco ultranovantenne, una persona straordinariamente lucida, intelligente e colta, un vero signore d’un tempo, nel senso migliore del termine, e inoltre una persona mite, sensibile, naturalmente benevola verso tutti, gli abbiamo domandato come mai un numero sempre crescente di preti, oggi, inseguano affannosamente le novità del "secolo", si mostrino smaniosi di novità e di cambiamenti, insofferenti verso la Tradizione, puntigliosi come protestanti nello studio delle Scritture, incuranti di dare scandalo, nei loro discorsi e perfino nelle loro prediche, a quei credenti di animo semplice, ma di grande fede, che vedono messi in dubbio e, talvolta, addirittura ridicolizzati, valori e convinzioni che, una volta, la Chiesa insegnava come fondamentali e che ora, chi sa perché, improvvisamente paiono passati di moda, come se fosse impossibile dirsi cristiani senza far proprio il punto di vista della modernità: razionalista, scientista, progressista ad ogni costo, anche a dispetto del buon senso e del buon gusto.
Don Nilo, così si chiama quel buon vecchio parroco, nello studio della sua canonica, letteralmente zeppo di libri e manoscritti, in cima alla collina su cui sorge, appollaiato, il piccolo paese che sembra un’isola felice nel mare della bruttezza e della volgarità ovunque dilaganti, ci guardò un attimo negli occhi, come seguendo un proprio pensiero; e poi disse piano, ma con estrema decisione, come cosa del tutto evidente: «Perché hanno perso la fede».
Ecco: hanno perso la fede, e non lo sanno; accecati dal proprio orgoglio intellettuale, fieri delle proprie letture, più o meno dotte, più o meno ben digerite, gonfi di superbia e convinti che la Chiesa abbia quanto mai bisogno del loro intervento per essere scrollata, risvegliata, migliorata, a furia di scossoni, convinti di essere indispensabili per il rinnovamento ecumenico del cristianesimo e perché il Vangelo sia riportato alla purezza delle sue origini, si sono fatti seguaci di un nuovo culto e di un nuovo idolo, quello del Progresso con la "p" maiuscola; e guardano con diffidenza, disprezzo, ostilità, chiunque osi attraversar loro la strada, vale a dire tutti quei cristiani , i quali, al contrario di essi, non intendono affatto gettare alle ortiche duemila anni di Tradizione, che considerano, al pari delle Scritture, come il pilastro della Rivelazione. Quelli che pensano che, se nelle Scritture non si parla del culto dei Santi, o della Madonna, non per questo ci si deve vergognare di tali culti, come fanno tanti preti "progressisti" e "modernisti", i quali non esitano a sminuire e anche deridere ciò che era buono e santo per la fede di tante anime pure e buone fino a ieri, e che tale è stato considerato per secoli e secoli, secondo l’insegnamento della sacra Tradizione, a cominciare dagli scritti, divinamente ispirati, dei Padri della Chiesa.
Hanno perso la fede, ma non se ne sono accorti: gli altri lo vedono, lo sentono, lo percepiscono immediatamente e infallibilmente, perché dai loro discorsi, dai loro atteggiamenti, non traspaiono né l’umiltà, né la mansuetudine, né il senso della spiritualità, del mistero, del soprannaturale; si riempiono la bocca con gran discorsi sulla giustizia sociale, sostengono che Gesù Cristo è stato un vero rivoluzionario, affermano che non bisogna attendersi il Regno di Dio nell’altra vita, ma che bisogna instaurarlo ora, adesso, subito; il che non è sbagliato, ma è una mezza verità, dunque una menzogna.
Di fatto, sono diventati dei seguaci dello gnosticismo, perché pensano che, per essere dei veri cristiani, bisogna aver letto tanti libri difficili, bisogna elevarsi al di sopra delle semplice fede delle persone comuni, sì da attingere alle verità che rimangono nascoste a tutti gli altri; e, inoltre, sono diventati seguaci del pelagianesimo, perché non pensano più alla fragilità dell’uomo, non parlano del peccato, non chiedono l’aiuto della Grazia: a sentir loro, l’uomo è già buono in se stesso, è perfetto, deve solo armarsi di tenacia e di coraggio, e così, senza tante storie, può già realizzare il Regno di Dio, il Paradiso in terra, il tempo della perfetta giustizia.
Di Dio, in realtà, non hanno bisogno: per questo è così raro sentirli parlare di Lui; e, se pure ne parlano, lo fanno mettendo sempre in primo piano l’uomo, cioè se stessi, anche nella relazione con Dio: loro, proprio loro, sono gli annunciatori del Vangelo, quasi che il Vangelo che annunciano fosse il loro, come se fosse opera loro, come se fosse parola pronunciata da loro, e non già parola di Dio.
Ci sembra più che mai opportuno rileggere quanto scriveva padre Giacinto M. Giuriato a commento dell’Esortazione al clero di Pio XII, nel suo libro «Menti nostrae…» (Roma, Edizioni paoline, 1955, pp. 116-120):
«La parola umiltà viene da due vocaboli latini: "humi alitus", che significano: nutrito o coricato per terra. È umile chi, conoscendo sinceramente il proprio nulla, sta prostrato davanti a Dio, che è tutto. S. Tommaso definisce l’umiltà: "Una virtù che porta la volontà ad un sincero abbassamento e disprezzo di sé, regolato dalle cognizioni con cui la persona si conosce per quello che è, e lo esprime negli atti esteriori" (2a 2ae, q. 161, a.6). Se l’umiltà dovesse limitarsi soltanto agli atti esterni e non si fondasse invece sulla sincera conoscenza e convinzione del proprio nulla, sarebbe superbia. Per evitare ogni interpretazione errata e ogni concetto meno esatto su una virtù così importante per la mia perfezione sacerdotale, devo studiare attentamente la vita di Gesù e di Maria. […]
La virtù dell’umiltà è una preziosa eredità tramandataci da Gesù. Prima di Lui gli uomini non la conoscevano che di nome: i diseredati della fortuna maledivamo la loro sorte e i grandi della terra si guardavano bene dall’abbassarsi fino a coloro che essi ritenevano inferiori a sé. Gesù fu il primo a conciliare insieme ciò che è grande con ciò che è umile: dal primo momento della Sua esistenza, infatti, fino alla morte di croce, presenta se stesso come perfetto modello di umiltà ed invita tutti a imparare da Lui a essere umili: "Discite a me, quia mitis sum et humilis corde" (Mt. X, 29). […] Gesù è umile quando opera miracoli: al lebbroso risanato e ai due ciechi guariti Egli ingiunge di non dir nulla con nessuno: "Vide, nemini dixeris; Videte, ne quis sciat" (Mt. VIII, 4; IX, 30). Neppure quando risuscita i morti vuole essere lodato: infatti, richiamata a vita la fanciulla morta, Gesù comanda di non far sapere nulla a nessuno: "Praecipit illis vehementer ut nemo id sciret" (Mc., V, 43). E se la gente, ammirata della sua potenza, vuole prenderlo per farlo re, Gesù fugge e si nasconde sul monte (Giov., VI, 15). Signore e Maestro, Egli lava i piedi ai suoi Apostoli (Giov., XII, 14) e comanda a questi di essere servitori di tutti se vorranno essere i più grandi davanti a Dio, come ha fatto il Figliuolo dell’Uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire (Mt., XX, 26-28), XXIII, 2). Tutta la vita di Gesù m’insegna che Egli non ha mai cercato la Sua gloria (Giov., VIII, 50).
Se dall’umanità di Gesù passo a considerare l’umanità di Maria, la lezione continua sulla stessa linea. Maria rimane umilissima dopo di aver udito le parole dell’Angelo: "Ave, gratia plena, Dominus tecum; benedicta tu in mulieribus" (Lc. I, 28); si turba anzi a questo elogio, proprio perché sente che la sua umiltà si allarma. Che cosa infatti aveva fatto per meritare un tale saluto, per sentirsi tributare un tale onore? Più Ella vi pensa e meno riesce a comprendere che si tratta di Lei. È solo la sua umiltà che le ispira quelle parole: "Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum". E posso star sicuro che Maria ha un concetto giusto dell’umiltà. Se medito infatti le parole del suo "Magnificat", mi accorgo che in esse c’è una bellissima e insuperabile lezione di vera umiltà. "Beatam me dicentomnes generationes". Tutte le generazioni mi chiameranno beata! Sembrano parole sature di superbia e non sono che un riconoscimento umile e sincero di quanto l’Altissimo ha operato in Lei.[…]
Senza umiltà io dunque non sono al mio posto e non posso di conseguenza trovarmi nella paxce. Ritenendomi qualche cosa io glorifico me stesso e glorificando me stesso io commetto un atto di falsità perché so bene che tutto mi ha dato Dio, un atto d’ingiustizia perché mi do una lode che è dovuta interamente al Creatore e non alla creatura, un atto d’ipocrisia perché mi faccio passare per migliore di quello che sono. Tutto questo è disordine e Dio non può sopportarlo, anzi lo detesta e quindi punisce giustamente questo superbo insolente, mentitore e ladro. Non mi colpisce con la Sua giustizia direttamente: si allontana solo da me: "Humilibus dat gratiam, superbis resistit". E di qui la caduta grave.»
A coloro che annunciano il Vangelo, dunque, si addice la virtù dell’umiltà, del farsi piccoli, del considerarsi semplici strumenti di un Disegno superiore, più che a chiunque altro: nulla stona e stride, come vedere un prete che, invece di farsi umile strumento del Vangelo, si arroga il diritto di annunciarlo quasi che fosse merito suo, quasi che lui avesse capito il modo giusto di farlo, mentre la Chiesa, per quasi duemila anni, non lo avrebbe compreso, o non avrebbe saputo farlo; nulla irrita e disgusta più di un sacerdote che, assumendo quasi l’aria di essere lui, e lui solo, o unicamente quelli che la pensano come lui, a detenere la chiave per la retta interpretazione della Buona Novella, cerca di piegare le parole eterne di essa per realizzare un fine umano, magari anche nobile in se stesso — instaurare la giustizia e la pace sulla terra -, ma, comunque, un fine puramente umano, in una prospettiva puramente umana, come se la Grazia fosse nulla, come se l’esempio dell’umiltà di Cristo fosse nulla, come se Dio fosse una variabile secondaria, o, tutt’al più, un benevolo testimone delle nostre imprese, delle nostre lotte, della nostra sete di giustizia, che sta a noi realizzare, e soltanto a noi, con le nostre sole forze.
Non entrano loro, potremmo dire parafrasando il Vangelo, e impediscono di entrare anche a quelli che lo vorrebbero: tali sono quei sacerdoti, i quali, senza rendersi conto di aver perso la fede, e di sentire, pensare, parlare ed agire come se il Vangelo fosse una dottrina puramente umana, e quasi una loro scoperta personale, e come se fosse merito loro se esso può dischiudere anche i cuori più induriti e le menti più superbe al mistero ineffabile, e soprannaturale, della Grazia divina, rappresentano in realtà un motivo di scandalo per il loro gregge, e specialmente per le anime buone e semplici, aliene da ogni malizia, che si fidano dei loro pastori e che, non sospettando in essi dei lupi travestiti da agnelli, temono di essersi smarrite al cospetto di Dio e vagano confuse, perdono la speranza e la carità, forse anche la stessa fede.
Non vi è cosa sulla quale insista maggiormente l’insegnamento di Gesù, così come ci viene riportato dai Vangeli e confermato dalla Tradizione, come il bisogno dell’umiltà, il dovere dell’umiltà, la virtù dell’umiltà, ossia la capacità di farsi piccoli davanti a Dio, quale condizione assolutamente necessaria per ricevere ed accogliere con lo spirito giusto la Rivelazione divina. Gesù dice e ripete continuamente che bisogna farsi piccoli e umili di cuore, per essere degni della Grazia; che bisogna diventare simili ai fanciulli, per entrare nel regno dei Cieli; e rende lode al Padre, esultando, perché ha nascosto la Verità divina ai superbi e ai sapienti, mentre a Lui è piaciuto di rivelarla ai piccoli. Non si tratta, quindi, di un dettaglio, di una cosa secondaria: questo è il cuore del Vangelo. Da tutto il Discorso della Montagna, che è il nucleo vivo e fondamentale dell’insegnamento cristiano, traspare la priorità assoluta del farsi piccoli e umili di cuore davanti a Dio, per poter essere degni della Sua grazia.
Perciò, delle due, l’una: o questi preti "progressisti" e superbi hanno scoperto qualcosa di più e di meglio del Vangelo di Gesù: ed in tal caso, onestamente e lealmente, dovrebbero spretarsi e abbracciare la loro nuova fede, e proclamare la loro nuova verità, proclamando a voce alta che la Chiesa ha sbagliato tutto e che sta tradendo l’umanità; oppure essi, credendo di essere nel giusto, si sono posti, in realtà, fuori del Vangelo, fuori della Verità, fuori della Chiesa, e in tal caso dovrebbe essere la cristianità a scacciarli lontano da sé, come indegni ministri e come lupi travestiti da agnelli, che intossicano e minacciano il gregge loro affidato, seminando scandalo e zizzania a piene mani. «Tertium non datur».
A maggior ragione sono indegni di rivestire l’abito sacerdotale quei preti che benedicono le unioni omosessuali, che predicano a favore dell’aborto e dell’eutanasia, che si mettono a cantare e a ballare in chiesa, che criticano incessantemente il santo Magistero, per strappare una facile popolarità e per attirare l’attenzione del pubblico, forse dei mezzi di comunicazione di massa. Hanno perso la fede, ma non hanno il coraggio di ammetterlo e di trarne le necessarie conclusioni. Vorrebbero rimanere nella Chiesa, piuttosto, e scacciarne gli altri: quelli che non la pensano come loro. Davanti a tanta sfrontatezza, a tanta arroganza, a tanta protervia, è forse eccessivo parlare d’una presenza diabolica?
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