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28 Luglio 2015Galilei, padre nobile della scienza sperimentale, non si abbassava a fare gli esperimenti

Ci hanno sempre insegnato, fin dai banchi di scuola, che la grandezza di Galilei, più ancora che nelle sue scoperte di scienziato – peraltro assai esagerate, e presentate in maniera tale da minimizzare o addirittura tacere i suoi molti, clamorosi errori – consiste nell’aver chiaramente formulato il principio fondamentale su cui si regge tutto l’edificio della scienza moderna (che da lui, appunto, riceve il nome di scienza galileiana): e cioè che lo scienziato deve procedere, nell’indagine dei fenomeni naturali, per la via degli esperimenti; i quali devono essere effettuati con strumenti di assoluta precisione, in condizioni di assoluta verificabilità, e, inoltre, che tutti gli esperimenti devono essere ripetuti, in condizioni identiche, più e più volte, senza di che non è possibile trarne delle conclusioni valide di carattere generale, e tanto meno formulare delle leggi.
Inoltre, ci viene insegnato, e debitamente illustrato per mezzo di aneddoti e pie leggende, che codesti esperimenti, Galilei li faceva; che li faceva esattamente così come aveva affermato che debbono essere fatti: ripetendoli più volte, servendosi di strumenti il più possibile precisi e in maniera tale che chiunque, osservandoli o replicandoli per conto proprio, potesse giungere ai medesimi risultati; e tutto questo, infine, viene messo a confronto con il metodo degli scienziati "aristotelici": gente stupida e ignorante, ottusa e retriva, che sapeva solamente ripetere le formule del venerato maestro greco, ma che aveva una autentica allergia per le novità ed alquanto restia a sottoporsi alla severa disciplina dell’esperimento, illudendosi che, per fare ricerca scientifica, fosse sufficiente studiare sui libri e affidarsi al principio di autorità.
Ma le cose stanno proprio così, come ci sono state dette e ripetute?
Scrive Federico Di Trocchio nel suo saggio «Le bugie della scienza. Perché e come gli scienziati imbrogliano» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, pp. 12-20):
«Quegli esperimenti fondamentali con i quali Galileo chiuse la bocca agli scienziati aristotelici, e che a scuola ci hanno indicato come le più perfette esemplificazioni del metodo sperimentale, non sono mai stati fatti. Come se non bastasse, con un’arroganza paragonabile a quella di chi lo voleva tacitare a suon di processi, Galileo sosteneva che non era neppure importante farli veramente. Uno degli esperimenti che lo stesso Galilei ammette esplicitamente di non aver fatto è quello della nave, che sta a fondamento del cosiddetto principio di relatività galileiana secondo il quale i fenomeni fisici avvengono nello stesso modo sia che si svolgano sulla terraferma che su una nave in movimento, a condizione che la nave si muova di moto rettilineo uniforme. […] Ora Galilei di fatto non aveva mai realizzato quell’esperimento, ma quel che è peggio ribatte con arroganza al suo interlocutore [Simplicio, nel "Dialogo sopra i due massimi sistemi"] che non se ne mostrava convinto: "Io senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico perché così è necessario che segua". Come dire: "È inutile fare l’esperimento, se ve lo dico io dovete credermi". E’ evidente che questo modo di procedere non corrisponde affatto all’idea di metodo sperimentale che ci è stata insegnata fin dal liceo né tanto meno all’ideale di correttezza etica e metodologica dello scienziato. […]
Ma questo della nave non è né l’unico né il più importante degli esperimenti che Galilei non fece. Il più noto è quello del lancio delle sfere dall’alto della torre di Pisa e il più importante è quello del piano inclinato. Il primo, quello della torre, doveva confutare la teoria di Aristotele secondo la quale gli oggetti cadono con una velocità che è proporzionale al loro peso: Aristotele pensava insomma che due mattoni legati insieme cadono con una velocità doppia di un solo mattone. Secondo il racconto del suo allievo Vincenzo Viviani, Galileo, volendo dimostrare che on era affatto così, salì sulla torre di Pisa"cin l’intervento degli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca" e "con replicate esperienze" dimostrò che "la velocità dei mobili dell’istessa materia, disugualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione della gravità loro, assegnatagli da Aristotele, anzi che muovon tutti con pari velocità". I due mattoni legati insieme insomma arrivano a terra esattamente nello stesso istante in cui ci arriva il mattone solo. Nel 1935 L. Cooper scrisse un libro intitolato "Aristotle, Galileo, and the tower of Pisa" nel quale sosteneva che non esiste alcun’altra traccia o documento che testimoni che quest’esperienza sia stata effettivamente fatta e gli studiosi di storia della scienza sono inclini a ritenere che in realtà sia solo un’invenzione. [….]. Negli anni Sessanta George Gamow, uno dei padri della fisica contemporanea, continuava a sostenere che "per provare la veridicità delle sue conclusioni, Galileo fece cadere dalla torre pendente di Pisa due sfere, una di legno e una di ferro, e gli increduli spettatori presenti si poterono convincere che esse toccavano il suolo nello stesso istante. Le ricerche storiche tendono ad escludere che questa dimostrazione pubblica abbia mai avuto luogo e affermano che essa rappresenta solo una fantasiosa leggenda; e non è nemmeno certo che Galileo abbia scoperto a legge del pendolo mentre assisteva alla messa nel duomo di Pisa. Ma, in un modo o nell’altro, egli certamente eseguì queste esperienze, o facendo cadere oggetti di peso diverso dal tetto di casa sua o facendo oscillare, magari nel suo cortile, una pietra appesa a una corda." Gamow insomma sosteneva che prima o dopo, in un modo o nell’altro, Galileo deve aver fatto per forza quell’esperimento. Egli però non tiene minimamente conto del fatto che, anche se così fosse stato, il risultato sarebbe stato diverso da quello riferito nella leggenda. Nel 1978 infatti due studiosi, C. G. Adler e B. Coulter, si sono presi la briga di rifare l’esperimento e hanno scoperto che le due palle arrivano a terra con uno scarto di tempo non tanto ampio da soddisfare la teoria aristotelica ma abbastanza per confutare l’idea di Galileo della contemporaneità. Essi sostenevano anche che, in quelle condizioni sperimentali, sarebbe stato possibile per gli aristotelici modificare la teoria in modo da includere la spiegazione di quel risultato. Ben più compromettente è la vicenda del famoso esperimento con il piano inclinato, sulla base del quale Galileo formulò la legge del moto uniformemente accelerato s = ½ at ^2^ , la quale afferma che nel moto uniformemente accelerato gli spazi percorsi sono proporzionali ai quadrati dei tempi impiegati a percorrerli. […] Peccato che l’esperimento che Galileo sostiene di aver fatto "ben cento volte" non sia stato fatto nemmeno una volta e che le precise misurazioni fossero frutto della sua immaginazione. Un contemporaneo e corrispondente di Galilei, il padre Marino Mersenne, tentò infatti di ripetere l’esperimento e scoprì che in quelle condizioni era impossibile ottenere i risultati numerici riferiti da Galileo. I casi erano dunque due: o Galilei non aveva mai compiuto l’esperimento oppure non aveva riferito con esattezza i risultati trovati. Alexandre Koyré, uno dei più grandi storici della scienza, ha sostenuto la prima ipotesi, vale a dire che Galileo non ha mai fatto l’esperimento del piano inclinato. […] Naylor ha concluso che, come già suggeriva Koyré, Galileo nella maggior parte dei casi non seguiva affatto il metodo sperimentale del quale venne ritenuto il padre e che in particolare usava gli esperimenti non tanto per arrivare a individuare le leggi fisiche, quanto piuttosto per confermarle a posteriori, al che aggiungeva talora anche una ulteriore trasgressione allo sperimentalismo quando costringeva i dati numerici ottenuti in esperimenti veri o supposti ad adattarsi per forza alla legge che aveva in mente. Come ha sostenuto William R. Shea: "Questa è un’accusa molto seria perché presuppone che Galileo era non solo poco sincero nel proporre un metodo che poteva non conseguire i risultati aspettati, ma decisamente fraudolento nel sostenere di essere riuscito a produrre delle prove che erano al di fuori della sua portata. Se ci si chiede da che cosa nascessero queste mistificazioni di Galilei si scopre che esse non erano dovute soltanto a quella disinvoltura morale che gli ha rimproverato Paul Feyerabend ma anche alla necessità di sopperire in qualche modo alla mancanza di strumenti di misurazione e apparati sperimentali affidabili. Strumenti e apparati indispensabili per passare, secondo una felice espressione di Koyré, "dal mondo del pressappoco all’universo della precisione".»
Senza dubbio, quest’ultima osservazione del Di Trocchio è giusta; d’altra parte, essa ci rinvia al giudizio di Feyerabend, a quella "disinvoltura morale" che a Galilei non faceva certo difetto, e alla sua ben nota arroganza intellettuale. In altre parole: il mondo reale, il mondo della natura, è assai più complesso di come lo immaginava Galilei, convinto com’era che lo si potesse ridurre a un modello matematico, formato da un insieme di cerchi, triangoli e altre figure geometriche perfette; e che, pertanto, conoscendo tutti i dati di un certo fenomeno, se ne potessero calcolare, con assoluta precisione, anche gli effetti. Invece i calcoli precisi, se eseguiti accuratamente (cosa che Galilei, come si è visto, si guardava bene dal fare, convinto com’era, nella sua sconfinata superbia, che tanto essi gli avrebbero dato comunque ragione), davano dei valori diversi da quelli previsti da Galilei: da qui la "necessità" (si fa per dire) di falsificarli, in maniera da nascondere, agli occhi della comunità scientifica, quelle incongruenze che avrebbero potuto gettare un’ombra sull’insieme delle "leggi" da lui formulate.
Prendiamo, a titolo di esempio, il cosiddetto esperimento della caduta dei gravi di peso diverso: non è vero che essi raggiungano la stessa velocità, né che tocchino terra nello stesso istante, perché i più pesanti arrivano un attimo prima dei più leggeri. Oppure prendiamo il cosiddetto esperimento che portò Galilei a formulare la legge dell’isocronismo del pendolo: contrariamente a quanto egli afferma, due palle di peso diverso, che vengano fatte oscillare mediante delle corde di eguale lunghezza, non conservano eguale velocità di movimento, ma la più pesante guadagna velocità rispetto alla più leggera, dopo un certo numero di oscillazioni. Certo, si può ammettere che il ragionamento di Galilei, in linea teorica, era giusto: se i dati sperimentali non confermano al millimetro le sue previsioni, ciò si deve al fatto che la scienza del suo tempo non conosceva in maniera adeguata alcuni fatti collaterali (come l’intensità della resistenza dell’aria) che danno ragione di quelle discrepanze; ma appunto da ciò emerge in tutta la sua gravità la scorrettezza del modo di procedere di Galilei. Egli continuamente invocava, per zittire i suoi avversari "aristotelici", l’osservazione concreta dei fenomeni; ma poi tali osservazioni non le faceva, o — peggio – sosteneva, mentendo, di averle fatte; e non esitava a falsificare i dati, perché nessuno si accorgesse della loro difformità da quanto aveva predetto.
Se tutti gli scienziati agissero in questo modo, la scienza non progredirebbe affatto, perché il progresso della scienza si basa sulla possibilità che studiosi diversi, applicando una metodologia comune ed effettuando il medesimo esperimento, ciascuno per proprio conto, giungano, nondimeno, a registrare gli stessi risultati numerici. In altre parole: la scoperta di una inesattezza numerica, anche se piccola, è un elemento prezioso, perché può fornire la chiave per individuare nuovi aspetti del problema, che erano rimasti nell’ombra: si crea, in tal modo, un circuito virtuoso, in cui ogni nuova scoperta di un dato difforme rispetto alle previsioni, consente di ripensare l’insieme di quel certo fenomeno, individuando altri fenomeni ancora ignoti e arricchendo, così, l’insieme delle conoscenze, e rendendo possibili sempre nuove ipotesi e sempre nuovi progressi. Ma se alcuni scienziati, per non ammettere delle discrepanze numeriche, falsificano o nascondono i dati rilevati nel corso dei loro esperimenti, tale circuito virtuoso si inceppa e il lavoro della comunità scientifica si attarda intorno a questioni mal poste o superate, venendo a capovolgere la propria ragion d’essere: invece di interrogare i fatti per far progredire la conoscenza, si fa in modo che i fatti diventino elementi di supporto delle teorie che dovrebbero spiegarli. Si tratta di una totale distorsione, o meglio, di una radicale inversione di ciò che la scienza dovrebbe essere: trasportato nel mondo della politica, questo modo di procedere, tradotto in un principio teorico, suonerebbe così: lo scopo della politica non è quello di ben governare, ma di produrre degli uomini politici i quali, con il pretesto di ben governare, occupino delle posizioni e intraprendano delle carriere che sono fine a se stesse, cioè che hanno il solo ed unico scopo di dare spazio, visibilità e potere agli uomini politici.
Si potrebbe obiettare che l’intento di Galilei era, comunque, lodevole, anche se non sempre i suoi metodi erano corretti, perché, in ultima analisi, quello che egli perseguiva era il trionfo della verità. Ma la "verità" non è quella che un singolo scienziato, per quanto geniale, ha deciso che sia: gli scienziati possono essere audaci quanto alle teorie, ma dovrebbero essere sempre umili quanto alle loro concrete ricerche, perché solo dalla loro umiltà intellettuale può emergere la verità o l’errore delle teorie da essi formulate. Galilei, in particolare, aveva un concetto troppo "forte" dell’idea di verità: deformazione mentale che gli derivava dalla pretesa, costantemente ribadita, e posta a fondamento di tutto il suo pensiero e di tutto il suo lavoro, di poter matematizzare la natura. La natura, per lui, è un libro scritto in caratteri matematici; e chi si impadronisce di quel linguaggio, può conoscerla con lo stesso grado di certezza di Domineddio. Ma le cose, nel mondo reale, stanno altrimenti. Nel mondo reale, non esistono perfette figure geometriche, né quantità numeriche "pure" (o, si direbbe oggi, non esistono solo le equazioni lineari): lo ha dimostrato, in maniera definitiva, la scoperta del cosiddetto principio della farfalla, formulato da Edward Lorenz nel 1961. Tradotto in termini semplicissimi, si tratta del fatto che, nello studio dei fenomeni naturali, anche una differenza numericamente piccolissima, quasi insignificante, nell’inserimento dei dati, diventa, alla lunga, colossale: tale, cioè, da sovvertire completamente ogni previsione. Parliamo di decimali, non di numeri interi. Se ne deduce che il battito delle ali di una farfalla, in Brasile, può scatenare una vera e propria tempesta nell’America Settentrionale.
Il mondo reale, ripetiamo, è più complesso di come lo immaginava Galilei: e stiamo parlando solo dei fenomeni strettamente fisici, e misurabili in termini matematici: chissà cosa avrebbe detto il nostro davanti ai fenomeni di natura non fisica, e, in particolare, davanti ai fenomeni del soprannaturale. Probabilmente avrebbe invocato la dottrina della doppia verità, giusto per cavarsi d’impaccio. Ma la realtà è che la sua "forma mentis", per quanto acuta, era, nello stesso tempo, terribilmente limitata: del reale, egli vedeva solo quel che aveva "deciso" di vedere, quel che era compatibile con la sua idea di ciò che esiste e di ciò che non può esistere. E questo è un atteggiamento mentale completamente sbagliato per un vero scienziato, e assolutamente deleterio per un filosofo: dal che si vede quanto siano lontani dal vero gli ammiratori fanatici di Galilei, i quali vorrebbero fare, del loro eroe, non solo un grandissimo scienziato (e un grandissimo scrittore), ma anche un grandissimo filosofo.
Ma tant’è: per i suoi devoti fedeli, Galilei non sbaglia mai: neanche quando l’errore è evidente, come nel caso della polemica sulle comete, che lo oppose ad Orazio Grassi; dal loro maestro hanno appreso l’arte di sostenere che la verità è sempre e solo ciò che dicono loro (o che aveva detto lui), e null’altro.
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