
Tra i muri del paese abbandonato indugia la memoria d’una donna buona
28 Luglio 2015
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28 Luglio 2015Si fa presto a dire: gran cosa, imparare ad essere umili; senza dubbio si tratta di una virtù fondamentale — anche se assai negletta ai nostri giorni -, ma ci sé mai domandati fin dove possa giungere, fino a che punto sia giusto farsi piccoli per valorizzare gli altri?
Se lo è chiesto, fra tanti e tanti altri, una novizia che vuol diventare suora per andare nel Congo Belga a curare i malati, protagonista del romanzo della scrittrice americana Kathryn Hulme «Storia di una suora» («The nun’s Story», 1958); romanzo che, a sua volta, ha ispirato un celebre film del 1959, girato da Fred Zinnemann e interpretato da una indimenticabile Audrey Hepburn. Il libro è, peraltro, ispirato ad una storia vera, quella della suora belga Marie Louise Habets, la quale, in seguito a una profonda crisi religiosa, aveva abbandonato il convento ed era poi divenuta la compagna di vita della stessa scrittrice americana.
Nel romanzo, comunque, non compaiono né il tema dell’attrazione erotica repressa fra la giovane e bella protagonista e l’affascinante dottore italiano Fortunati, che invece nel film ha un grande rilievo, né, tanto meno, quello dell’amore lesbico fra due suore, maturato all’ombra del chiostro conventuale (tema che, oggi, è venuto sin troppo di moda, in particolare da quando è apparso in libreria, a metà degli anni ’80 del secolo scorso, il volume-inchiesta di Nancy Manhan e Rosemary Curb, «Dentro il convento. 50 monache confessano la loro sessualità», il cui scopo è ottenere un impossibile "riconoscimento" del lesbismo fra le suore, da parte della opinione pubblica, anche di quella cattolica, e forse, in prospettiva, da parte della Chiesa stessa).
Nel romanzo, mentre la novizia, suor Luke, sta frequentando un corso di medicina sulle malattie tropicali, in vista della partenza per le missioni africane, si accorge di aver attirato una forte antipatia da parte di suor Pauline, una suora che ha già una ricca esperienza di vita alla missione, ma che ha bisogno del diploma d’infermiera per potervi fare ritorno, ed è assai preoccupata di non riuscire a superare l’esame. Suor Luke, invece — che, tra l’altro, è figlia di un medico — si dimostra un’ottima studentessa ed è certa di poter sostenere l’esame con successo. Ad ogni modo, un giorno ella si rivolge alla superiora per chiederle un consiglio su come addolcire la segreta rivalità con suor Pauline, e la proposta che le viene fatta è quella di sacrificare il proprio orgoglio e di fallire volontariamente la prova degli esami, sia per restituire, così, fiducia in se stessa alla compagna, sia, soprattutto, per mettere alla prova la sua capacità di farsi umile, rinunciando alla vanità di vedersi riconosciuti i suoi meriti e di soffrire in silenzio, avendo Dio solo quale testimonio del proprio silenzioso sacrificio.
Da sempre, nell’ottica dei mistici e degli ordini religiosi, specialmente quelli contemplativi, l’auto-mortificazione è vista come la vittoria su ciò che tiene l’anima lontana da Dio, impedendole di farsi docile strumento della Sua volontà e del Suo amore. E, se l’auto-mortificazione comporta l’essere disprezzati dal mondo, ciò rende ancora più grande il valore del sacrificio, e più completa la fusione con Dio: solo abbandonando l’uomo vecchio e facendolo morire sulla croce del sacrificio, si può rinascere alla vita sotto le spoglie dell’uomo rinnovato dallo Spirito. E, se ciò sembrasse troppo "religioso", troppo permeato di morale e di spiritualità monastica, si pensi a come Lancillotto, nel romanzo di Chrétien de Troyes, esiti solo un attimo prima di salire sulla carretta dei condannati al patibolo, per amore di Ginevra; e come quell’istintivo, minimo residuo di orgoglio personale, peraltro subito domato, gli venga poi duramente rinfacciato dalla regina come un segno del suo amore imperfetto, poiché egli ebbe vergogna di affrontare, per lei, quel disonore.
Suor Luke rimane sconvolta dalla richiesta della superiora: tutto in lei si ribella, anche se si rende conto che, in un certo senso, la superiora ha colpito nel segno, cioè ha visto esattamente quale sia lo scoglio principale che le impedisce di essere, e di sentirsi, in tutto e per tutto una buona suora: la consapevolezza del suo valore e dei suoi meriti; in una sola parola, quello che agli occhi di Dio, ma non del mondo, altro non è che un residuo di orgoglio, e dunque di attaccamento alla vita nel secolo, nel quale conta moltissimo quel che gli altri pensano di noi. Si apre, dunque, nell’animo della giovane donna, una lotta tormentosa, un conflitto devastante, che la spinge a interrogarsi su quale sia la reale volontà di Dio, su che cosa sia la vera umiltà e quali sacrifici essa comporti, e se giungerà mai ad essere, veramente, una buona suora, capace di affidarsi completamente alla volontà di Dio e all’obbedienza verso i superiori.
Vale la pena, a nostro avviso, di rileggersi quella pagina, che offre una miniera di riflessioni sulla natura, sui limiti e sulle impreviste ambiguità dell’essere umili, non solo per quanto riguarda un religioso o una religiosa, ma per qualsiasi essere umano (da: K. Hulme, «Storia di una suora»; titolo originale: «The Nun’s Story», Pocket Books, 1958; traduzione dall’inglese di Mario Merlini, Milano, Garzanti, 1964, pp. 86-87):
«Suor Luke aveva un’altra domanda da fare. Era una domanda che avrebbe fatto per tutto il resto della sua vita di religiosa, in qualsiasi luogo, in qualsiasi circostanza e sempre inginocchiata.
"Come posso sapere che Dio vuole questo da me?"
Vada e Glielo domandi", disse la superiora.
Suor Luke chinò la testa per ricevere la benedizione. Tutte le lotte attraverso le quali era passata non erano che un semplice preludio a ciò che l’attendeva ancora. Andò immediatamente nella cappella e si nascose il viso fra le mani.
Tentò di esaminare il sacrificio che le era stato suggerito da chi molto probabilmente era uno strumento scelto da Dio. Vide se stessa in piedi davanti al dottor Goovaerts e gli altri esaminatori, a dar risposte sbagliate, mentre le sue colleghe la guardavano incredule e disgustate. Vide se stessa guardare in un microscopio il verme filiforme della "Loa loa" e scrivere invece "Wuchereria bancrofti" sul foglietto bianco attaccato al vetrino. Nel campo dell’obiettivo appariva chiaramente il viso di suo padre, sorpreso, scandalizzato, vergognoso dell’insuccesso della figlia.
"O Signore", bisbigliò, "sarebbe uno sciupare tutti questi mesi del Tuo tempo"." Ma una voce le diceva che Egli sarebbe stato felice di questo, se fosse stato fatto in umiltà, per Lui. Sapeva che su questo non c’era dubbio. Sapeva anche che stava soppesando un’occasione che non si sarebbe ripresentata mai più. Dal Suo tempo eterno, rammentò a se stessa, Dio sceglie il Suo tempo per offrire l’alleanza più peretta con ogni anima individuale. E questo è il momento, pensò. Io posso prenderlo o lasciarlo. Se lo prendo, Egli può non farmi nessun segno. D’altra parte, Egli lo può far cadere su di me una pioggia di grazie e portarmi vicina alla santità. Se non lo prendo…"
"Questo non posso farlo, Signore."
Poi vide lo specchio che la superiora le teneva davanti, il terribile specchio intimo del mondo conventuale dove non esistono specchi materiali, vide i legami che la avvincevano all’io dell’orgoglio, dai quali aveva fantasticato di essersi staccata. Non erano legami di seta. Erano grossi come gomene e si dipartivano da lei come liane della giungla risalendo sino ai tempi lontani dell’infanzia, quando l’orgoglio di famiglia era condensato nell’espressione "la famille du docteur", che distingueva socialmente Gabrielle dai ragazzi e dalle ragazze figli dei semplici commercianti. Seguì ciascuno dei lunghi tralci sino all’estremo e scorse cose dell’età più matura ancora vive in lei: il suo orgoglio intellettuale, l’orgoglio per la sua capacità di giudizio, l’orgoglio per la sua abilità di compiere tutto ciò che si proponeva di fare."E ora devo fare questo per Te, Signore? Tu me lo chiedi veramente?" Sentì il sapore delle lagrime cadute sulle mani e attese.
La cappella era un abisso di silenzio. Cristo non le avrebbe parlato, lo sapeva, ma forse l’avrebbe ispirata. Se voleva, Egli poteva rispondere attraverso la coscienza di lei. Ma anche allora, pensò, non si poteva mai sapere con certezza se fosse l’immaginazione o il desiderio travestito, o la Sua ispirazione. Soltanto le grandi anime pure possono essere certe. "Io non avrei mai dovuto tentare di diventar suora. Il cammino è troppo erto per le mie forze…"
Con quello delle lagrime sentì il sapore della esperienza della suora: il silenzio profondo fra Cristo e l’anima afflitta. Attese, ma la coscienza non le diceva nulla. Era greve e muta dentro di lei, un organo colpito da un trauma.
Nella sua memoria parlò la maestra delle novizie: "Voi avete un solo scopo, una sola mira, un unico desiderio nella vita religiosa", diceva, "ed è di piacere a Dio. Nessuna altra cosa ha importanza. Nessun’altra cosa assolutamente. Abbiamo parlato spesso dei gigli del campo che Dio ha creato unicamente per il proprio piacere. Questo vi sia di esempio. Anche se lavorate in una cucina, in un’aula scolastica, o in un ospedale e fate molte buone opere in Suo nome, Egli si compiace soltanto del modo in cui voi crescete nel vostro intimo. Questa è la ragione per cui Egli ci ha dato i gigli nei campi su cui meditare."»
Oggi che – come dicevamo – la virtù dell’umiltà non è solamente poco praticata, ma decisamente denigrata e apertamente disprezzata o derisa, quando non, semplicemente, ignorata, come cosa del tutto priva di senso, non vorremmo correre il rischio di ingenerare confusione, insinuando il dubbio che essere umili, in certe situazioni, può essere una forma deviata di virtù, un eccesso deformante, che potrebbe provocare più male che bene all’anima, imponendole un fardello insopportabile e facendo maturare, così, un segreto risentimento, caratteristica della coscienza infelice. Noi stessi abbiamo più volte sostenuto che, nel mondo odierno, vi è una grave penuria di umiltà; anzi, che il male supremo del mondo moderno è proprio l’ipertrofia dell’ego, che spinge le persone a coltivare in se stesse sentimenti di orgoglio e di superbia e ad assumere atteggiamenti di prevaricazione nei confronti degli altri.
Eppure, bisogna pur ammettere che l’umiltà deve avere dei limiti: non può spingersi fino al radicale ripudio dell’io, perché un io sano e giustamente benevolo e compassionevole verso se stesso è un elemento non di disturbo, ma, al contrario, di equilibrio, di serenità e di pace per la vita dell’anima. In altre parole, non si può combattere l’ipertrofia dell’ego decapitando la giusta e legittima coscienza che l’io ha di se stesso. L’io è, per ciascuno di noi, il supporto necessario per la vita interiore; la sua negazione totale non può diventare altro che una forma violenta e innaturale di repressione di una istanza legittima, quella di essere se stessi. In altre parole, così come non si cura il mal di testa ghigliottinando la gente, allo stesso modo, non si può e non si deve combattere la malattia dell’ego, l’ipertrofia, negando all’ego il diritto di esistere, ma riconducendolo entro limiti ragionevoli, e rimettendolo in sintonia con il vero punto focale della coscienza e di tutta la vita dell’anima: l’istanza superiore e luminosa, dalla quale provengono le ispirazioni di bene: istanza che i filosofi chiamano l’Essere, e i credenti chiamano Dio.
A questo punto possiamo tornare alla situazione di partenza: quella di una giovane suora che, per uccidere in sé il cattivo seme dell’orgoglio, si chiede — dietro suggerimento della superiora – se non debba fallire deliberatamente una meta da lei molto ambita e alla quale ha dedicato grandi sacrifici, l’esame di medicina tropicale, dal quale dipende la partenza per le missioni africane; e questo per mettere alla prova la propria umiltà e per non mortificare la consorella-rivale, che uscirebbe troppo umiliata da un insuccesso, laddove lei, invece, si diplomasse a pieni voti.
Forse quella superiora aveva visto giusto, nel giudicare che la giovane suora, pur con tutta la sua fede e il suo entusiasmo, covava realmente, in se stessa, un attaccamento ancora troppo forte allo spirito del mondo, sotto la forma dell’orgoglio e del desiderio di suscitare l’ammirazione altrui (anche se, nel caso specifico, si trattava soprattutto del giudizio di suo padre, da lei molto amato, che, medico egli stesso, sarebbe stato legittimamente orgoglioso di apprendere che ella si era fatta onore negli studi). Forse aveva compreso che proprio su quel terreno la giovane suora avrebbe dovuto battersi contro la parte egoistica di se stessa: tanto è vero che, alla fine del romanzo, anche se per ragioni diverse (il suo rifiuto di "perdonare" ai Tedeschi le violenze crudeli da essi compiute nella sua patria occupata, il Belgio) la giovane prenderà la sofferta decisione d lasciare il convento. Forse, ripetiamo. Ma esiste un limite all’auto-mortificazione, oltre il quale essa diventa odio di sé…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash