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Come non aver fede nel valore delle parole, se tutto nasce dalla Parola divina?

Davanti al fiume inarrestabile, ossessionante, talvolta torbido e limaccioso, delle parole, che sembra caratterizzare la civiltà del nostro tempo, sorge e si rafforza, per contrasto, la tentazione di rifiutare la parola, di svilire e calunniare qualunque parola, di non credere più ad alcuna parola e di detestarle, di maledirle tutte, sospettando in ciascuna di esse un tranello, una menzogna, un subdolo inganno.

L’uomo moderno, mano a mano che si è allontanato da Dio, si è allontanato anche da se stesso, da quello che in lui è essenziale: da ciò si è originato un oblio della Parola e una perdita di credibilità, uno svuotamento, una sorta di inflazione delle parole stessa. I sofisti della cultura moderna ne hanno fatto strame, le hanno trascinate nella polvere, le hanno pervertite sino a renderle irriconoscibili, persino pornografiche: eppure, anche così stravolte, mutilate, adulterate, le parole umane non hanno mai smesso di conservare un riflesso, un’ombra, una nostalgia della Parola divina, del Verbo da cui tutto ha avuto inizio.

Parlare sembra cosa facile e naturale, scrivere è diventata una professione da cui taluni intellettuali traggono prestigio e generose remunerazioni; ma la parola veritiera, caritatevole, disinteressata, sempre schietta, magari ruvida, quando ciò occorre, comunque sempre limpida e generosa, tale è la parola che sgorga solo da un’anima bene intenzionata, da una retta coscienza; e sia pure da un’anima in cammino, straniera, sofferente, purché disposta a lasciarsi guidare dall’alto per medicare le ferite altrui, per incoraggiare, per sostenere, per benedire e non già per maledire, ostacolare, ferire, calunniare.

La parola è il riflesso di colui che parla; ma colui che parla, parla pur sempre con parole umane, laddove le parole umane sono, così spesso, troppo povere e inadeguate. Che dire a due genitori che hanno appena perso il figlio? Quali frasi, quali espressioni adoperare, per lenire il cocente dolore di chi ha visto crollare i suoi sogni, di chi ha vissuto la disfatta delle proprie speranze? Eppure, la povertà e l’inadeguatezza delle parole umane viene soccorsa dalla forza e dallo splendore irresistibile della Parola che non tramonta, che non delude, che non inganna, se colui che le pronuncia sa farsi piccolo e docile strumento nelle mani dell’Essere.

Se dovessimo fidarci soltanto delle parole umane, se tentassimo di fondare i nostri passi solamente su di esse, specialmente nei momenti più difficili, ci troveremmo indifesi e abbandonati, o, peggio, ci troveremmo traditi e ingannati; e Dio sa quante parole vuote, o illusorie, o astiose, o malevole, o sconfortanti, sono state dette o scritte da uomini che avevano perso di vista l’essenziale, che avevano smesso di cercare con cuore puro, e che hanno preteso, nondimeno, d’impancarsi a maestri, portando fuori strada la massa dei loro ascoltatori, dei loro lettori, di tanti uomini e donne che cercavano una parola di speranza, e hanno ricevuto, invece, solo parole di smarrimento, di amarezza, di fiera delusione, d’amara sconfitta; o, peggio, di rancore, odio e vendetta.

Esiste una sacralità della parola, che non tollera sofismi o adulterazioni; ed esiste una carità della parola, che esige un autentico spirito di servizio e un altissimo senso di responsabilità. Infatti, di cattivi maestri della parola ce ne sono stati, e ce ne sono tuttora, anche troppi; maestri dalla parola venale, che si fanno pagare per dire ciò che accarezza gli orecchi del pubblico, e che si guardano bene dal rischiare l’impopolarità col dire o scrivere cose poco gradite alla pigrizia e al conformismo ovunque imperanti, anche se veritiere, giuste e benefiche.

Osservava padre Nazareno Fabbretti (1920-1997), che molti anni fa abbiamo avuto l’occasione di conoscere, sia pur fuggevolmente, e apprezzarne la profonda, intensa umanità (dalla «Introduzione» a: Giovanni Pastorino, «Semi di consolazione», Genova, Il Seme, 1972, vol. 1, pp. 5-7):

«Il seme è la parola di Dio: chi potrà ancora dir male delle parole? Gesù, con la parabola del "buon seminatore", le ha riscattate e consacrate per sempre. E non solo la parola di Dio — l’unica che valga al singolare e con la maiuscola: la Parola per eccellenza — ma anche le povere e volonterose parole degli uomini cammino verso quella di Dio, pronte a servirla e a identificarsi e ad accendersi in essa.

Ogni parola non vale tanto per se stessa quanto per il peso d’autorità e d’amore di chi la pronuncia. Il Verbo è creazione dal nulla, salvezza dall’errore e dal male, santificazione nella verità. Ma anche le parole degli uomini valgono nella misura in cui somigliano al Verbo. Dir male delle parole genericamente, diffidarne e cercarne perennemente la contraddizione, non è cristiano. Ogni parola dell’uomo, anche la più ambigua e profanatrice, contiene,m magari in negativo più che in positivo, una forza di allusione alla parola di Dio. Prima di disprezzare le parole degli uomini, occorre conoscere bene la parola di Dio. Per amarle come per smentirle, le parole umane , occorre avere comunione d’ascolto e d’impegno con quella di Dio, unica misura infallibile d’ogni linguaggio dello Spirito.

Spesso il discorso degli uomini è folle, ma non privo di un ricordo di verità e di grazia. Chesterton ha parlato magistralmente delle "verità impazzite". Forse i cristiani d’oggi — più ancora di quelli di ieri — sono chiamati a inseguire quelle verità, a ricondurle alla saggezza cristiana col confronto della loro vita, con la comprensione della loro pietà e il soccorso della loro cultura. […]

Le parole degli uomini sono aiuti preziosi. Partecipano spesso, in maniera sia pure indiretta, del grande tesoro del dialogo di Dio con l’uomo di tutti i tempi. Se si tratta di cercatori sinceri della verità, se si tratta di anime in cammino, soprattutto se si tratta di santi, le loro parole, per quanto legate ai tempi, alle correnti di cultura, alle mentalità più diverse, sono scalini semplici, "prefazioni" all’insostituibile parola di Dio Conoscere le parole può essere, in tal senso, la migliore preparazione a conoscete la Parola. Soprattutto le parole dei "Padri della Chiesa" — cioè dei pensatori più antichi che hanno unito la santità al genio — sono un patrimonio da riscoprire e da rigodere come se fosse stato pensato e scritto oggi, quale risposta alle nostre sempre più esigenti domande di figli e vittime dell’era atomica.

Sono seme anche queste parole umane. Nelle Sue proprie parole, Dio si svela e si dona. In queste parole degli uomini, che lo cercano o che già l’hanno trovato, Duo si nasconde per stimolare meglio a una ricerca più viva e profonda il cuore e l’intelligenza di tutti.

È dunque un bene scrivere le parole che nascono dalla nostra ricerca e dalla nostra speranza. È soprattutto un bene dirle, tali parole. Perché la "carità elle parole" è una delle più difficili, delle più delicate e delle più preziose. Stimola chi le dice a esserne degno più di chi le riceve e le ascolta. Stimola, obbliga, costringe a non battere l’aria. Dire parole di carità e di pietà significa somigliare a Dio, a Cristo, attingere in Lui ciò che da soli né si possiede né si ama. […]

Leggere con adorazione la parola di Dio; leggere con umiltà e solidarietà le parole degli uomini o amici o cercatori di Dio: ecco una delle forme essenziali per restituire il valore fondamentale tanto alla vita che alla cultura religiosa del nostro tempo.

L’esame più grande, di fronte a una tale responsabilità, resta, per tutti, quello di domandarsi se si sia, davanti alla parola come alle parole, pietra arida, spine soffocanti, strada battuta e sterile, o solco fedele e fecondo.

Questi "semi", infatti, non domandano di più. Ma neanche di meno.»

Dunque, vi sono parole che vengono dall’Alto e parole che salgono dalle profondità malefiche: parole di bene e parole di male; parole che incoraggiano e parole che feriscono; parole che rasserenano e parole che seminano la discordia; Non tutte le nostre parole vengono da noi: alcune ci sono ispirate dal Cielo e diffondono la pace, altre ci vengono suggerite dal grande Avversario, dal padre della menzogna, che instancabilmente si adopera per trarci fuori dalla retta via.

È incommensurabile il bene che può fare anche una sola parola, piena di amore e di comprensione, allorché essa cade nel fertile terreno di un’anima angosciata, assetata di verità, e bisognosa di comprensione; così come è incalcolabile il danno che può produrre una parola cattiva, inutilmente o perfidamente malevola, dettata dall’invidia o dal rancore.

Anche e soprattutto le persone che rivestono un ruolo pubblico, i politici, gli amministratori, gli uomini di cultura, i giornalisti, i registi cinematografici: tutti costoro dovrebbero imparare a pesare bene le parole, ricordandosi sempre dell’effetto gigantesco che possono produrre, in bene come in male, qualora cadano in un terreno particolarmente sensibile.

In fondo, le parole rispecchiano l’attitudine di fondo della nostra vita, il nostro orientamento esistenziale e spirituale complessivo. La comprensione del reale, sfrondata da certe fumisterie pseudo-intellettuali, è, a ben guardare, cosa assai più semplice di quel che potrebbe sembrare. Si tratta fondamentalmente di questo: avere compreso, oppure no, che tutto viene dall’Essere e tutto all’Essere ritorna; che la serietà d’una vita bene spesa consiste nell’assecondare questo movimento circolare, mentre la tragedia d’una vita mal vissuta, è nel rifiutarsi di farlo; e che tutto quanto va nella direzione del "sì" al circuito virtuoso dell’essere, è bene, e tutto quanto conduce al "no", vale a dire l’idolatria dell’ego, è male. Le parole rispecchiano quel "sì" o quel "no": mai sono del tutto neutre, mai sono realmente indifferenti. Una parola di dubbio, di critica, di scoraggiamento, non è male in se stessa, può anzi diventare strumento di bene, purché sia aperta alla trascendenza, alla speranza, all’abbandono in Dio; e, d’altro canto, neppure una parola di fede e di certezza è buona per se stessa, se non si accompagna alla carità.

Le parole buone sono un riflesso della Parola divina; le parole cattive non vengono dall’Alto, ma dai bassi istinti e dagli appetiti disordinati, fomentati da una Forza maligna che insidia la libertà e la felicità dell’uomo. Le parole buone sono pure, generose e disinteressate: non chiedono nulla, non si aspettano nulla, non si fanno pagare da alcuno: sono liberamente offerte, perché colui che le pronuncia sa che non appartengono a lui, ma che egli è solamente un tramite affinché esse giungano agli orecchi cui sono state destinate, fin da prima che il tempo esistesse. Le parole cattive sono meschinamente interessate e perfidamente calcolatrici: non si offrono all’altro, ma gli tendono dei lacci, delle reti, per catturarlo e ridurlo in soggezione. Di questa categoria fanno parte le parole degli amanti gelosi, dei genitori possessivi, e di tutti coloro i quali non conoscono altro modo di vivere all’infuori di quello che si alimenta della dipendenza altrui, e — non di rado — anche dell’altrui sofferenza, proprio come dei veri vampiri psichici.

Non dovremmo, pertanto, essere orgogliosi dei nostri bei discorsi: perché, se realmente producono effetti di bene, non sono nostri, ma ci sono stati suggeriti, perfino dettati, da Chi non sbaglia, non inganna e non ha alcun secondo fine, mai: sono parole dell’Assoluto, destinate a rimanere per l’eternità, segnate nel libro della vita. Tali sono anche le parole scritte sulla tela dal pittore ispirato, o nel marmo dallo scultore; tali sono anche le note composte dal musicista, o gli edifici progettati dall’architetto, allorché tutti costoro si lasciano guidare dall’Alto e non servono il proprio orgoglio e le proprie passioni, ma si mettono a disposizione del Bene.

Difficilmente si potrebbe sottovalutare il peso delle parole: esse cadono come sassi nello stagno, disegnano cerchi sempre più grandi. Una parola scritta duemila anni fa può arrivare fino a noi e cambiare le nostre vite: ecco che i cerchi sulla superficie dell’acqua hanno travalicato i secoli e sono giunti a noi, da un punto lontanissimo nello spazio e nel tempo. È questo un pensiero che fa venire le vertigini, se lo si soppesa in tutta la sua reale portata: significa, né più né meno, che, quanto alla parola, non esistono confini tra la vita e la morte, tra il passato e il futuro, tra l’Aldilà e l’al di qua: significa che esiste solo un assoluto presente, e che noi siamo i protagonisti d’un dramma cosmico, che si dilata sino agli estremi confini dell’universo. C’è di che far tremar le vene e i polsi anche alla persona più superficiale, allorché vi ponga mente per un solo attimo.

Perciò, tutto quel che possiamo e che dobbiamo domandarci, è se abbiamo permesso che le nostre parole umane, di per sé così spesso goffe e inadeguate, si facciano eco e strumento della sola Parola infallibile, veritiera e consolatrice: quella divina. Se lo abbiamo fatto, fosse pure un’unica volta, la nostra vita non sarà stata inutile; se no, significa che stiamo tradendo la Chiamata: la sola che conta.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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