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Come il paradigma dell’attualismo ha spinto la geologia verso un vicolo cieco

Le rivalità economiche, politiche e culturali fra le nazioni finiscono per riflettersi, in parecchi casi, anche sullo stato della ricerca scientifica, così come in altri e svariati ambiti dell’umano sforzo verso la conoscenza del reale; lungi dall’essere il regno del sapere oggettivo e spassionato, le scienze riflettono in pieno i rapporti di forza esistenti a livello mondiale, e l’egemonia di questa o quella nazione rispetto ai progressi del sapere.

Prendiamo il caso della geologia. Nel corso del XIX questa scienza, la più giovane di tutte, vide le dispute più accese fra due principali scuole di pensiero: quella "attualista", o "stazionaria", che faceva capo ai ricercatori della scuola britannica, primo dei quali Charles Lyell (1795-1875), e quella che, attraverso gli studiosi della scuola francese, il cui massimo esponente era Jean-Baptiste Elie de Beaumont (1798-1874), sosteneva che la storia della Terra è fatta di una evoluzione complessa, e che il pianeta su cui viviamo costituisce un sistema unitario. Il primo, nella sua opera fondamentale, «Principles of Geology», pubblicata a Londra nel 1830, sosteneva come, nella storia della Terra, «non ci sono le prove di un inizio, né indizi di una fine»: il cambiamento cui è sottoposta la sua superficie è lento, graduale, continuo. Il secondo, che concentrò la sua attenzione sui cataclismi e sulla orogenesi, ossia sulla formazione delle catene montuose, affermava l’idea esattamente contraria: nelle sue due opere maggiori, «Notice sur le système des montagnes» e «Recherches sur quelques-unes des rèvolutions de la surface du globe», sosteneva che la Terra non si trova in regime stazionario, ma che essa è soggetta a mutamenti anche relativamente rapidi, oppure molto rapidi, le cosiddette catastrofi naturali.

Dei due, finì per prevalere l’inglese: le sue teorie si accordavano meglio con la concezione di un lento e graduale mutamento di forze naturali sempre uguali, nella loro genesi e nella loro dinamica, e sempre soggette alle medesime leggi; inoltre, esse furono riprese da Charles Darwin, che ne fece la base e il modello per la sua teoria dell’evoluzione delle specie viventi mediante la selezione naturale, e che, con il grande peso che la sua autorità riuscì a conquistare nel giro di pochi anni, avvalorò ulteriormente le concezioni del suo maestro ideale. Le teorie del francese, invece, pur avendo incontrato numerosi consensi fra gli studiosi di geologia della sua nazione, finirono per trovarsi isolate nel contesto della ricerca scientifica europea e mondiale, e per essere rapidamente abbandonate: il modello britannico aveva vinto.

Oggi noi possiamo ben dire che de Beaumont era assai più vicino alla verità di quanto lo fosse Lyell; e che, anche se la concezione di questi fu, probabilmente, la necessaria premessa metodologica per una più esatta comprensione dei fenomeni geologici e delle loro dinamiche — a cominciare dalla teoria di Wegener sulla deriva dei continenti, antenata della odierna teoria della tettonica a placche — di fatto la sua impostazione dei problemi geologici era errata, perché dava per acquisito il fatto che la Terra si trovi in uno stato essenzialmente stazionario, e che tutto ciò che accade nel tempo presente, deve aver avuto il suo equivalente nel passato e lo avrà anche nel futuro. Le cose, invece, stanno in tutt’altro modo: la caduta di un grande meteorite sulla Terra è un esempio classico di come il "catastrofismo" fosse, tutto sommato, una teoria geologica assai più realistica di quella attualista. Non si può dire che la storia della Terra sia un film già visto, e che continuerà ad essere replicato, incessantemente, senza un inizio, né una fine: al contrario, vi è stato sicuramente un inizio, e altrettanto sicuramente vi sarà pure una fine; quello che accade nella complessa vicenda geologica è, di volta in volta, qualche cosa di unico e irripetibile, qualche cosa che si differenzia da tutto il resto.

Xavier Le Pichon, oceanografo e geofisico, membro dell’Accademia delle Scienze francese, così si espresse nel corso della lezione inaugurale al Collège de France del 20 novembre 1987 (in: X. Le Pichon, «Kaiko. Viaggio in fondo all’oceano»; titolo originale: «Kaiko, Voyage aux extremités de la mer», Paris, Editions Odile Jacob, 1986; traduzione italiana di Francesco Sircana, Milano, Mondadori, 1988, pp. 254-57):

«E siamo giunti al cuore del dibattito che agita la geologia sin dal principio del XIX secolo. Secondo alcuni, la dimensione storica della geologia è preminente. Come scriveva Albert de Lapparent nel 1885, "la geologia è quindi scienza naturale, in quanto svela una storia imprevedibile, ricca di contingenze, recepita come una ricompensa in sé, che prevale sulle teorizzazioni". Ma il caso delle catene montuose dimostra con la massima evidenza che gli archivi di questa storia sono assai incompleti, assai eterogenei, ed esigono un modello fisico-chimico, perché sia possibile ricostruire uno scenario evolutivo. E non è necessario, per disporre di un modello fisico-chimico, poter controllare su fenomeni attualmente osservabili?

La soluzione più semplice, allora, consisterebbe nell’ammettere che la Terra evolva in regime stazionario. È il cosiddetto attualismo, che consente alla geologia di accostarsi alla fisica e alla chimica, attualismo che Charles Lyell sosteneva sin dal 1830. Egli affermava che "le cause delle trasformazioni geologiche non sono mai state diverse da quelle che si manifestano ai giorni nostri, e non si sono mai manifestate con un’intensità maggiore". Coerentemente, Lyell riteneva, dunque, che gli archivi geologici su cui poteva compiere le proprie osservazioni non mostrassero traccia alcuna di un principio, né indicazione alcuna di un termine. In altre parole, era pienamente legittimato a considerare la Terra come se si trovasse in regime stazionario. Per Lyell, l’oggetto specifico della geologia era non tanto la ricostruzione della storia della Terra, quanto piuttosto la comprensione dei suoi meccanismi. "Non stupisce, pertanto, che Charles Darwin abbia trovato in Lyell il padre della geologia. Più tardi, Wegener si collocò in una prospettiva esattamente analoga, come d’altronde anche Argand il quale affermava: "La storia procede e noi viviamo senza privilegi di sorta, in un dato momento di questa grande vicenda". Argand si interessava all’orogenesi, che Lyell si era ben guardato dall’affrontare, ma risolveva il problema considerando la storia delle catene montuose come la vicenda della continua deformazione di un ambiente uniformemente plastico: un’approssimazione discutibile già a quell’epoca. La formulazione iniziale della tettonica delle placche, incontestabilmente, si collocava in questa prospettiva dell’attualismo: la Terra era concepita in regime stazionario. In ciò, eravamo gli eredi di Lyell.

Certo, occorreva attraversare questa fase. Come pretendere di decifrare il processo evolutivo per cui è passato il nostro pianeta senza saper rendere conto dei fenomeni attualmente osservabili? Ma "l’aver formulato un modello di evoluzione tettonica globale che si riferisce al presente non ci deve indurre necessariamente a supporre che la Terra si trovi in regime stazionario. Al contrario, qualunque teoria dell’orogenesi ci impone di abbandonare una simile ipotesi. […] La Terra non può essere considerata stazionaria. È falso che non vi si possa riconoscere traccia alcuna di un principio, né indicazione alcuna di un termine. È falso che noi viviamo "senza privilegi di sorta in un dato momento della storia della Terra". Il momento in cui viviamo non ha avuto equivalente nel passato, e non avrà equivalente nel futuro. Questa storia è irreversibile. Del resto, non sapremo mai quale sarebbe stata se l’uomo si fosse trovato a vivere alcune centinaia di milioni di anni or sono. Perché questa storia viene elaborata a partire da archivi che si fanno sempre più lacunosi a mano a mano che risaliamo verso il passato, e manca ogni testimonianza diretta relativamente ai primi 500 milioni di anni. Più che delinearsi secondo l’articolazione di una storia, la geologia consiste nel tentativo, da parte dell’uomo, di comprendere come si sia costituito quell’ambiente che lo ha generato e che egli si ingegna, con grande fatica, di padroneggiare. È una "logìa", non una grafia". Sul piano puramente storico, l’impresa parrebbe disperata. Troppo numerose sono le lacune. Noi siamo irrimediabilmente nella preistoria. Ma sul piano della comprensione dell’evoluzione di un sistema, le cose stanno altrimenti. Indizi provenienti dalle più svariate discipline e dai più diversi contesti possono essere utilizzati al fine di ricostruire schemi evolutivi in grado di renderne conto. Proprio perché la Terra è un sistema unitario per quanto straordinariamente complesso.

Questo approccio, che concepisce la Terra come un sistema unitario, evolvente in regime transitorio, era stato inaugurato da colui che a buon diritto si può considerare il fondatore della tettonica globale, quel Léonce Elie de Beaumont che, dalla sua cattedra presso il Collège de France, regnò come un monarca assoluto sulla geologia francese per quarantadue anni, dal 1832 al 1874. Elie de Beaumont considerava la Terra un pianeta in corso di raffreddamento. Di conseguenza, come diceva uno dei suoi panegiristi, a suo giudizio "tutto indicava chiaramente il procedere del mondo terrestre verso uno stato finale, l’impossibilità di tornare indietro, e al tempo stesso la necessità di un principio". Egli riteneva per di più, che le montagne si originassero nel corso di fasi tettoniche successive, caratterizzate da rilevanti discontinuità, da lui interpretate come catastrofiche. Voleva, infine, come diceva il medesimo panegirista, "prevedere e anticipare il giorno in cui la teoria della Terra permetterà ai geologi di determinare, mediante il calcolo, gli stati successivi attraverso i quali è passato il globo, così come gli astronomi fanno per il cielo, partendo da pochi principi semplici"…»

In conclusione, de Beaumont aveva avuto l’intuizione giusta, ma la teoria di Lyell finì per prevalere ed imporsi definitivamente, dopo una lotta relativamente breve; sono dovuti passare molti decenni perché i geologi riaprissero il dibattito e ritornassero alle idee dello scienziato francese, ed è legittimo domandarsi se la ragione di un così rapido trionfo dei «Principles of Geology», e un così lungo oblio della teoria contrapposta, si debbano soltanto al fatto che quest’ultima sembra essere maggiormente in accordo con il comune modo di sentire, che rifugge dall’idea di eventi geologici bruschi e improvvisi e preferisce istintivamente l’idea di un pianeta che non riserva ai suoi abitanti grosse sorprese, perché quanto vi accade nel presente non si differenzia da quanto è già accaduto nel passato innumerevoli volte.

Eppure si tratta di un’idea estremamente ingenua, per quanto possa presentarsi alla mente in modo perfettamente naturale: basterebbe riflettere a quanto sia insignificante la durata della vita umana rispetto ai milioni e milioni di anni delle ere geologiche, per capire come non abbia senso aspettarsi che le forze agenti sulla superficie terrestre si mantengano per sempre quali possiamo osservarle, di solito, nell’arco della nostra breve esistenza. I tempi della natura sono così lunghi, che nessun vivente, per quanto longevo, potrebbe afferrare, per via intuitiva, l’estrema complessità e variabilità, per non dire l’imprevedibilità, dei fenomeni riguardanti le vicende geologiche di un determinato corpo celeste.

Il distacco di un satellite dal suo pianeta-madre, ad esempio, oppure — viceversa – l’attrazione di un satellite entro la sfera gravitazionale di un pianeta, fino alla sua rovinosa caduta su di esso, sono eventi unici, che si verificano nell’arco di tempi inconcepibilmente lunghi; però, quando accadono, mutano radicalmente la struttura geologica di entrambi i corpi, sia il maggiore che il minore, non solo creando immensi crateri e, naturalmente, sconvolgendo il clima, ma anche, eventualmente, provocando uno spostamento nella inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, e perfino invertendone il senso (da orario ad antiorario, e viceversa), cosa che non manca di ripercuotersi sulla distribuzione reciproca delle terre e dei mari e sulla espansione o sulla contrazione delle calotte glaciali.

Tuttavia l’aspetto più importante della teoria di Beaumont era che la storia naturale di un corpo celeste possiede anch’essa, dopo tutto, un inizio e una fine: le cose non sono eterne, incominciano a esistere per poi concludono il loro ciclo, scomparendo. La Terra non è, né può essere, in uno stato stazionario per questa ragione fondamentale: opinare diversamente, significherebbe spostare all’infinito la questione del principio, e, con ciò, della causa prima; e, simultaneamente, spostare all’infinto la questione della fine, e, con essa, della teleologia. Forse erano proprio questi gli scogli che la teoria di Lyell desiderava evitare: non solo perché, in ultima analisi, di ordine filosofico piuttosto che scientifico, ma, soprattutto, perché avrebbero messo in difficoltà l’idea di una natura eterna e autosufficiente, nonché quella, ad essa correlata, di una scienza perfettamente in grado di leggere la storia della Terra come un libro aperto e, dunque, di una scienza autosufficiente, che riesce a spiegare il mondo senza bisogno di ricorrere all’aiuto di nessun altro.

E forse fu proprio questa la ragione per cui le idee di Lyell piacquero alla comunità scientifica e al grosso pubblico, o piacquero, in ogni caso, più di quelle di Beaumont: perché, in un clima culturale sempre più dominato dalle tendenze scientiste e positiviste, esse davano allo scienziato, e anche al filosofo che facesse propri sia il metodo che le prospettive delle scienze naturali, di emanciparsi da qualsiasi principio estraneo al loro sapere e da qualunque ordine di fenomeni diverso da quello del mondo naturale: meraviglioso senso di libertà e di onnipotenza, e quasi di rivincita, da parte dello scienziato, nonché del filosofo che andasse a scuola dal metodo scientifico, nei confronti di quel sapere che, per secoli e secoli, si era presentato come il sapere fondante di qualunque altro sapere: quello metafisico. Non aveva forse affermato David Hume che bisogna gettare nel fuoco tutti i libri che trattano di metafisica, perché non contengono altro che fantasticherie ed inganni? Ecco, adesso la vendetta era stata consumata sino in fondo: la metafisica diventava un arredo in disuso, da portare in cantina o in solaio, e la scienza si ergeva vittoriosa e splendente, dopo secoli di sudditanza e di mortificazione, fiera del suo primato.

Tutto questo ebbe il suo peso, nella temporanea affermazione della concezione geologica di Lyell, oltre al prestigio che la cultura inglese, appunto a partire dall’Illuminismo, aveva conquistato rispetto alle altre culture europee, Francia compresa: non guardavano forse gli illuministi francesi, a cominciare da Voltaire, all’Inghilterra, come alla loro ispiratrice e al loro modello ideale, non solo in campo politico e giuridico, ma anche nella filosofia, nelle arti, nel commercio, nell’industria, e, appunto, nel progresso delle scienze?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Hal Gatewood su Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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