
Come i teologi “progressisti” hanno eroso la credibilità del cristianesimo
28 Luglio 2015
Il pensiero di Sorel è di destra o di sinistra, pre-moderno o anti-moderno?
28 Luglio 2015C’è forse qualcosa di male nel sentire profondamente l’amore della propria patria, nel parlarne, nel proporlo ai propri figli, ai propri studenti, come un valore positivo? E c’è forse qualcosa, in esso, che mal si concilia con il fatto di essere cristiani?
Fino a un paio di generazioni fa, porsi domande del genere sarebbe stato semplicemente assurdo: l’amor di patria era un valore auto-evidente e nessuno si sarebbe sognato di metterlo in discussione, a meno che non degenerasse apertamente in disprezzo per gli altri popoli e gli altri Paesi, o in chiusura, o in rifiuto, o in una ostentazione di superiorità. E, quanto al cristianesimo, nessuno, né laico, né religioso, si sarebbe permesso di dubitare che le due cose fossero perfettamente compatibili: perfino don Lorenzo Milani, il prototipo del prete "progressista" e contestatore della gerarchia cattolica, ha sostenuto, sì, una dura polemica con i cappellani militari a proposito di guerra e cristianesimo, ma non si è mai spinto ad affermare che l’amor di patria, in se stesso, sia un sentimento che non può andare d’accordo con la fede cristiana.
Al contrario di oggi, il trinomio «Dio, Patria, Famiglia», era visto come una unità quasi inscindibile e come il pilastro, il fondamento stesso dell’intero vivere civile. Così insegnavano le maestre, a scuola, ai loro alunni; così faceva il prete, nelle lezioni di catechismo e nelle attività dell’oratorio; così, esplicitamente o implicitamente, facevano anche molti, moltissimi genitori. La Messa di Natale e di Pasqua non era certo vista in contrasto con la festa del 4 novembre, anniversario della Vittoria (del 1918) e festa delle Forze Armate; quanto alla famiglia, e a parte i quartieri "rossi" di certe zone industriali, quasi ovunque regnava un clima di fiducia nell’istituto familiare, nei suoi valori, e di compenetrazione con le altre due fedi: da un lato quella in Dio e nella lontana Patria celeste, dall’altro quella nella più vicina Patria terrena, l’Italia.
Le imponenti manifestazioni di esultanza per il ritorno di Trieste all’Italia, nel 1954, anche se un po’ temperate dalla tristezza per la cessione definitiva della Zona B alla Jugoslavia, e, più in generale, per la perdita di quasi tutta la Venezia Giulia e per il dramma dei profughi giuliani (passato, nell’immediato dopoguerra, quasi inosservato, o peggio, ignobilmente denigrato dal Partito Comunista e dai suoi militanti), mostrarono che il sentimento dell’amor di patria, alla metà degli anni Cinquanta, nonostante la sconfitta nella Seconda guerra mondiale e nonostante la tragedia della guerra civile, era ancora ben vivo nella parte più sana della popolazione e non aveva nulla di sciovinista, di intollerante, di sgradevole; anzi, era un sentimento del tutto spontaneo, perché ricevuto in eredità dalle generazioni precedenti, come un valore positivo da custodire e da difendere, come un patrimonio spirituale di cui essere orgogliosi.
Ancora al principio degli anni ’60, quando gli adulti volevano regalare un libro a un bambino, in occasione del suo compleanno o della cresima, accanto ai romanzi di Emilio Salgari e al «Giornalino di Gian Burrasca» di Vamba, molti optavano per il classico «Cuore» di De Amicis, certi che il giovane lettore non avrebbe mancato di commuoversi alle pagine del diario di Enrico, e, ancor più, ai racconti mensili dettati dal maestro: «La piccola vedetta lombarda», «Il tamburino sardo», «Dagli Appennini alle Ande»: tutte storie nelle quali, oltre ai sentimenti dell’onore, del dovere, della devozione filiale, veniva continuamente esaltato l’amor di patria. E le maestre facevano decorare il quaderno a quadretti degli alunni con il disegno dei fiorellini e con quello del tricolore italiano.
Poi è arrivato il ’68 e le cose sono cambiate. L’amor di Patria è pressoché sparito dall’orizzonte spirituale degli Italiani; e, quasi nello stesso tempo, anche Dio e la famiglia sono entrati nel mirino dei contestatori, sono divenuti oggetto di sarcasmo e di dileggio, infine sono diventati l’emblema di tutto ciò che non solo è vecchio e superato, ma moralmente discutibile (allora si diceva, con infinito disprezzo: «borghese»), di tutto ciò che rappresenta l’oscurantismo che si oppone alla nuova religione del Progresso. E quando, dopo la "rivoluzione" libica del 1969, i coloni italiani vennero cacciati da Gheddafi, previa la confisca di tutti i loro beni e dei frutti del loro durissimo, eroico lavoro, l’Italia non batté ciglio e la stampa e l’opinione pubblica italiana, salvo poche eccezioni, se ne lavarono le mani, come Ponzio Pilato.
E tuttavia, resta la domanda: c’è qualcosa di sbagliato, nell’amare la propria patria? A noi sembra proprio di no; al contrario, ci sembra che sia un sentimento assolutamente naturale ed encomiabile, almeno fin tanto che non degenera in qualche forma di nazionalismo esasperato e virulento. Non bisognerebbe mai gettar via il bambino insieme ai pannolini sporchi: amare la propria patria è cosa non solo naturale, ma necessaria; chi non ama la patria, non può essere un buon cittadino, non può essere leale verso di essa. E amarla significa anche desiderare di vederne preservata e valorizzata l’identità: senza alcun tipo di xenofobia, ma anche senza certe forme di mundialismo e di multiculturalismo, le quali altro non sono che la negazione dell’idea di patria. Amare la patria significa amarla così come essa è; e, fermo restando che nulla, sotto il sole, resta fermo ed immobile (se non ciò che è morto) e che, pertanto, tutte le manifestazioni della vita, dalla lingua alle abitudini, evolvono, ed è giusto che evolvano, non si deve tuttavia buttar via qualunque tradizione, qualunque ricordo del passato, qualunque abitudine tipicamente nazionale, solo per fare spazio ad una "apertura" senz’anima e senza memoria, in omaggio ad una globalizzazione che corrisponde a un livellamento e a un annientamento delle culture e delle identità, alla cancellazione delle patrie in nome di un cosmopolitismo, che è solo il paravento dello strapotere egoistico delle multinazionali e della finanza internazionale.
Resta la questione del cristianesimo. Alcuni cristiani "progressisti" e debitamente "di sinistra", cioè politicamente corretti, sostengono l’incompatibilità fra le due cose: affermano che il cristiano non ha patria, perché amare la patria significa restringere il proprio cuore, mentre il vero cristiano deve amare tutto e tutti. Ma si tratta chiaramente di un ragionamento capzioso. È vero semmai il contrario: che chi non sa amare i suoi intimi, non saprà amare neppure i lontani; che chi non vuole bene e non rispetta suo padre e sua madre, non sarà mai capace di voler bene e di rispettare nessun altro. Ora, la patria è la comunità dei nostri vicini: di coloro i quali parlano la stessa lingua, abitano lo stesso suolo, condividono le stesse tradizioni. Come è possibile non amarla, se si possiede un animo generoso e capace di provare il sentimento della gratitudine? Ciò non significa non vedere i suoi difetti, e meno ancora significa disprezzare la patria degli altri: significa, semplicemente, che la nostra natura ci porta a dare la precedenza, nello scrigno della nostra anima, alla terra e alle persone che condividono con noi lo stesso pezzo di cielo e che provengono dalla medesima storia, dalla medesima cultura. Certo, la prima patria di ciascun essere umano è quella locale: è perfettamente naturale amare in primo luogo il proprio dialetto, la propria provincia e la propria regione; ma è altrettanto naturale amare anche la lingua e la patria più vasta, di cui esse fanno parte.
Non si capisce perché mai il cristiano non dovrebbe amare la patria: a meno di pensare che il cristiano sia un odiatore del mondo terreno. Ma non lo è. Il cristiano sa che la sua patria "vera" è quella ultima, che lo attende dopo la morte; ma, per intanto, egli vive quaggiù, come tutte le altre creature del buon Dio, esseri umani, animali e piante: è giusto e logico che egli senta uno speciale legame affettivo e un sentimento di solidarietà verso di essi: sono i suoi compagni di viaggio, il viaggio della vita.
E non è neanche vero che il cristiano deve essere favorevole all’apertura delle frontiere a qualunque flusso migratorio, in nome dell’amore per il prossimo e della solidarietà verso gli ultimi. Quando si parla di milioni e milioni di persone, la questione non è solamente etica, ma anche politica e non riguarda più il presente soltanto, ma anche il futuro. Se il buon Samaritano si fosse imbattuto non in un viandante assalito e derubato dai ladroni, ma in dieci, in cento, in mille viandanti assaliti e derubati dai ladroni, certo non avrebbe potuto portarli tutti alla locanda, a sue spese; e nemmeno condurli , ospitarli e assisterli a casa sua. Non avrebbe avuto il diritto di esporre i suoi figli e i suoi nipoti a un destino incerto, accogliendo folle strabocchevoli di mendicanti, forse portatori di malattie infettive, forse malintenzionati, o addirittura terroristi. Avrebbe avuto il diritto morale, e anche il dovere, di fare una selezione: di accogliere alcuni, di respingere altri. Il buon cristiano non è un demagogo, né un incosciente, né un autolesionista; e, soprattutto, è una persona che può essere generosa del proprio, non dell’altrui. Caricare le generazioni future di pesi e di rischi gravissimi, esporle a condizioni di vita caotiche e precarie, con la prospettive di vederle diventare minoranze in casa propria, magari nemmeno ben tollerate dai nuovi arrivati, non è una forma di cristianesimo: è una forma di suicidio politico, morale e culturale.
Jakov Bubalo (1933-1996) è stato un frate francescano croato, scrittore e professore di teologia. Suo è lo stralcio di un più ampio articolo nel quale – mettendo a fuoco un singolo aspetto della potente personalità di San Leopoldo Mandic (nato a Castelnuovo di Cattaro nel 1866 e morto a Padova nel 1942), il frate cappuccino che per tanti anni visse, operò e confessò a Padova, rappresentando, in vita e anche dopo la morte, un importante punto di riferimento spirituale per tutti coloro che lo conobbero e anche per molti di coloro che ne sentirono soltanto parlare – svolge una riflessione di carattere generale sull’amor di patria e sul rapporto esistente fra questo sentimento e l’amore di carità nei confronti di Dio e del prossimo (da: M. Bubalo, «Amava la propria patria, ma era fratello di tutti»; in «Portavoce di san Leopoldo Mandic», Padova, rivista bimestrale, gennaio-febbraio 2015, pp. 20-21):
«Il profondo attaccamento alla propria terra è una delle più splendide espressioni della personalità umana, e porta in sé tutte le caratteristiche delle virtù evangeliche.[…]
è sbagliata l’opinione di quelli che identificano l’amore verso la propria patria con l’egoismo umano, sempre più diffuso. L’egoismo è il terreno fertile di tutti i vizi, mentre l’amor di patria è il focolaio dell’amore. Egoista può essere chi non sente l’amor di patria, come altruista può essere uno che arde d’amore per la propria famiglia e per il popolo. Al contrario, è facilmente comprensibile quanto la situazione inversa sia poco probabile. Infatti, com’è possibile che chi non ama i propri genitori e parenti possa amare i vicini e gli ospiti casuali? Come s fa ad amare quelli che stanno lontano, se non amiamo nemmeno quelli a noi più vicini? è così: chi non possiede amore per il proprio focolare non può nemmeno regalarlo al focolare altrui.
Gli stessi confronti si possono anche riferire all’amor di patria presente in una persona. è noto che chi non ama il proprio popolo, non può amare nemmeno gli altri popoli. Allo steso modo, non è possibile amare l’umanità, se non si è nemmeno in gradi di amare l’uomo. Tutti questi fati portano a una conclusione: l’amor di patria non rappresenta la strada sbagliata, ma piuttosto sta a indicare la via per un sincero amore del prossimo.
Anche Gesù ci presenta, attraverso il vangelo, un esempio evidente di quanto sia radicato e buono l’amor di patria dell’uomo. Proprio colui che amava immensamente tutti gli uomini, Gesù, manifestava una simpatia particolare per la gente in mezzo alla quale era nato. Colui che era generoso nel perdonare persino i nemici, disse apertamente alla donna di Canaan di essere stato mandato innanzitutto "alle pecore perdute della casa d’Israele" (Mt., 15, 24). Insomma, colui che fu e che restò il più grande amico di ogni uomo, valorizzò con il proprio esempio, l’amor di patria dell’uomo. […]
San Leopoldo Mandic ricalcava fedelmente le orme del Maestro divino anche per quanto riguarda questo aspetto, riuscendo a unire coerentemente il proprio amore incondizionato verso il prossimo con il suo ardente amor di patria.
Per il convinto attaccamento alla propria terra, non esitava a dichiarare apertamente che a Padova si sentiva come "un uccellino in gabbia", mentre il suo cuore "era rimasto di là del mare", con la sua famiglia e con il suo popolo. Oltre a ciò, non fu difficile accettare di dover andarsene al confino in Italia meridionale nell’anno 1917 (a causa della sua cittadinanza austro-ungarica, n. d. r.), pur di restar fedele alla nazionalità croata e all’appartenenza a quel popolo.
Tuttavia, questo suo ardente amor di patria non gli impedì minimamente di esprimere – nel corso della vita e del ministero svolto – il più grande amore verso il prossimo: verso quelli che non erano suoi conterranei, né della sua stessa lingua, ma solo compagni di viaggio su questa terra, ai quali dedicava tutto sé stesso, in ogni occasione e tutte le volte che ne avevano bisogno, pregando e vegliando per loro.
Più di questo, Leopoldo non avrebbe potuto fare nemmeno per quelli che si trovavano "di là dal mare": gli amati compatrioti e i fratelli di sangue della casa paterna. Non avrebbe potuto fare di più, poiché diede tutto sé stesso in un Paese, l’Italia, lontano dalla sua patria, dove non abitavano né i suoi fratelli consanguinei, né i suoi compaesani, ma solo fratelli che avevano bisogno del suo amore.»
Tutto vero e tutto molto semplice: chi ama la propria patria non toglie niente agi altri esseri umani; così come chi ama il proprio padre e la propria madre non sottrae nulla agli altri uomini e alle altre donne che vivono sulla terra.
Come è possibile che la società moderna, così progredita e intelligente, abbia perso di vista delle verità tanto elementari, e sia giunta a vedere con sospetto e diffidenza, se non con aperta disapprovazione, uno dei sentimenti più spontanei, più belli e ammirevoli che un essere umano, e perfino un santo, possano nutrire in cuor loro?
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash