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28 Luglio 2015Anche de Lubac, alfiere dei progressisti, mise in guardia contro le derive post-conciliari

Henri de Lubac (nato a Cambrai il 20 febbraio 1896 e morto a Parigi il 4 settembre 1991) viene considerato da molti come il teologo di riferimento del pontefice odierno, Francesco I; di certo è stato uno dei teologi cattolici più influenti di tutto il XX secolo e, sicuramente, uno di quelli che hanno esercitato un ruolo di primo piano nella concezione, nella elaborazione e nello svolgimento del Concilio Vaticano II.
La sua carriera di sacerdote non era stata lineare. Entrato nell’ordine dei Gesuiti nel 1913, ordinato presbitero nel 1927, fu professore di Teologia fondamentale presso la Facoltà teologica di Lione per un periodo complessivo di ben trentadue anni: dal 1929 al 1961 (ma con una pausa forzata, come vedremo). Incorse nel sospetto, e poi nell’aperta accusa, di modernismo, dopo la pubblicazione del suo libro «Soprannaturale. Studi storici», avvenuta nel 1946; nel 1950, dopo la promulgazione dell’enciclica «Humani generis» di Pio XII, che condannava duramente la "nuova teologia", accusandola di neo-modernismo, i Gesuiti gli tolsero l’insegnamento e i suoi libri vennero ritirati dalle facoltà cattoliche; lui stesso lasciò Lione e si portò a Parigi per alcuni anni.
La sua riabilitazione e la ripresa prodigiosa della sua carriera hanno del prodigioso, ma si spiegano con la morte di Pio XII. Non appena salito al soglio pontificio Giovanni XXIII, de Lubac non solo viene riammesso immediatamente all’insegnamento, verso la fine dello stesso 1958, ma, poco più di un anno dopo, nel 1960, è designato dal nuovo papa quale consultore della Commissione Teologica preparatoria del Concilio Vaticano II: come dire, dalle stalle alle stelle. Non basta: all’apertura dei lavori conciliari, egli è inviato a parteciparvi in qualità di "esperto". Il suo astro, da allora, non farà che brillare sempre più in alto. È divenuto ormai un teologo ammirato, apprezzato e molto ascoltato nelle più alte sfere: rifiuta una prima volta il cardinalato, offertogli da Paolo VI, nel 1969, ma finisce per accettarlo nel 1983, da Giovani Paolo II. L’ostacolo della ordinazione episcopale, che lui riteneva un "abuso" introdotto da Giovanni XXIII (che pure era stato il suo grande protettore e ammiratore), era stato rimosso appositamente per lui: pur di farlo cardinale, Wojtyla rinunciò a nominarlo preventivamente, e sia pure simbolicamente, vescovo.
Di lui, come teologo, ci siamo già occupati in un lavoro specifico (cfr. il nostro precedente saggio «Dall’abisso dell’uomo all’abisso di Dio nel pensiero di Henri de Lubac», pubblicato in versione parziale sul sito di Arianna Editrice, in data 25/07/2007, e, in versione integrale, sul sito NWO New World Order, senza data, ma sempre nel 2007). Quel che ci importa segnalare, in questa sede, è il ripensamento, e la parziale ritrattazione che egli, il massimo teologo del Concilio, insieme a Karl Rahner, fece alcuni anni più tardi, impressionato da certe esagerazioni e da certe gravi confusioni che si erano venuti a creare, da quando alcuni sacerdoti e alcuni vescovi avevano cercato di portare ancora più in là le riforme conciliari, senza che vi fosse stata una riflessione adeguata su quanto era già stato fatto, e su come si sarebbe dovuto procedere ulteriormente.
Così ha ricostruito quel clima inquieto e quei sofferti contrasti il giornalista e saggista britannico John Cornwell, classe 1940, vivente, e ben noto come autore del discusso, e assai discutibile, «Hitler’s Pope. The Secret History of Pius XII», del 1999, nel suo libro «Un papa d’inverno. Trionfi e conflitti nel pontificato di Giovanni Paolo II» (titolo originale: «The Pope in Winter», 2004; traduzione dall’inglese di Stefania Cherchi, Milano, Garzanti, 205, pp. 87-88; 89-90):
«Nell’autunno del 1978, quindi, i cardinali si riunirono nuovamente per scegliere un altro papa [dopo la morte improvvisa di Giovanni Paolo I, la notte del 28 settembre]. L’ipotesi che andava per la maggiore era che Albino Luciani, dopo solo tre settimane di lavoro, fosse stato semplicemente stroncato dall’eccessivo stress connesso al ruolo papale: bisognava dunque identificare un uomo abbastanza giovane, in ottima salute e con una forza indomabile. Il nuovo papa non doveva essere una figura di potere della curia, ed era auspicabile che avesse dimostrato grande energia nel dirigere la chiesa locale: un uomo insomma pronto a riconoscere alla chiesa locale il ruolo che le spettava. I cardinali volevano inoltre un papa del Concilio Vaticano II, ma che non si identificasse pienamente né con i progressisti né con i conservatori. Benché nessuno mettesse in discussione i benefici di lungo termine apportati dal Concilio, infatti, era altrettanto evidente che ne erano derivate anche discordia e infelicità, e un’infinita sequela di recriminazioni e contro recriminazioni. Secondo alcuni, l’orgoglio e la sconsideratezza di un gruppo avevano portato la chiesa sull’orlo della catastrofe; secondo altri, la chiesa, livida di frustrazione, se ne stava sulla soglia di un’era d grazia e di floridezza che stentava ad avviarsi per colpa di qualcun altro. La comunità cattolica era aspramente divisa tra quanti pensavano che le cose si fossero già spinte troppo in là e quanti ritenevano che non si fossero mosse affatto. Anche agli occhi di alcuni eminenti progressisti diventava sempre più evidente che la chiesa rischiava il caos sia nel campo liturgico che in quello dottrinale e istituzionale. Negli ultimi anni del pontificato di Paolo VI i giornali si erano occupati di certi casi estremi: preti che celebravano la messa su tavolini da caffè; suore femministe che ballavano nelle navate delle chiese e religiosi come padre Matthew Fox, che aderivano a credenze e rituali New Age. Per non parlare del vescovo Lefebvre, che minacciava di creare una setta scismatica in conflitto con Roma e caratterizzata dal ripristino della messa in latino e delle discipline in vigore sotto Pio X. Peter Hebblethwaite, già editore del periodico gesuita "The Month", parlava di "una chiesa imbizzarrita, che sbanda, fuori controllo": immagine nuova e allarmante. La paura si diffondeva. Interessante la posizione di Henri de Lubac, personaggio di primo piano delle spinte rinnovatrici del Concilio, che riassumeva così i problemi in atto: "L’apertura verso un mondo bisognoso di evangelizzazione si sta trasformando in una mondanità mediocre e a volte scandalosa […] l’arroganza di teologi che vorrebbero imporre alla chiesa il loro pensiero […] piccoli gruppi di pressione che prendono il controllo dei mezzi d’informazione e li usano per cercare d’intimidire i vescovi […] un’insidiosa campagna di attacco contro il papato […] il rifiuto del dogma, la politicizzazione del Vangelo. Né Henri de Lubac, amico di Wojtyla, era l’unico influente progressista ad avere paura. Anche Hans Urs von Balthasar e Avery Dulles erano preoccupati, e così pure l’eminente filosofo Jacques Maritain, secondo il quale le riforme nate dal Concilio stavano degenerando in "imminente apostasia" Erano in grado, i cardinali, di scegliere un papa capace di sanare tutte queste tensioni e paure, realizzando al tempo stesso ciò per cui i padri conciliari si erano battuti? […]
Dapprima i progressisti pensarono che il nuovo papa avrebbe portato avanti lo spirito del Concilio e spinto affinché si avviasse il programma di riforme avviato e rimasto a metà. I conservatori, invece, erano convinti che un prelato cresciuto in seno al cattolicesimo polacco, uno dei più tradizionalisti e battaglieri d’Europa, non potesse non restaurare buona parte della disciplina e dei valori che erano andati perduti, frustrando le residue speranze dei cattolici più vicino al socialismo. Pochi però compresero immediatamente fino a che punto il pontefice avrebbe deluso il lato progressista della barricata interna alla chiesa; pochi immaginarono che l’uomo che insieme a Wyszynski aveva guidato la chiesa polacca senza farsi minimamente condizionare dalle ambizioni diplomatiche e dall’autorità di Roma avrebbe interpretato l’autorità papale in senso tanto assolutista e centralista. Giovanni Paolo II credeva nell’autodisciplina e nella disciplina istituzionale. Era un prete dell’epoca di Pio XII, cresciuto con l’esempio di san Vincenzo de’ Paoli, del Curé d’Ars e del "Diario d’un curato di campagna". Quando rifletteva sulla "chiesa imbizzarrita" assiso sul trono del Vaticano, non si sentiva certo incline a lasciar andare le cose per la loro strada. Stava per carica interamente sulle proprie spalle la responsabilità del soglio pontificio; intendeva prendere la chiesa per la collottola e restaurare l’ordine.»
A parte alcuni giudizi discutibili su Giovanni Paolo II e un sottinteso ideologico molto vicino al pregiudizio anticattolico – o, quantomeno, molto ostile a quel cattolicesimo che i progressisti, cattolici e non, considerano "tradizionale", nel senso spregiativo della parola — ci sembra notevole il quadro di sbandamento complessivo in cui si colloca l’elezione di papa Wojtyla, sbandamento non solo disciplinare e, talvolta, liturgico, ma anche teologico e dottrinale, che, evidentemente, risaliva agli anni del Concilio e del post-Concilio, e che prosegue, in effetti, ancora oggi, ulteriormente accentuandosi. Preti che, dal pulpito, si improvvisano agitatori sociali e sindacali; frati e suore che cantano e ballano in maniera scomposta, dando scandalo ai fedeli; messe che somigliano più a delle gazzarre profane che al più solenne dei riti cattolici; per non parlare di teologi, o pretesi teologi, che imperversano nelle librerie, e più ancora in televisione, dando l’impressione che il cattolicesimo è diventato una palestra di relativismo e di sperimentalismo ad oltranza, e che tutti i suoi dogmi possano essere rimessi in discussione, come in una libera accademia: tutto questo, e altro ancora, è ormai divenuto cronaca "normale" dei nostri giorni.
Non solo Henri de Lubac, ma anche Jacques Maritain (Parigi, 18 novembre 1882 — Tolosa, 28 aprile 1973) – che era stato, con lui e con Karl Rahner, uno dei massimi ispiratori delle riforme conciliari – avrebbe avuto il tempo e l’agio di pentirsi e di mostrarsi assai preoccupato per la piega che la Chiesa post-conciliare stava prendendo: lo si può vedere leggendo quella sorta di testamento spirituale che è «Il contadino della Garonna», nel quale, ad appena un anno di distanza dalla solenne chiusura dei lavori del Vaticano II, egli delinea un bilancio pensoso, malinconico e perfino un po’ inquietante di quel che il Concilio ha fatto, di quel che non ha fatto e di quello che, forse, avrebbe fatto meglio a non fare, o magari a fare diversamente, visti i fraintendimenti e le derive cui esso ha dato luogo (si veda «Le paysan de la Garonne: un vieux laïc s’interroge à propos du temps présent», Paris, Desclée De Brouwer, 1966). Anche Maritain, insomma, da incendiario era corso ad arruolarsi tra le file dei pompieri: tardivamente s’era accorto che le fiamme, che lui stesso aveva contribuito ad appiccare, erano sfuggite di mano agli apprendisti stregoni e ora minacciavano di bruciare tutta la casa, e non solamente le robe vecchie.
Anche il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (Lucerna, 12 agosto 1905- Basilea, 26 giugno 1988) condivideva le perplessità e le critiche di de Lubac: lui, che pure non era stato nemmeno invitato al Concilio, benché ne fosse considerato, da molti, uno dei maggiori ispiratori; e lui che non condivideva né l’impostazione teologica "progressista" assai spinta di Karl Rahner, né quella di Maritain (cfr. il nostro precedente articolo: «Il grande equivoco su von Balthasar: aprire la Chiesa al mondo, non adeguarsi ad esso», pubblicato sul giornale informatico «Il Corriere delle Regioni» in data 16/03/2015).
Comunque, tornando a Henri de Lubac, le sue parole sono terribilmente eloquenti: la sua disanima è talmente dura, quasi spietata, che par quasi uscita dalla penna, o dalla bocca, di monsignor Marcel Lefebvre; a stento si crederebbe che a scriverle sia stato proprio lui, il teologo gesuita che è stato uno dei principali ispiratori del Concilio Vaticano II, nonché il beniamino di tre papi — Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II -, dopo essere quasi incorso nella scomunica da parte di un altro pontefice – Pio XII – e per un’accusa assai grave: quella di modernismo (ma ciò significa che il modernismo, o che certe istanze del modernismo, sono stati tacitamente, ma sostanzialmente, rivalutati, dalla più alta autorità della Chiesa cattolica?).
L’apertura ad un mondo bisognoso di evangelizzazione che si trasforma in una mondanità mediocre e a volte scandalosa; l’arroganza di teologi che vorrebbero imporre alla chiesa il loro pensiero; piccoli gruppi di pressione che prendono il controllo dei mezzi d’informazione e li usano per cercare d’intimidire i vescovi; un’insidiosa campagna di attacco contro il papato; il rifiuto del dogma, la politicizzazione del Vangelo: è una requisitoria implacabile, che parla da sola: sbalordisce soprattutto il fatto che provenga da uno dei maggiori protagonisti della stagione conciliare.
Vi è bisogno di ulteriori argomenti per generare quantomeno il sospetto, nei cattolici onesti e in buona fede, che qualcosa, dopo tanto parlare di rinnovamento e di apertura, non abbia funzionato?
Fonte dell'immagine in evidenza: https://www.lavoce.it/