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Altro che “principio d’indeterminazione”: la verità è che siamo abituati a raccontarcela

Chi ha letto il romanzo di Edward Morgan Forster «A Passage to India», del 1924, o chi abbia visto il film omonimo, girato nel 1984 dal regista David Lean, sa che tutto il significato e tutto il mistero della storia ruotano intono a un episodio che rimane oscuro sino alla fine: che cosa sia realmente accaduto, cioè, nelle grotte di Marabar.

L’indiano dottor Aziz, un giovane medico musulmano, vedovo con due figli, che ammira e invidia gli Inglesi, e due donne inglesi innamorate dell’India, ma forse incapaci di comprenderla per quello che realmente è, Mrs. Moore e Miss Adela Quested, rispettivamente una anziana signora e la sua futura nuora, si sono recati a visitare quelle famose grotte sacre, adorne di sculture erotiche e celebri per i formidabili effetti acustici provocati dall’eco; tutta la gita è stata pensata e organizzata da Aziz, il quale ha fatto le cose in grande, portando sul posto addirittura un piccolo eserciti di schiavi e servitori, con tanto di elefante e portantina.

Aziz vorrebbe colpire le sue ospiti con la magnificenza e la liberalità dell’accoglienza, ma è divorato da un cocente complesso di inferiorità, per cui nulla gli sembra essere abbastanza nei confronti dei colonizzatori, amati/odiati modelli di civiltà, davanti ai quali si sente umiliato, in quanto membro di una cultura e di un popolo "inferiori"; le donne, da parte loro, sono animate da sentimenti di sincera curiosità e benevolenza, non sono affatto due arcigne rappresentanti della razza padrona, però non possiedono gli strumenti per capire la civiltà indiana, che pure ammirano: i loro pregiudizi europei le condizionano, si direbbe, tanto più fortemente, in quanto esse credono di non averne affatto.

Giunti in cima alla montagna sacra, Miss Moore, stremata dal caldo e dalla fatica, ma anche da una strana emozione, da un senso di sovreccitazione, decide di restare all’esterno; Aziz e Miss Adela proseguono da soli, beninteso accompagnata da una guida. La giovane inglese approfitta di quel momento di relativa intimità per fare al medico indiano una domanda sul matrimonio, che nasce da alcuni suoi dubbi circa il passo che sta per compiere con il figlio di Miss Moore, ma che Aziz, nella sua mentalità, giudica estremamente imbarazzante e sconveniente. Ecco, ora ci sono tutti gli ingredienti perché la gita si trasformi in un clamoroso disastro e perché l’adulazione di Aziz verso le sue ospiti inglesi, quasi servile, ma, nello stesso tempo, venata di segreto risentimento, riceva una severa punizione.

Quasi all’imbocco delle grotte, i due si separano: Adela entra da sola; quando Aziz, dopo aver fumato una sigaretta, decide di seguirla e si mette a cercarla e a chiamarla, è già troppo tardi: non la trova più; ma pochi minuti dopo la giovane donna è vista uscire da una delle grotte che si trovano molto più in basso e salire a bordo dell’automobile di un’altra signora inglese, con la quale si allontana. Aziz è deluso e vagamente preoccupato, ma pensa che Adela abbia semplicemente deciso di approfittare di un passaggio offertola dall’amica; invece, poco dopo, sceso dal treno alla stazione ferroviaria di Chandrapore, viene arrestato, senza alcun mandato, dalla polizia britannica, sotto l’accusa di violenza sessuale.

Che cosa sia realmente accaduto nelle oscure, sensuali, misteriose grotte di Marabar, non lo sapremo mai: vi sarà un processo, nel corso del quale la tensione latente fra colonizzatori e colonizzati giungerà al calor bianco; finché, sul più bello dell’udienza decisiva, la giovane inglese, a una precisa domanda del magistrato, afferma che quel giorno, nelle grotte, non è successo assolutamente nulla; che Aziz non l’aveva affatto seguita, dopo che lei era entrata da sola; e quindi l’accusa di stupro, o di tentato stupro (non è ben chiaro quale fosse, delle due, l’esatta imputazione nei confronti di Aziz), fra lo stupore e l’incredulità del pubblico, viene lasciata cadere. Il "partito" degli innocentisti, in pratica la comunità indiana e un solo esponente dell’establishment britannico, esulta; il partito "colpevolista", formato dalla comunità compatta dei residenti inglesi, risulta turbato e amareggiato, al punto da decretare un vero e proprio bando sociale nei confronti della giovane Adela; ma la verità dei fatti non si saprà mai.

Ed ecco il passaggio decisivo in cui la giovane donna inglese prende coscienza di non aver detto la verità, proprio nel momento culminante del processo a carico di Aziz, con l’accusa di violenza sessuale (E. M. Forster, "Passaggio in India"; titolo originale: "A passage to India"; traduzione dall’inglese di Adriana Motti, Torino, Einaudi, 1962, pp. 249-252):

«Adela si era sempre proposta di dire la verità, e nient’altro che la verità, e aveva fatto prove su prove come per un’impresa difficile – difficile perché la sua disgrazia  nella grotta era connessa, sia pure per un filo, con un’altra parte della sua vita;: il fidanzamento con Ronny. Aveva pensato al’amore un attimo prima di entrarvi, aveva innocentemente domandato ad Aziz che cosa fosse il matrimonio, e ora si immaginava che proprio la sua domanda avesse scatenato in lui la malizia. Raccontare tutto questo sarebbe stato terribilmente penoso, era l’unico punto che voleva tener segreto; era pronta a riferire particolari che avrebbero messo a disagio altre ragazze, ma non aveva il coraggio di accennare a questa storia del suo personale fallimento, e tremava d’essere interrogata in pubblico per la paura di lasciarsi sfuggire qualcosa. Ma non appena si alzò per rispondere, e udì il suono della propria voce, non ebbe più nemmeno questo timore. Una sensazione nuova e sconosciutala proteggeva come una splendida armatura. Non pensava a quello che era successo,  e nemmeno ricordava nel modo consueto della natura: era di nuovo sui Monti Marabar, e di là, traverso una specie di buio, parlava al signor McBryde. Quel giorno fatale tornò in ogni suo particolare, ma ora lei ne faceva e al tempo stesso non ne faceva parte, e questa duplice relazione gli dava uno splendore indescrivibile. Perché quella gita le era parsa "noiosa"? Ora il sole tornò a levarsi  l’elefante aspettava, le pallide masse di roccia le ondeggiarono intorno rivelandole la prima grotta ; vi entrò, e le pareti levigate specchiarono un fiammifero: tutto bello e significativo, anche se sul momento lei era stata cieca a ogni cosa. Le venivano rivolte domande, e a ciascuna lei trovava la risposta giusta: sì, aveva notato la Cisterna del Pugnale, ma non ne conosceva il nome; sì, la signora Moore si era sentita stanca dopo la prima grotta e si era seduta all’ombra di un grande macigno, accanto al fango secco. Dolcemente la voce di lontano proseguiva, guidando lungo i sentieri della verità, e le folate della punkah [grande ventaglio] dietro di lei la sospingevano avanti…

– L’imputato e la guida vi portarono sul Kawa Dol, senza che nessun altro fosse presente?

-I l monte dalla forma più incantevole di tutti. Sì -. Mentre parlava, creò il Kawa Dol, vide le nicchie sulla curva di pietra, e sentì il calore sferzarla in viso. E qualcosa la spinse a soggiungere: – Nessun altro era presente, che io sappia. Pareva che fossimo soli.

– Benissimo, a mezza costa c’è una sporgenza, o meglio una specie di cengia accidentata, con molte grotte sparse là dove comincia un nullah [letto di un torrente].

– So il posto di cui parlate.

– Siete entrata da sola in una di quelle grotte?

– Proprio così.

– E l’imputato vi ha seguita.

– Ora l’abbiamo in pugno fece il maggiore.

Lei rimase zitta. Il tribunale, il luogo della domanda, aspettava la sua dichiarazione. Ma lei non poteva farla sinché Aziz non entrava nel luogo della risposta.

– L’imputato vi ha seguita, non è così? — ripeté lui col tono monotono con cui parlavano entrambi; stavano usando fin dal principio parole già convenute, affinché questa parte della procedura non riserbasse sorprese.- Potete concedermi mezzo minuto per rispondere a questa domanda, signor McBryde?

– Ma certo.

– La sua visione abbracciava parecchie grotte. Lei si vedeva in una di quelle, ma era anche all’esterno e ne osservava l’entrata, in attesa che passasse Aziz. Non riusciva a situarlo. Era il dubbio che le era venuto spesso, ma solido e attraente, come le montagne. — Non ne sono… – le parole erano più difficili che la visione. — Non ne sono del tutto certa.

– Perego? — disse il sovrintendente di polizia.

– Non posso essere certa…

– Non ho afferrato la risposta -. Aveva l’aria spaventata, la bocca gli si chiuse di scatto. — Voi siete su quella terrazza, o comunque vogliamo chiamarla, e siete entrata in una grotta. Io direi che l’imputato vi ha seguita.

Lei crollò il capo.

– Che cosa intendente dire, per piacere?

– No, disse lei, con voce piatta, incolore Lievi clamori si levarono da vari punti del’aula, ma nessuno ancora aveva capito che cosa stesse succedendo all’infuori di Fielding [l’unico inglese amico di Aziz]. Egli vide che lei stava per avere un collasso nervoso e che il suo amico era salvo.

– Come? Cosa state dicendo? Parlate più forte, per piacere. — Il magistrato si protese.

– Temo di aver commesso un errore.

– Che specie di errore?

– Il dottor Aziz non mi ha mai seguita nella grotta.»

Che cosa è realmente successo, durante la gita alle grotte? Aziz ha seguito Adela, le ha fatto degli approcci sessuali, ha davvero cercato di violentarla? E perché, in tal caso, lei ha ritirato l’accusa, proprio nel momento decisivo, quando la condanna dell’uomo sembrava ormai scontata? Ha avuto pietà di lui? Si è resa conto di averlo, sia pure non del tutto volontariamente, provocato, con le sue disinvolte domande a proposito del matrimonio? Oppure Aziz è davvero innocente, completamente e totalmente? E allora, che cosa è successo: Adela si è inventata tutto? E perché? Oppure ha vissuto una esperienza erotica di fantasia? Si è lasciata suggestionare dal clima, saturo di sensualità, delle sculture, nonché dalle sue stesse parole e dal pensiero del prossimo matrimonio? Ha scambiato un suo desiderio inconscio, quello di essere violentata da Aziz, – o, quanto meno, di essere avvicinata sessualmente da lui — per un evento reale? Nessuno lo saprà mai.

Questa sospensione, questi interrogativi senza risposta, hanno fatto parlare taluni critici, niente di meno, di una trasposizione nel campo della letteratura del famoso "principio di indeterminazione" di Heisenberg (formulato nel 1927: dunque, quattro anni DOPO la pubblicazione del romanzo), che ha rivoluzionato lo scenario della fisica e che ha scosso dalle fondamenta le antiche certezze sul grado di precisione della conoscenza nelle scienze esatte («le leggi naturali non conducono a una precisa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo»). Il mistero di ciò che avviene nelle grotte di Marabar richiama, implicitamente, il tema della molteplicità dei punti di vista in un’opera letteraria (o cinematografica; e, più in generale, di qualunque realtà percepita dal soggetto umano), presente in alcune opere di scrittori come il giapponese Akutagawa e l’italiano Pirandello, e posta al centro del capolavoro del regista Kurosawa «Rashomon», del 1950; ma anche le teorie freudiane sull’inconscio e sulle pulsioni inconsapevoli originate dalla "libido", che si traducono in atti mancati, o in forme nevrotiche, o in sogni ove si scarica, però in forma mascherata, per aggirare la censura del Super-Io, la loro "pericolosità" ed inconfessabilità.

La domanda, in fondo, è sempre la stesa: quando noi mentiamo a noi stessi, siamo consapevoli o inconsapevoli? O, ancora, ci troviamo in una vaga e nebbiosa "terra di nessuno" fra coscienza ed inconscio, per cui abbiamo solo in parte, e in misura assai attenuata, la consapevolezza del fatto che ce la stiamo raccontando? Annamaria Franzoni — tanto per fare un esempio tratto da un fatto di cronaca nera molto conosciuto – sapeva o non sapeva di mentire, allorché attribuiva ad altri l’assassinio del piccolo figlio, Samuele, e quando accusava tenacemente, ostinatamente, la sua vicina di casa, di aver perpetrato l’omicidio, per invidia nei suoi confronti? Possibile che avesse "dimenticato" quei minuti terribili, che il suo inconscio avesse saputo erigere un muro così alto e potente, da precludere l’accesso alla consapevolezza di ciò che aveva fatto, per proteggerla dalle conseguenze devastanti di una simile verità?

Qui ci troviamo in presenza di un mistero fitto, anche se, forse, non così impenetrabile come taluni hanno supposto. Pirandello, per esempio, era dell’opinione che le cose, semplicemente, accadono, «non si sa come» (per usare le parole del titolo di un suo importante dramma in tre atti, del 1934), vale a dire senza che noi le vogliamo e senza che ne siamo davvero responsabili, anche se, apparentemente, ne siamo gli autori. E, in effetti, esperimenti appositamente effettuati mostrano che perfino in stato di ipnosi regressiva — ossia quando i condizionamenti dell’Io cosciente, o del Super-io, dovrebbero essere, per quanto possibile, neutralizzati — le persone possono "ricordare" di aver compiuto, o magari di aver subito, delle azioni che, in realtà, non sono accadute, o, per adoperare un linguaggio più preciso, che non sono accadute sul piano della realtà esterna, oggettiva. Ma è proprio così? Davvero noi non sappiamo affatto come mai le cose accadono, e davvero esse accadono in maniera del tutto indipendente dalla nostra volontà?

A noi sembra di dover diffidare di una simile conclusione, se non altro perché essa ha il "torto" di coincidere un po’ troppo con la nostra segreta convenienza. Ci fa molto, troppo comodo pensare che, quando diciamo le bugie a noi stessi, non sappiamo quel che facciamo: perché questo ci assolve, in anticipo, sia dalla nostra disonestà intellettuale, che dalla nostra vigliaccheria. E ci "autorizza", si fa per dire, a ripetere chissà quante volte dei comportamenti discutibili: se, infatti, non ne siamo realmente consapevoli, nessuno, neanche la nostra coscienza, potrebbe rimproverarci il fatto che non sappiamo imparare mai nulla dalle nostre esperienze. Infatti, per imparare dall’esperienza, bisogna, quanto meno, averne piena consapevolezza: altrimenti, sarebbe come pretendere di voler lasciare una traccia durevole, scrivendo con la punta del dito sulla sabbia umida in riva al mare, durante la bassa marea. Bisogna diffidare di una spiegazione che torna così utile alla nostra pigrizia e alla nostra irresponsabilità: perché, se le cose stessero effettivamente così, allora noi saremmo giustificati in anticipo per tutte le cose poco belle che facciamo, e soprattutto per la mancata assunzione di colpa da pare nostra, sistematica e pervicace.

Il fatto è che l’evidenza della nostra capacità di leggerci dentro appare tale solo per le persone che possiedono naturalmente una fondamentale onestà interiore, oppure per quelle che l’hanno saputa coltivare e sviluppare, attraverso una severa e costante disciplina, abituandosi a non fare mai a se stesse degli sconti sul piano della coscienza. Abbiamo motivo di ritenere che queste due categorie di persone, pur sommate insieme, rappresentino comunque solo una piccola, piccolissima minoranza della popolazione totale. La grande maggioranza degli esseri umani preferisce raccontarsela e, come si usa dire, "girare la torta", a seconda della propria convenienza. E siamo anche convinti che questa capacità, anzi, che questa abitudine di mentire a se stessi, di non voler vedere le cose come stanno in realtà, sia specialmente un prodotto della nostra cattiva coscienza: ossia una reazione, quasi istintiva, e certo molto comoda, alle nostre cattive azioni. Quando "sappiamo" di stare agendo in modo moralmente criticabile, allora scatta il meccanismo della cecità e della inconsapevolezza. Diventiamo tutti candidi come agnellini, quando avremmo qualcosa da rimproverarci: e, appunto per non sentire i rimproveri della nostra coscienza, facciamo in modo di non vedere e di non sentire nulla. Così diventiamo innocenti.

Salvo, a posteriori, avanzare la misera "spiegazione" – che non spiega assolutamente nulla – che le cose accadono, non si sa come, non si sa perché…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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