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28 Luglio 2015Peter Wust (nato a Rissenthal, nella Saar, il 28 agosto del 1884, in una famiglia assai numerosa, primo di ben undici fratelli; e deceduto a Münster il 3 aprile 1940, a Seconda guerra mondiale già incominciata) è un pensatore tedesco, già professore di filosofia all’Università di Münster, oggi pressoché dimenticato, non solo a livello internazionale, ma anche nella sua stessa patria. La città di Münster, sia detto fra parentesi, è stata anche la sede del vescovo Clemens August Von Galen (1878-1946), mitica figura d’intrepido pastore, soprannominato "il leone di Münster", proprio per la sua fiera, coraggiosissima opposizione alle brutalità ed ai crimini perpetrati dal regime nazista, a cominciare dalla soppressione dei disabili (cfr. il nostro precedente articolo: «Von Galen difese la sua patria a viso aperto così come aveva difeso le vittime del nazismo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 13/02/2012).
Poiché Peter Wust non è facilmente etichettabile e non rientra in alcuno dei principali filoni del pensiero europeo (tranne l’esistenzialismo; ma quale abisso separa la sua prospettiva cristiana da quella, atea e desolata, di un Heidegger o di un Sartre), e poiché non rientra nemmeno nei comodi schemi ideologici destra/sinistra, si è ritenuto bene lasciarlo scivolare silenziosamente nel dimenticatoio, consegnandolo all’ufficio oggetti smarriti della tarda modernità. A noi sembra, invece, che il suo itinerario speculativo, così come si evince dalla sua opera più importante, «Incertezza e rischio» («Ungewissheit und Wagnis», del 1937) abbia ancora molte cose da dire all’uomo contemporaneo; anzi, che si riveli di una preziosa e scottante attualità: e il suo pensiero ci appare come un viatico generoso, e quanto mai opportuno, per chi – come noi, cittadini del terzo millennio – con fatica e incertezza cerca un luogo saldo ove posare il piede, negli aspri e tortuosi sentieri della vita.
Ci piace, per offrire una sintesi del pensiero di Peter Wust, riportare qui la presentazione e il commento di Filippo Piemontese a «Incertezza e rischio» (in "Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi", 2005, vol. IV, pp. 4297-8):
L’opera parte dalla constatazione che c’è nell’uomo un’istintiva tensione verso la certezza, la sicurezza, la salvezza personale; egli deve però sperimentare in tutti i gradi della sua progressiva ascesa interiore un insopprimibile e crescente senso di incertezza ("Ungewissheit"), di "insecuritas", cui è connesso l’avvertimento di un rischio ("Wagnis"): rischio che concerne in ultima analisi proprio il suo destino finale di uomo singolo, con la sua aspirazione alla felicità e all’immortalità. a radice di questa "insecuritas" sta nella particolare struttura della "ratio" umana, che fa dell’uomo un essere intermedio fra l’animale (salvaguardato dalla natura e dall’istinto, entro una forma inconsapevole di "sicurezza") e lo spirito puro (che è capace di una certezza senza ombre e senza tentennamenti). L’uomo invece esperimenta "l’incertezza in mezzo alla certezza razionale" (cap. II); e perciò la capacità illuminatrice propria della nostra "ratio" non è sufficiente a determinare le decisioni essenziali della nostra vita, senza un atteggiamento primordiale, in parte in cosciente, che scaturisce dal profondo della nostra personalità: esso implica un’opzione primitiva e radicale fra l’egoismo e l’amore disinteressato, fra il fascino del "caos" e la fiducia nell’ordine, nella razionalità, nella giustizia dell’essere, nonostante tutti gli oscuramenti e le contraddizioni di cui appare seminato il nostro cammino. Interno ai problemi decisivi per il nostro destino, i problemi metafisici, la nostra ragione non può raggiungere quella certezza incontrastata e incontrastabile che è tipica della matematica; essa può obiettivamente dimostrare le verità metafisiche (per esempio, l’esistenza di Dio), ma ciò non toglie che la forma di certezza raggiunta possa, di fatto, essere rimesse sempre in questione, come insegna la storia del pensiero. E anche passando dalla certezza metafisica alla certezza religiosa di Dio (cioè alla consapevolezza vissuta di una certa sua vicinanza personale), questo intimo rapporto con Dio si presenta scandito da un’incessante dialettica di svelamento e di oscuramento; Dio è avvertito dall’anima come "Deus revelatus" e insieme come "Deus absconditus". La vita interiore dell’"homo religiosus" si svolge quindi in una "penombra", in un chiaroscuro che comporta sempre l’avvertimento di un rischio: perdere il bene posseduto. L’insicurezza suprema e sottintesa, in fondo, in ogni altra, è quella concernente la propria salvezza personale eterna; ma se non si può raggiungere qui la certezza assoluta, non ci si deve neppure abbandonare all’incertezza e alla disperazione; bisogna conquistare piuttosto l’abito di una "tranquillità piena di speranza" (cap. XII). L’"insecuritas" non si può eliminare dalla vita dell’uomo; tuttavia, chi segue la via della vera sapienza, il "rischio della sapienza", giunge attraverso questa via, che è poi quella della fede religiosa e dell’amore, a sperimentare la "securitas insecuritatis": l’uomo si accorge allora di essere stato protetto da una benevola e sapiente Provvidenza anche quando sfiorava il precipizio mortale.
Il pensiero di Wunst è spesso presentato come una forma di irrazionalismo: tale interpretazione non collima però con le sue intenzioni dichiarate. Egli infatti non nega l’obiettiva validità della ragione, e accetta addirittura come valida la metafisica scolastica, con la sua dottrina dell’essere e delle sue proprietà trascendentali, e le prove razionali dell’esistenza di Dio. Perciò l’atteggiamento di Wust si distingue così dal fideismo di Soren Kierkegaard come dalle conclusioni sostanzialmente negative cui perviene l’esistenzialismo di K. Jaspers, né condivide la sfiducia che verso la natura umana manifesta la teologia di K. Barth. Dall’esistenzialismo Wust mutua però l’attenzione rivolta all’intima esperienza dell’uomo preso nella sua singolarità, e l’interpretazione di questa esperienza come permeata da una costituzionale insicurezza; per questo verso egli si può considerare a buon diritto, come generalmente è considerato, un esistenzialista cristiano. Tale suo esistenzialismo tuttavia appare rivolto, almeno nelle sue intenzioni, non propriamente a contraddire la metafisica razionale, ma a integrarla con un’analisi psicologica che ne pone sotto accusa la forza di persuasione soggettiva, ma non ne infirma il valore obiettivo.»
Dunque, così come Nicola Cusano parlava di una "dotta ignoranza" da parte dell’uomo, alludendo al duplice aspetto della nostra condizione, sospesa, socraticamente, fra il sapere e il non sapere, allo stesso modo Peter Wust parla, con voluto e scherzoso paradosso, di una "sicura insicurezza", nel senso che l’uomo deve accettare l’insicurezza come cifra della propria condizione esistenziale,ossia della propria finitudine; ma, nello stesso tempo, può fare l’esperienza della rassicurazione, affidandosi a quella forza benevola e provvidenziale che si può percepire, nel tumulto della vita d’ogni giorno, non già al di fuori e contro la ragione umana, ma, bene al contrario, accanto ad essa e, per un certo verso, al di sopra di essa.
L’esistenzialismo di Peter Wust, dunque, che assume pienamente e incondizionatamente, ma soprattutto liberamente, il "rischio" della costante insicurezza dell’uomo nel mondo, della sua insicurezza non già storica, e quindi accidentale ed, eventualmente, modificabile, forse eliminabile, ma ontologica e strutturale, si inscrive, dunque — un po’ come quello di Gabriel Marcel — nella cornice del cosiddetto esistenzialismo teistico di matrice cristiana. E non ci stupirebbe affatto se proprio qui, in questa precisa identità culturale e spirituale, andasse cercata la ragione di una così scarsa conoscenza della figura di questo importante pensatore tedesco, e di una così modesta diffusione delle sue idee, in una società, quale è diventata la nostra, dove anche certi nani della filosofia passano per dei giganti, sia per l’effettivo scadimento del clima intellettuale complessivo, sia per le subdole manovre di certi poter forti, dai quali dipende la gestione (e la manipolazione) del mercato culturale, miranti ad enfatizzare e ingigantire incessantemente le tendenze "progressiste", materialiste e atee, ed a mettere la sordina sulle manifestazioni del pensiero che non si adattano a codesta prospettiva, essendo ispirate ad una concezione spirituale dell’uomo e del reale.
Convinto fautore della unità culturale dell’Europa, Wust è stato un intellettuale "scomodo", nel senso di non allineato con le linee maestre del pensiero novecentesco; il suo esplicito richiamo al cattolicesimo e la sua battaglia per la diffusione della concezione cattolica, fondata sul Vangelo, gli sono costati il tacito, deliberato, tenacissimo ostracismo da parte dei salotti buoni della cultura europea, tutti intrisi di laicismo e di secolarismo e dominati da potenti, pervicaci pregiudizi ideologici nei confronti del cristianesimo in genere, e del cattolicesimo in particolare.
L’insicurezza, dunque, è, secondo Peter Wust, il dato imprescindibile dell’esistenza umana: ciò che maggiormente qualifica la condizione creaturale dell’uomo, la sua fragilità e la sua estrema, sofferta inquietudine; ma, nello stesso tempo — e a differenza dei pensatori atei e materialisti, che nell’insicurezza vedono soltanto una maledizione da deprecare e, se possibile, da combattere o esorcizzare — egli recepisce in essa il fondamento della speranza cristiana, via maestra al superamento della insicurezza, non mediante le deboli strategie puramente umane, ma per mezzo dell’abbandono fiducioso alla Provvidenza divina, unica forza suscettibile di trasformare la finitezza umana, con il suo seguito d’impotenza, sconfitte e sofferenze, in una condizione di pienezza e di autentica pace interiore, liberandola dagli spettri minacciosi del timore, della brama e della disperazione.
L’uomo, infatti, per Wust, non può liberarsi da se stesso, né rasserenarsi con le proprie forze: la sua insicurezza, pertanto, non è tanto il marchio di una inferiorità, di un disagio, di una mancanza, ma è anche, e soprattutto, lo strumento possente sul quale fare leva per dischiudere, nella prospettiva del finito, quella dell’eterno; nella condizione del limitato, quella dell’infinito; nella realtà del contingente, quella dell’assoluto. Se non vi fosse l’insicurezza, l’uomo non sarebbe neanche in grado di percepire quel che realmente gli manca, e s’illuderebbe, forse – ma per restare poi, ogni volta, atrocemente deluso — di avere i mezzi bastanti per integrare da se stesso le proprie deficienze e per candidarsi ad essere la guida e la meta del proprio andare, scordandosi così d’essere un pellegrino, un viandante affamato e assetato, bisognoso di tutto, ma recante in cuore l’ardente e luminosa nostalgia dell’Essere.
La teologia di Peter Wust, che si richiama alla tradizione aristotelica e tomista, presuppone la nozione, nell’uomo, di un Dio che si rivela e si nasconde alternativamente: che sparge intorno a sé gli indizi della Sua presenza, ma non delle prove decisive, e che poi sembra volersi sottrarre, proprio per non "costringere" l’uomo a credere in Lui, ma per invitare a cercarlo, da essere libero e non condizionato dalla Sua presenza schiacciante. D’altra parte, la sua filosofia, tutt’altro che irrazionalistica, è una filosofia della speranza, basata su un concetto oggi alquanto negletto, per non dire disprezzato: il bisogno di consolazione che è proprio dell’uomo, e che pure l’uomo moderno sembra voler rifiutare, quasi fosse sospinto da una forza, questa sì, profondamente irrazionale e distruttiva, vorremmo dire quasi diabolica.
L’uomo contemporaneo non vuole essere consolato e non vuole sentir parlare di speranza; vorrebbe certezze, accampare "diritti", pretendere una sicurezza che non compete al suo statuto ontologico di creatura. Insomma, reclama quel che non gli spetta, serra i pugni davanti a ciò che lo limita, dichiara inutile ciò che non capisce; e poi, inevitabilmente, si scoraggia, si abbatte e si dispera a causa della propria impotenza davanti alle cose, nonché davanti allo scacco supremo e definitivo della morte. In altre parole, rifiuta d’essere una creatura, vorrebbe farsi il creatore di se stesso e, possibilmente, anche della realtà circostante (vedi manipolazione genetica, manipolazione dell’ambiente, manipolazione della psiche). Quel che lo tormenta, in ultima analisi, è sempre la vecchia superbia che spinse già Adamo ed Eva a disobbedire ed a ribellarsi all’ordine amorevole e provvidenziale creato da Dio.
Ecco perché ci sembra che un pensatore come Peter Wust dovrebbe essere riscoperto, anzitutto nella sua patria — la Germania – e poi nel resto d’Europa e del mondo; ecco perché ci piacerebbe che le sue opere venissero tradotte, lette e discusse, a cominciare dalle scuole e dalle università, dove, in omaggio al conformismo culturale imperante, si dedica tanto tempo a leggere e commentare dei filosofi, che poi filosofi non sono, come Freud e Sartre, ma che sono, in compenso, autentici — ed esiziali – maestri della superbia, del disincanto, della tetraggine e del rancore…
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