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Quando i terroristi della banda Stern assassinarono il conte Folke Bernadotte

Così ha ricostruito il mortale attentato Mario Pancera nel’articolo «Gerusalemme ora X» (in: A.A. V.V., «I grandi enigmi del XX secolo. Gli attentatori», Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1973, pp. 110-14):

«Da quando era giunto come mediatore in Palestina, Bernadotte aveva ricevuto parecchi avvertimenti, a voce e per lettera. Uno di essi gli era stato fatto addirittura da Nadèl, uno dei leader della cospirazione, il 10 agosto a Gerusalemme. Arrivato per una conferenza stampa, Bernadotte si era trovato dinanzi all’ingresso dell’edificio due jeep con alcuni giovani che innalzavano minacciosi cartelli: "Stoccolma è tua, Gerusalemme è nostra" e "Il tuo lavoro è inutile, noi resteremo qui". I cartelli apparivano firmati dai "combattenti per la libertà di Israele", ma tutti sapevano che sotto quella formula si nascondevano quelli della banda Stern.

Quattro giorni dopo, il triumvirato della Stern si riunì d’urgenza e, dopo tre ore di discussione, decise di agire prima del fatidico 20 settembre.

A Gerusalemme regnava un’atmosfera irreale. I bollettini annunciavano cielo sereno su tutta l’area del Mediterraneo. Di quando in quando si sentivano colpi di mitra, alla periferia. Il terrore serpeggiava anche nella Città vecchia, dove si temeva qualche atto terroristico ai danni della comunità araba. Gli uomini dell’Haganah vigilavano sulle loro camionette Si sapeva che sarebbe arrivato Bernadotte. Non era sicura l’ora: chi diceva il mattino, chi il pomeriggio. Chi alle 16, chi alle 17. Il conte avrebbe dovuto recarsi in località Rehavia, passando dalla strada di Abu Tor oppure da quella, più lunga, ma forse più sicura, di Katamòn.

In una casa riparata da sguardi indiscreti alcuni uomini si preparavano all’incontro fatale. Quattro di essi cominciarono a indossare le divise kaki dei soldati dell’Haganah. Per la strada nessuno avrebbe potuto distinguere le loro uniformi da quelle dell’esercito regolare ebraico. Con una jeep, i quattro avrebbero dovuto recarsi incontro al convoglio di automobili su cui si trovava Bernadotte e freddare a colpi di mitra l’odiato mediatore. Il gruppetto eseguiva alla lettera gli ordini ricevuti da Nadèl, in quel momento impegnato a procurarsi un alibi.

Insieme con i quattro, un quinto, un certo Goel, il "liberatore", dotato di eccezionale forza fisica e già distintosi in precedenti azioni antibritanniche, si preparava per una missione individuale: vestito con l’uniforme di un ufficiale canadese, avrebbe dovuto uccidere Bernadotte a rivoltellate nella sede del governatore di Gerusalemme. L’intervento di Goel faceva parte della seconda parte del piano: se Bernadotte fosse passato per la strada di Katamòn sarebbe stato ucciso dai quattro in jeep, se fosse passato per Abu Tor il suo incontro mortale l’avrebbe avuto con Goel. Quest’ultimo sapeva che se fosse toccato a lui, ben difficilmente sarebbe potuto fuggire dopo l’assassinio. Quelle potevano essere, quindi, anche le sue ultime ore di vita.

Mille pensieri si muovevano nella testa del colonnello Sérot, che sedeva sul DC-3 non lontano da Bernadotte. Non è chiara la sua figura. Secondo Nadèl, l’ufficiale apparteneva al controspionaggio francese, ma lavorava di nascosto anche per l’Intelligence service. Era, insomma, un doppiogiochista. Gli uomini del sevizio segreto de gruppo Stern lo avevano saputo e avevano cominciato a ricattarlo. Fu lui a tradire Bernadotte, rivelando a quelli della Stern il percorso che avrebbe seguito a Gerusalemme il piccolo convoglio di automobili dell’ONU?

Un’ora dopo l’arrivo di Bernadotte a Gerusalemme, quando tutti ormai avevano tirato un sospiro di sollievo, accadde un episodio che avrebbe dovuto far capire che quello era realmente il giorno "X". Bernadotte non sapeva esattamente con chi aveva a che fare. Pareva chiaro che fossero quelli della Stern, ma c’era chi li definiva di sinistra, chi proclamava che fossero di destra: chi al servizio dell’Unione Sovietica e del comunismo internazionale, chi al servizio del nazionalismo più intransigente. Gravi problemi superavano di gran lunga quello di una Gerusalemme unita sotto l’autorità israeliana: problemi di petrolio, di oleodotti, di egemonia militare nel bacino mediterraneo e nel Medio Oriente.

Davanti al Quartier generale della Legione araba fu sparati un colpo di arma da fuoco: un proiettile colpì la ruota posteriore sinistra dell’automobile su cui viaggiava il mediatore dell’ONU. La vettura si fermò. Bernadotte discese e constatò il danno di persona. Gli si fecero attorno parecchi ufficiali arabi. "Non mi importa se mi sparano dei soldati, ma se lo fanno degli irregolari è diverso", commentò.

In un punto isolato del quartiere di Katamòn tutto era predisposto per l’imboscata. Alcuni giorni prima gli uomini della Stern avevano scoperto il luogo ideale per l’attentato e vi avevano trasportato delle botti vuote, bucate, all’apparenza inutili e inutilizzabili. Sembravano residui ai margini della strada. Al momento buono, invece, sarebbero state riempite di sassi e poste di traverso sulla carreggiata a simulare un post di blocco. Il convoglio degli osservatori dell’ONU avrebbe dovuto fermarsi. Bernadotte sarebbe stato spacciato. L’esecuzione del mediatore avrebbe dovuto svolgersi nel giro di pochi minuti, poiché i soldati dell’esercito regolare, quelli veri, pattugliavano la città con i loro automezzi e potevano scoprire l’inganno.

Alle 16, il corteo dell’ONU, tre automobili, avrebbe dovuto muoversi per raggiungere il palazzo del’Ymca, l’associazione giovanile cristiana, dove abitava il governatore di Gerusalemme. La tensione era all’apice. Alle 16,05 Bernadotte avvertì che, contro ogni attesa, avrebbe preferito percorrere la strada di Katamòn. Alle 16,10 le tre vetture partirono. Sulla prima, una De Soto, si trovavano il maggiore belga Massart e il capitano israeliano Hillmann, dietro ai quali erano seduti il colonnello svedese Flach, il maggiore svedese De Geere della Croce Rossa, e Barbara vessel, la segretaria particolare di Bernadotte.

La De Soto era seguita da un’autoambulanza. Da ultimo veniva la Chrysler color crema di Bernadotte. Sui sedili anteriori, il colonnello Frank Begley, ufficiale di polizia dell’ONU, e il comandante Cox, entrambi americani; sui sedili posteriori, a sinistra il generale Lundström, al cento il colonnello Sérot, a destra Bernadotte. Prima della partenza Sérot era a sinistra e Lundström al centro. Ma quest’ultimo aveva chiesto al collega francese di cedergli il posto accanto al finestrino e Sérot aveva accondisceso.

Erano le 16,08 quando nel rifugio del commando Stern arrivò la telefonata. Un nome solo: "Katamòn". La parola convenuta fece scattare il piano principale. Goel disse: "Càspita", e si apprestò a togliersi la divisa canadese. Gli altri quattro invece salirono sulla jeep che li attendeva in cortile. Truccata con i colori dell’Haganah, l’automobile si avviò sula strada di Katamòn.

Nello stesso istante, per vie che solo i terroristi conoscevano, gli uomini che si trovavano nel punto stabilito per l’agguato furono informati e prepararono i barili. Dovevano essere guardinghi e rapidissimi: innalzare lo sbarramento solo pochi istanti prima del passaggio delle vetture dell’ONU, nel timore che sopravvenissero all’improvviso i soldati dell’esercito regolare.

La signorina Vessel cercava di mettersi il più comoda possibile sui larghi cuscini della De Soto. La strada era quella che era. Alle 17,08 l’autista vide i barili sulla strada e la jeep con i soldati che facevano segno di fermarsi: "Un posto di blocco", disse. Massart e Hillmann non parvero preoccupati. I tre sui sedili posteriori cercarono di abbassare la testa per vedere meglio attraverso il vetro anteriore. La De Soto rallentò. Si fermò. Si fermò anche l’autoambulanza. La terza vettura, quella di Bernadotte, fece qualche metro in più, accostandosi al’autoambulanza.

Erano le 17,09 del 17 settembre 1948. Tre dei quattro finti soldato regolari saltarono dalla jeep; il quarto rimase al volante. Il motore era aceso. Il capitano israeliano Hillman, credendoli dei suoi, si affacciò Al finestrino e gridò: "Bene, ragazzi. Siamo del seguito del conte Bernadotte. Lasciateci passare". I tre vennero avanti ugualmente, come se non avessero capito. Ognuno di essi si dirigeva verso una vettura.

Il primo ad avere un sospetto fu il colonnello Beglety., che cercò di uscire dalla Chrysler. Il falso soldato che correva davanti a tutti individuò subito il conte Bernadotte. Lo vide oltre Lundstörm e Sérot. Infilò il suo Stern nel finestrino e innaffiò l’interno con una scarica. Sérot che si era sporto, forse avendo capito che stava accadendo un massacro rimase crivellato da diciassette colpi. Il falso soldato capì d’aver sbagliato bersaglio e si precipitò dall’altra parte della Chrysler. La nuova raffica prese in pieno Bernadotte. Otto colpi calibro 9. Il conte si accasciò. Begley si lanciò contro gli aggressori, ma fu respinto e rimase leggermente ferito al viso. Lundström si chinò sul corpo del conte, mentre il sangue sprizzava su abiti, sedili, persone: "Folke, Folke, sei ferito?".

Alle 17,10 minuti e 12 secondi tutto era finito. Alle 17,20 il mediatore di pace in Palestina era morto.»

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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