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Vocazione e Provvidenza nelle prediche di Antionio De Cassan, vecchio parroco bellunese

C’è stato un tempo, una lunga stagione, in cui la figura del parroco, specialmente nei paesi e nei quartieri cittadini non ancora del tutto stravolti dai processi della modernizzazione, rappresentava un punto di riferimento saldo e certo, come uno scoglio in mezzo ai flutti, uno scoglio con un faro costruito sulla cima: e non solo dal punto di vista strettamente religioso, ma più generalmente dal punto di vista spirituale, intellettuale ed umano.

Agli occhi di molte persone, e anche di molti cattolici, il Concilio Vaticano II ha rappresentato una cesura netta e irrinunciabile: prima c’era una Chiesa antiquata, bigotta, arroccata nella cittadella del passato, sorda alle esigenze del mondo contemporaneo; poi è nata una Chiesa moderna, dinamica, ecumenica, coraggiosamente proiettata verso le "magnifiche sorti e progressive". È una stortura ideologica mutuata dalla filosofia del progresso di matrice illuminista: prima c’era il male (il Medioevo), poi è incominciato il regno del Bene, mediante l’uso libero e spregiudicato della ragione, che ha condotto gli uomini fuori dal loro colpevole stato di minorità.

Ebbene, si tratta di un mito. Con tutto il rispetto per le buone intenzioni dei padri conciliari, non è affatto vero che tutto il "cattivo", o quantomeno il "superato", fosse prima del Vaticano II e tutto il "buono" sia incominciato allora. Quando si cambiano i pannolini sporchi, bisogna fare attenzione a non gettare anche il bambino: bisogna avere la saggezza e la lungimiranza per intuire che certe pretese di rinnovamento non sono altro che mode passeggere, mentre la tradizione resta. Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, pareva che il Verbo marxista avrebbe rigenerato festosamente l’umanità, e che al cristianesimo non restasse altro fa fare che allearsi con esso, imparare da esso, fondersi, quasi, con esso: ve li ricordate, i cattocomunismi, i preti "rossi", i teologi della "liberazione", più vicini a Camilo Torres che a Gesù Cristo? E che fine hanno fatto? La storia ha mostrato che avevano torto: torto marcio; cosa di cui, peraltro, non hanno mai fatto ammenda. Sono rimasti annidati nella Chiesa, carichi di frustrazione e di rancore, gravati dalla loro cattiva coscienza: le loro profezie si sono rivelate fallaci e menzognere, ma essi, senza farsi un’ombra di autocritica, continuano ad occupare le vecchie posizioni, appena un po’ dissimulandole, forse in attesa che passi qualche altro treno "vincente" e che la ruota della storia venga a dar loro, sia pure tardivamente, ragione.

Stanno spiando il Conclave apertosi dopo le dimissioni di Benedetto XVI; raccolgono le forze, si consultano, confabulano, si agitano; il movimento "Noi siamo Chiesa" (e si noti quel "noi", privo di alcuna umiltà: fosse almeno un "anche noi"), forte specialmente in Austria e in Germania, non ha neanche atteso l’avvenuta abdicazione di Ratzinger per farsi avanti a reclamare il sacerdozio femminile, il riconoscimento del matrimonio per i gay, un tavolo di discussione per la morale sessuale, per l’aborto, per l’eutanasia. Tutti questi cattolici "progressisti", che ritengono di avere la verità in tasca, fremono e scalpitano in attesa della rivincita: sono pronti ad allearsi con chiunque, purché sia contro i loro fratelli più vicini alla tradizione. Sono pronti a gettare ponti d’oro verso chiunque, a sinistra, sia disposto ad accettarli come interlocutori, ma ieri mettevano in croce il Papa allorché tolse la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani e non aprirono bocca quando alcuni studenti e professori impedirono a lui di parlare nell’Università La Sapienza. Togliere la scomunica a dei cattolici era, per loro, quasi un crimine; impedire al Papa di tenere una lezione nell’Università di Roma (fondata, a suo tempo, proprio dai Papi), appariva una cosa da nulla, che non meritava nemmeno il disturbo di prendere le difese del Pontefice.

Ma com’era questa benedetta Chiesa pre-conciliare? Era tutta buia e ottusa, tutta gretta e reazionaria, come oggi questi "cattolici di sinistra" vorrebbero farci credere? Chi l’ha conosciuta dall’interno, e sia pure da bambino, sovente non ne ha un ricordo così tetro; impressione che viene confermata da un esame spassionato, non sul filo dei ricordi ma alla luce del raziocinio di persone adulte, esaminando i documenti pontifici pre-conciliari (per esempio, quelli di Pio XII) e anche studiando le cronache delle umili parrocchie locali, raccogliendo testimonianze fra le persone più anziane, andandosi a leggere le omelie — quando esistono — pronunciate durante la Messa dai preti di campagna e di provincia: sane, schiette, piene di buon senso e, soprattutto, scaturenti da una visione complessiva dell’uomo e del mondo costantemente illuminata dalla luce dell’Invisibile: cosa, questa, che ormai sta divenendo sempre più rara.

Ci è capitato fra mano un documento di questo genere: una piccola pubblicazione contenente alcune prediche di un vecchio sacerdote che non abbiamo conosciuto di persona (e che, tutt’al più, avremmo potuto conoscere fuggevolmente, da bambini): monsignor Antonio De Cassan. Nato a Laste, nel comune di Rocca Pietore, il 5 giugno 1883, divenne sacerdote nel 1906; esercitò il ministero pastorale a Pieve di Zoldo, a Falcade, a Sedico e, dal 1919, a Belluno, nella parrocchia di Santo Stefano — una chiesa medievale che è anche il più bel gioiello architettonico della città. Morì l’11 marzo 1962. Fu il classico "pastor bonus": semplice di modi, affabile, gentile con tutti, chiaro nel parlare, sensibile ai problemi della comunità.

Egli fu prete, dunque, nel corso di una lunga stagione: da giovane vide l’avanzata del modernismo e la ferma, decisa reazione di Pio X; da vecchio, gli fu risparmiato il trauma di vedere molte di quelle posizioni, di quegli atteggiamenti "modernisti", rientrare nella Chiesa dalla porta principale, fra squilli di tromba e rullo di tamburi, grazie ad alcuni teologi del Vaticano II e, ancor più, alla interpretazione forzata e unilaterale che delle loro decisioni venne data poi e divulgata dai mezzi d’informazione di massa. Gli fu anche risparmiata l’amarezza di vedere l’improvvisa "rivolta" fiammeggiare nei seminari dell’Italia, del Veneto e della sua diocesi, a ridosso del ’68; l’esodo di decine di seminaristi verso il "mondo"; la violenta, improvvisa contestazione dei superiori, della disciplina, dei metodi d’insegnamento e, in certi casi, degli stessi contenuti teologici — rivolta e contestazione che furono parallele, e contemporanee, a quelle che serpeggiavano nelle università statali e nei licei pubblici.

Abbiano sfogliato quel libretto e letto quelle omelie che, sia pure sotto forma di appunti, conservano il sapore di quando furono pronunciate, nella bella chiesa medievale, davanti a un uditorio attento e partecipe: un uditorio di persone sobrie e lavoratrici, in gran parte di modesta condizione economica, ma dignitose nel portamento e nelle abitudini di vita; un uditorio di famiglie ancora cristiane non solo di nome, ma di fatto, che la domenica non andavano a fare la spesa nei centri commerciali, ma indossavano il vestito buono e si recavamo in chiesa ad ascoltare la parola di Dio, indi si raccoglievano nell’intimità domestica o scambiavano visite con i parenti, i genitori, i nonni; e che pretendevano dai loro figli, a casa e a scuola, la stessa serietà, la stessa compostezza, la stessa obbedienza e lo stesso senso della misura che esse avevano ricevuto, a loro volta, dalle generazioni precedenti.

Monsignor De Cassan non vide nemmeno il disastro del Vajont, il 9 ottobre del 1963, che — per il Cadore e il Bellunese – segnò veramente la fine di un mondo, il vecchio mondo pre-moderno, rurale e religioso, e l’avvento di un mondo nuovo, fondato su presupposti radicalmente diversi (anche dal punto di vista esteriore e architettonico: andare a Longarone e vedere, per credere, confrontando la cittadina con le fotografie di prima dell’alluvione); con una differente morale, una differente estetica, una differente scala di valori, un differente senso del tempo; e proiettato velocemente verso altri obiettivi, verso altre mete. Morì un anno e mezzo prima del disastro che avrebbe provocato circa 2.000 morti: e, francamente, stentiamo a immaginare come si sarebbe orientato, come si sarebbe adattato nel mondo del "dopo".

Fra quelle omelie ne abbiamo scelta una, composta per la terza domenica di Avvento e preceduta dalla citazione evangelica di Giovanni, cap. 1: "Tu chi sei?", che parla della vocazione e della Provvidenza, ossia – come le altre, del resto — di cose attinenti alla sfera dell’eterno, ma anche del contingente; e questo doppio registro, la riflessione sull’Assoluto e il concreto orientamento esistenziale nelle situazioni quotidiane, ne costituisce, a nostro avviso, il pregio più marcato. Eccola (da: «In memoria di Mons. Antonio De Cassan», Belluno, Tipografia Vescovile, 1962, pp. 75-80):

«Dio non ci considera solo in massa, ma da soli, a tu per tu, come il dì del giudizio.

Molte altre creature sono ancora nel nulla, io no. Egli mi ha creato quale io sono, differente da tutti gli altri e mi fece nascere nel tal paese od ambiente e nel tal anno di grazia. Molti morirono da bambini, io no; molti sono infermicci, io no. Io devo occupare un posto speciale e ho certo un lavoro speciale da compiere nei disegni di Dio. Io devo amare Dio, così vicino a me, nel posto speciale che occupo, col lavoro speciale che devio fare. Ora quel è questo posto? Qual è questo lavoro? Quali sono le mie qualità, doti, inclinazioni? Quali i mezzi?

Ogni uomo ha la sua vocazione distinta, che può assomigliare a quella di un altro, ma che non è mai la stessa. Non vi è mai uomo è donna che sia un duplicato sulla terra, dal principio alla fine del mondo. Nessuno ci può sostituire completamente. Deriva da ciò: 1) che ognuno è chiamato ad uno stato particolare. Scegliere bene il proprio posto. Compiere i doveri del proprio posto. 2) Che ognuno, nel suo stato particolare, deve raggiungere un fine che rientra nei fini della divina Provvidenza e che è il risultato del compimento dei nostri doveri quotidiani.

LA PROPRIA STRADA: POSTO GENERALE. 1) Scelta dello stato. Tre vie: vocazione ecclesiastica: sacerdote, missionario, suora; matrimonio, famiglia, educazione dei figli; opere di carità spirituali e materiali nel mondo. Studio e decisione che riguarda i giovani, gli adolescenti, i genitori e gli educatori. 2) Scelta della professione o mestiere. Studio e decisione. Esame sulle doti, qualità, inclinazioni. Perciò, in via ordinaria, non si può dire che un ragazzo pieno di rispetto umano abbia vocazione ecclesiastica; che una giovanetta, che ha paura del freddo, del caldo, schizzinosa, abbia vocazione missionaria; che un giovane malaticcio, o dedito al bere, abbia vocazione pel matrimonio; né una giovane senza virtù casalinghe. Una giovane sana e amante della casa è chiamata al matrimonio; mentre una giovane paziente coi ragazzi, gli ammalati, ha vocazione per le opere di educazione e carità.

IL PROPRIO RAMO; POSTO PARTICOLARE. Certi ragazzi, senza ingegno, non hanno vocazione per gli studi. Creano gli spostati. Sarebbero divenuti ottimi artigiani o meccanici. Meglio primo in un mestiere che ultimo in un impiego. Leopardi cercò un impiego e fu nominato deputato; e Dante s’era iscritto alla corporazione dei farmacisti! Che povero impiegato e che povero farmacista sarebbero riusciti! Nel 1723 un prete veneziano si trovava in villeggiatura a Caviola. Vide l’armadio di sagrestia. — Chi l’ha fatto? — Un falegname di 19 anni. — Chiamatelo. — Vuoi venire a Venezia? — Due anni dopo scolpiva le sibille che potete vedere nella chiesa degli Scalzi. Diceva benedetto XIV: ci vorrebbe un ministero per scoprire gli uomini adatti. Un uomo, al suo vero posto, con mediocri qualità riuscirà magnificamente; se sbaglia vocazione, con qualità spiccate, riuscirà male. Che apostolo magnifico fu S. Paolo! Che danno per l’umanità se fosse rimasto un semplice conciapelli! Che grande papa non fu Gregorio VII? Che peccato se fosse rimasto un semplice monaco!

I DOVERI DEL POSTO. Il profeta Giona non aveva sbagliato la sua vocazione; ma un giorno, mandato dal Signore a predicare la penitenza a Ninive, si rifiutò. Ogni sorta di guai, dopo questo rifiuto, piombarono su di lui: naufragio, divorato dal cetaceo; né le cose si misero a posto finché egli non tornò al dovere della sua missione. Rientrato nell’ubbidienza, fu salvo lui e salvò Ninive dalla distruzione. Non solo dobbiamo scegliere la via della nostra vocazione, ma in cammino per essa dobbiamo raggiungere i fini della Provvidenza. Voi siete madre di famiglia; era la vostra vocazione. Benissimo. La Provvidenza aspetta da voi l’educazione spirituale e materiale di tutti i vostri figli. Se siete attiva riuscirete; se sarete pigra e negligente, non riuscirete. Voi siete padre di famiglia, era la vostra vocazione. Siete dotato dei mezzi e qualità. Voi dovete formare il carattere di vostri figli. Nessuno vi può sostituire. Diserterete il campo per lasciarlo alla moglie? I guai piomberanno su voi, come Giona, e non vi resterà che ripetere: "mea culpa, mea culpa".

CONOSCERE NOI STESSI. Scegliere il nostro stato, la nostra vocazione. Essere fedeli, attivi, e non negligenti, solleciti e non pigri nel compimento dei doveri annessi alla nostra missione. La missione di Precursore a S. Giovanni chiedeva: spirito di sacrificio, egli lo diede; solitudine e austerità di vita, la diede; carattere, lo diede; coraggio fino al martirio, egli lo diede. Anche la nostra missione ci chiede spirito di sacrificio: lo daremo? Attività e non pigrizia: le daremo? Un carattere: lo daremo?»

La predica si conclude così, con queste domande rivolte all’uditorio dei fedeli: ciascuno di loro viene interrogato nel profondo della propria coscienza.

Che lucidità, che coerenza, che perfetta armonia di pensiero in questa semplice predica: non vi si troveranno squisitezze dottrinali e tanto meno fiorellini retorici; vi si troverà, anzi, qualche semplificazione forse un po’ eccessiva (ma bisogna tener conto che, in questi ultimi sessant’anni, il mondo è stato rovesciato come un guanto, con tutte le sue certezze, convinzioni ed abitudini): però vi si trovano schiettezza, solidità, chiarezza concettuale, fede in Dio. Quanto basta per guidare un’anima lungo i sentieri tortuosi, e a volte assai faticosi, della vita.

Pochi concetti, ma essenziali: non si viene a mondo per caso, ma per fare qualcosa; questo qualcosa è il senso della nostra vita; per trovarlo, bisogna seguire le proprie inclinazioni, ma anche ascoltare la voce del Maestro interiore; e, una volta imboccata la strada, bisogna andare avanti con fermezza, con senso del dovere, con spirito di sacrificio — e affidarsi alla Grazia. Siamo tutti strumenti della Provvidenza, che ne siamo consapevoli o no: possiamo solo scegliere se essere strumenti fedeli e armoniosi oppure strumenti infedeli e stonati.

Oggi abbiamo quasi tutti due o tre automobili nel garage, tre o quattro televisori in casa, cinque o sei telefonini in famiglia: ma abbiano perduto quella chiarezza di pensiero, quella purezza di sentimento, quella onestà e quella coerenza di vita.

Quello che abbiamo vissuto nelle ultime due generazioni è stato davvero un progresso?

È, se lo è stato, come mai siamo divenuti così incerti, così confusi, così tormentati, così bisognosi di cercare chissà dove quella sicurezza, quella fiducia, quella serenità e quell’amore per la vita che sembrano averci abbandonati?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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