
A cosa servono le nostre sventure?
6 Giugno 2011
Pornografia della vita quotidiana
8 Giugno 2011SOMMARIO
INTRODUZIONE.
LA NATURA DEL POTERE.
IL CONCETTO TEOLOGICO DEL POTERE.
LO SVILUPPO DEL POTERE.
IL NUOVO VOLTO DELL’UOMO E DEL MONDO.
POSSIBILITÀ DELL’AZIONE.
<!-- -->
- INTRODUZIONE.
Della vasta opera filosofica e teologica di Romano Guardini (Verona, 1885- Monaco di Baviera, 1968) vogliamo fermare la nostra attenzione, in questa sede, su di un suo saggio di non grande mole ma anche, come sempre, di altissimo contenuto speculativo e morale, apparso a Würzburg nel 1951: Die Macht. Versucht einer Wegweisung. L’opera è stata tradotta in italiano da Marisetta Paoletto Valier e pubblicata dall’Editrice Morcelliana di Brescia, nel 1954, con il titolo Il potere. Tentativo di un orientamento. Scritta a pochi anni di distanza dalla tragedia della seconda guerra mondiale e dalle immense distruzioni, morali e materiali, da essa provocata in Germania, oltre che nel resto d’Europa, essa risente fortemente di quel particolare momento storico, che strappava a storici e filosofi come Friedrich Meinecke un angosciato grido di dolore sul destino della civiltà e della patria tedesca. D’altra parte, come tutte le opere di Guardini, il suo valore va molto al di là delle contingenze storiche e si delinea come una riflessione potente e meta-storica di portata universale, che ci interroga su uno dei grandi problemi del pensiero politico. Che cos’è il potere, nell’età moderna? Infatti, né l’antichità né il mondo antico avevano mostrato una curiosità scientifica e una volontà di dominio sulla natura paragonabili a quanto è accaduto nell’età moderna. Con l’indagine, la programmazione, l’efficienza tecnica, in un processo accanito e – si direbbe – quasi frenetico, l’uomo moderno sembra essersi impadronito a tal punto delle cose, da poter esercitare nei loro confronti un potere quasi illimitato e perciò, almeno potenzialmente, tirannico.
Tuttavia, prima di iniziare la nostra esposizione dell’opera di Romano Guardini sul potere e di svolgere alcune brevi riflessioni su di essa, ci sembra utile ricordare per sommi capi la figura e l’opera di questo notevole pensatore tedesco di origine italiana, cui forse non ha giovato – nel conformismo della cultura oggi dominante – l’essere stato un sacerdote e il non essersi allineato alle mode più largamente diffuse nella cultura europea del secondo dopoguerra, conservando sempre un saldo punto di riferimento, nei problemi e nei turbamenti dell’uomo contemporaneo, verso la trascendenza.
Osserva lo scrittore tedesco Rüdiger Safranski nel suo celebre saggio Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica (tr. it. Milano, Longanesi & C., 1996, pp. 433-434):
"Nella Germania dei primi anni del dopoguerra gli argomenti dell’umanismo cristiano di un Reinhold Schneider o di un Romano Guardini sono analoghi a quelli di Gabriel Marcel.
"Come Reinhold Schneider, anche Romano Guardini voleva scorgere la luce nel tramonto. Guardini, che nel 1946 fu considerato per un certo periodo come possibile successore alla cattedra di Heidegger, pubblicò nel 1950 un libro molto letto a quel tempo, La fine della modernità, che si basava sulle sue lezioni tenute a Tubinga nell’inverno 1947-48.
"Il mondo moderno, sostiene Guardini, prende le mosse da una concezione della natura come potenza protettrice, dalla soggettività umana come personalità autonoma e dalla cultura come un ambito intermedio dotato di leggi proprie. Ogni cosa ha ricevuto il proprio senso dalla natura, dalla cultura e dalla soggettività. Con la fine del mondo moderno, di cui siamo testimoni, queste idee affondano. La natura perde la sua forza protettrice e diviene estranea e pericolosa. La persona viene scalzata dall’uomo massificato, e nel malessere culturale muore la vecchia devozione per la cultura. I sistemi totalitari sono insieme espressione e risposta a questa crisi; la quale dischiude però a sua volta l’opportunità di un nuovo inizio. Evidentemente l’uomo deve prima aver perduto le ricchezze naturali e culturali perché accada che in questa ‘povertà’ torni a scoprire se stesso come persona ‘nuda’ davanti a Dio. Forse le ‘nebbie della secolarizzazione’ si diradano, e incomincia un giorno nuovo della storia."
Più in generale, la filosofia di Romano Guardini è essenzialmente una "antropologia polare", ossia una antropologia basata sulla dialettica fra le polarità opposte e complementari dell’immanenza e della trascendenza, in cui il fenomeno "vita" cerca faticosamente una mediazione e il raggiungimento di un proprio equilibrio. Una sintesi efficace del pensiero del filosofo italo-tedesco è stato tracciato da M. Borghesi nella recentissima Enciclopedia Filosofica Bompiani (Milano, Bompiani, 2006, vol, 2, pp. 5.049-5.502), completato da una essenziale ma accurata nota bibliografica:
"La riflessione filosofica di Guardini ha il suo centro nella teoria dell’opposizione polare che egli tematizza nell’opera di antropologia filosofica Der Gegensatz. Qui il ‘concreto vivente’, che è l’uomo, risulta modulato da una dialettica ‘polare’, da un movimento di opposti polarmente orientati, la cui tensione, non risolubile, è il segreto della vita. Nel loro insieme essi risultano divisi in opposti categoriali e trascendentali, i quali descrivono la forma dell’opposizione prescindendo dai contenuti. Gli opposti categoriali sono distinti in intraempirici, nella misura in cui sono oggetto di esperienza, e transempirici, se posti in connessione con un centro interiore che si sottrae a tale verifica. Ne emerge un ‘sistema’ degli opposti dato dalle coppie intraempiriche Akt-Bau, Fülle-Form, Einzelheit-Ganzheit, transempiriche Produktion-Disposition, Ursprünglichkeit-Regel, Immanenz-Transzendenz, trascendentali Verwandschaft-Besonderung, Einheit-Vielheit. La ‘vita’, come risulta dal quadro, è contrassegnata da una tensione tra atto e struttura, singolarità e totalità, immanenza e trascendenza. Entrambi i poli sono e devono essere presenti. «Ognuno ei due modi dell’autoesperienza è dominato da una propria interna logica che spinge verso la pura espansione di sé, ma lungo questa stessa strada conduce verso l’assurdo, verso l’eliminazione della vita» (tr. it. L’opposizione polare. Saggio per una teoria del concreto vivente, in Scttitti filosofici, ed. a cura di G. Sommavilla, Milano, 1964, 2 voll., vol. 1, p. 158). Nella loro assolutizzazione ambedue i momenti opposti pervengono a una crisi: «quello dinamico alla crisi di un disordinato dinamismo o relativismo; quello statico alla crisi del duro e raggelante conservatorismo. Tali crisi vengono superate solo in quanto all’interno dei singoli sensi direttivi viene fatto affiorare, liberare ed espandere il senso polarmente opposto: il fluire nella durata; il perdurare nel mutamento; lo stato nell’atto; l’agire nella fermezza» (ibid.). Per Guardini nella realtà vivente dell’uomo «struttura e atto, durata e flusso, stato e mutamento stanno in tal modo l’uno all’altro che ognuno secondo il significato suo primo si stacca dall’altro, esclude l’altro, e urta tuttavia nell’assurdo se non riconosce in se stesso l’esistenza di quell’altro e non lo fa emergere; la realtà di questa vicendevole esclusione e inclusione è l’opposizione polare» (ibid.). Si tratta di un Ur-phänomen, di un rapporto originario per cui i due poli, diversamente dalla dialettica romantica, tendenzialmente monistica, non possono essere derivati l’uno dall’altro. «Le due parti ‘opposte’ sono essenzialmente autoconsistenti (eigenständig), ed esiste ra loro un reale confine qualitativo. Tuttavia entrambe le parti sono date simultaneamente» (ibi, p. 159). Questa simultaneità rende avvertiti del rischio contenuto nei ‘valori limite’. Questi valori incarnano dei tipi ideali nella cui assolutezza brilla il naufragio della vita. Guardini ne indica tre. «Anzitutto i due valori limite ‘esterni’ ddella realizzazione ‘pura’ dell’opposto: la zona di naufragio del tipo puro. Poi il valore limite ‘interno’ dell’equilibrio fra gli opposti: la zona di naufragio dell’armonia perfetta» (ibi, p. 205).
"la vita umana non può attuarsi, a partire da se medesima, in una forma perfetta: «Nel compimento perfetto c’è la distruzione» (ibid.) Una vita compiuta è una vita divina ma ciò non è consentito all’uomo vivente. La vita «sarebbe autosufficiente; serrata in se stessa; non avrebbe più nessun rapporto d’opposizione verso l’esterno. Ma una situazione simile sarebbe impossibile. Una simile autosufficienza presuppone un assoluto essere. Quando la vita finita entrasse in una struttura, dove si presuppone un’intima autosufficienza, dovrebbe morire» (ibi, p. 216). Per Guardini «la vita finita non è mai pari: sempre vi prepondera una delle serie opposte. Ma questo per il nostro problema significa. Proprio per questo la vita finita guarda fuori verso l’aperto, tesa in un’aspettativa continua» (ibi, pp. 216-217). Il ‘sistema’ del concreto vivente non è un sistema chiuso. La persona umana, che si muove nello spazio esistenziale ‘Dentro-Sopra’, immanenza-trascendenza, è continuamente in sé[,* protesa verso una sintesi viva che la sospinge all’incontro con il mondo, gli altri uomini, Dio. Da qui l’unica, ma fondamentale indicazione etica contenuta in Der Gegensaz. Poiché l’esistenza umana non può acquietarsi in una situazione di equilibrio, non può privilegiare una struttura come forma stabile del suo essere, ne consegue che il suo ethos «più profondo sta nel mantenersi oscillante» (ibi, p. 271). Non le è consentita la rarefazione idealistica né un legame con la terra che rinneghi lo sguardo verso l’alto. «Essa non può diventare troppo leggera, deve avere sempre peso, altrimenti dilegua nell’indefinito. Non può diventare pesante, deve restare leggera, altrimenti cade nel profondo, si frantuma nei particolari. Non può aggredire l’immenso, ma deve autocontrollarsi, contenersi. Non può accontentarsi, fermarsi, ma deve incessantemente passar via. Tutto ciò significa: essa deve potr oscillare. Non per questo si rinnega il mirare sempre avanti (Streben). Anzi proprio nell’oscillazione si fonda la insaziata ricerca umana»(ibid.). Guardini presumeva, in tal modo, di aver elaborato un’antropologia filosofica, premessa di un sistema delle tipologie e delle Weltanschauungen, la cui dialettica di fondo, diversamente da quella hegeliana, rifiutava ogni possibile sintesi. Non per questo essa accadeva agli esiti tragicistici propri di taluni filoni della cultura europea della prima metà del Novecento. Al contrario la ‘polarità’ è dall’autore intesa come esigenza di ‘integralità’, di accordo tra le istanze che la cultura e la prassi tendono ad assolutizzare e a dividere: affezione e coscienza, libertà e ordine, individuo e comunità. Un’esigenza mai pienamente soddisfatta che, conformemente alla filosofia della religione di Scheler, tenuta ben presente, e alla lezione agostiniana, rimanda a un ‘oltre’ di natura religiosa, cristiana in particolare, su cui Guardini ha offerto riflessioni di grande interesse, da Welt un Person a Die Sinne und die religiöse Erkenntnis a Religion und Offenbarung."*
L’opera Die Macht è articolata in cinque capitoli: La natura del potere, Il concetto teologico del potere, Lo sviluppo del potere, il nuovo volto dell’uomo e del mondo; Possibilità dell’azione. Ora li prenderemo in esame uno per uno.
- LA NATURA DEL POTERE.
Innanzitutto, Guardini cerca di dare una definizione del concetto di ‘potere’. Una tempesta, un’epidemia, un leone possono colpire con violenza perché dotati di ‘energia’, ma non hanno ‘potere’, perché con questa parola noi intendiamo qualcosa dotato di iniziativa. «L’energia – egli osserva (p. 11) – diviene potere quando una coscienza la riconosce, quando un essere capace di decisione ne dispone, indirizzandola a determinate mète". Quando le energie della natura sono intese come ‘potenze’, allora si parla di divinità, e si può dire che esse esercitano un potere sull’uomo (cfr. i poemi omerici), ma ciò appartiene a una rappresentazione mitica, che non trova più riscontro nella società moderna. Anche la ‘potenza del cuore’ o la ‘potenza del sentimento’ sono espressioni figurate che traggono origine da questo sub-strato mitico che, per noi uomini d’oggi, ha ormai solo valore di espressione figurata.
Anche l’espressione ‘potere di un’idea’ o ‘potere di una norma morale’ è impropria, benché di uso comune. «Un’idea, una norma, in quanto tale non ha potere, ma validità, poiché riposa in una tranquilla oggettività (…). Il potere è la capacità di mettere in moto il reale. L’idea, per forza propria, non può farlo, lo può, e diviene allora potere, quando l’uomo l’assume nella concretezza della sua vita, quando la congiunge al suo istinto e al suo sentimento, alle tendenze del suo sviluppo, alle tensioni della sua situazione interiore, ai compiti delle sue azioni, agli orientamenti elle sue creazioni." (pp. 12-13).
Dunque, per Guardini il concetto di potere presuppone la compresenza di due elementi, entrambi necessari: una energia capace di modificare la realtà delle cose e una coscienza che ne sia consapevole, accompagnata da una volontà che stabilisca delle mete e organizzi la forza necessaria a conseguirle. «Tutto ciò presuppone lo spirito, quella realtà che è nell’uomo ed è capace di sottrarsi alla immediata complessità della natura e di disporre liberamente di essa» (p. 13). Quindi, il potere è un fenomeno specificamente umano.
Guardini, con molta acutezza, osserva che il potere ha non solo un proprio, specifico significato (che manca nell’energia delle forze naturali) e una propria specifica finalità, ma che l’iniziativa, la quale esercita il potere, dà significato a quel potere stesso. Cioè il potere non è solo un atto di energia che si fa autocosciente, ma è anche un atto intenzionale della coscienza che lo riveste del suo proprio significato.
Il potere è pura disponibilità. Le forze della natura sono a disposizione dell’uomo, che può utilizzarle per le sue mète – buone o cattive; solo l’essere umano è libero di agire, dunque lui solo può disporre di un autentico potere. «Non esiste dunque potere alcuno che abbia a priori senso e valore. Esso riceve il suo senso attraverso l’uomo che ne prende coscienza, che ne decide, che lo trasforma in azione, che ne assume cioè la responsabilità Non esiste potere senza correlativa responsabilità Esistono le energie irresponsabili della natura (…). Ma non esiste un irresponsabile potere dell’uomo." (pp. 14-15). Guardini ha appena definito l’oggetto della sua riflessioni, e già le implicazioni morali della sua definizione sono immense: nessun potere è neutro, nessun potere è privo di responsabilità. Proprio perché fatto specificamente umano, cioè inerente la sfera della libera volontà, il potere non può sussistere che a condizione di porre una precisa responsabilità da parte di colui o di coloro che lo esercitano. E si può ben immaginare, nella Germania del 1951, quale significato assumesse una enunciazione del genere, là dove potenti forze economiche e sociali concorrevano ad una rapida rimozione della tragedia, tra le macerie del 1945, aveva caratterizzato l’idea (tipica della cultura e della mentalità tedesca) che il potere costituito è norma e valore a sé stesso, e che va obbedito e servito indipendentemente dai suoi fini, dalla sua natura, dai mezzi di cui decide di servirsi.
Dietro ogni potere vi è sempre una responsabilità e vi sono sempre degli esseri umani, concretamente e singolarmente responsabili. Ciò è vero, egli dice, anche laddove il disordine (o il falso ordine costituito) sembrano cancellare l’idea di una responsabilità individuale. "Chi ha fatto questo?", è la domanda che sorge spontanea davanti ad ogni esercizio di potere. Talvolta la società cerca di eludere tale interrogativo, diluendo la responsabilità dell’io in Un "noi" collettivo che avrebbe lo scopo di equiparare l’esercizio del potere a una forza della natura; ma non è così. Qui il filosofo polemizza apertamente sia con le concezioni totalitarie dello Stato, sia con la concezione materialistica della storia (marxismo) secondo la quale la storia altro non è che un processo necessario: tentativi di accreditare una concezione anonima del potere, di naturalizzare i fatti sociali eliminando lo scomodo pungiglione della responsabilità individuale. Lo sforzo di scindere il potere dalla persona innesca, inevitabilmente, una tendenza degenerativa nel tessuto morale e sociale, che culmina nel fenomeno storico delle dittature ove il dittatore non agisce in condizioni di autentica responsabilità, bensì come esecutore di una volontà collettiva (e il riferimento a Hitler o a Stalin è chiarissimo). Come dire troppo comodo scaricare ogni colpa su singoli individui potenti; la loro potenza ha tratto sostanza e alimento da una volontà di abdicazione delle masse, da quella che Erich Fromm chiama efficacemente "fuga dalla libertà". Quando si cerca di presentare il potere come una forza anonima e deresponsabilizzata, "il carattere essenziale del potere come energia di cui una persona è responsabile, non viene soppresso, ma solo corrotto. Ne nasce una condizione di colpa che si attua poi in forme di distruzione. In sé il potere non è né buono né cattivo, ma riceve il proprio senso solo dalla decisione di colui che lo esercita.(…) Il potere rappresenta perciò indifferentemente la possibilità di ciò che è buono e positivo ed il pericolo di ciò che è cattivo e distruttore. Tale pericolo cresce in diretto rapporto con la misura del potere ed è ciò di cui noi oggi, a volte con subitaneità terrificante, siamo divenuti consapevoli." (pp. 16-17). Guardini stava pensando forse alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, quando scriveva queste righe? Oppure aveva in mente anche quella dimensione del potere, che per il fatto di disporre di mezzi tecnici al tempo stesso sofisticati e fruibili da un vastissimo pubblico, e inoltre per essere apparentemente lontana dalla politica è in grado di esercitare una enorme influenza sui modi di pensare e di sentire dell’intera umanità? Oppure ancora pensava alla forma più immediata e individuale del potere: il potere della bellezza fisica, per esempio: che, per il fatto di essere velato da un’apparenza di discrezione e di mitezza, tende a non venire riconosciuto come tale, cioè come una forma di potere più sottile ma non meno potenzialmente tirannica di quella della pura forza fisica, del denaro o dell’esercizio prevaricante di una data superiorità culturale (il latinorum di don Abbondio per confondere e rendere inoffensive le obiezioni di Renzo).
Guardini osserva che il fatto che il potere tenda, effettivamente, a presentarsi sempre più come anonimo nella società di massa (si pensi alle grandi banche che, nel romanzo Furore di John Steinbeck, espropriano spietatamente i piccoli coltivatori, i quali non sanno con chi esattamente protestare e tentare di far valere le proprie ragioni) costituisce un grave pericolo. Esso, infatti, contribuisce ad attutire il senso della persona, della sua dignità e responsabilità e dei valori personali quali la libertà, l’onore; in una parola, contribuisce ad attenuare l’originalità dell’agire e dell’esistere. E qui il filosofo introduce un concetto che poté sembrare, nel clima di generale materialismo ed ateismo in cui si avviava la "ricostruzione" dell’Europa dopo la catastrofe bellica, come retrogrado e oscurantista, mentre – a nostro avviso – costituisce uno dei segni della sua grandezza, proprio nel non curarsi delle mode culturali e nel tirare dritto per la propria linea speculativa:
"Il vuoto che si forma non dove la persona scompare, poiché essa non può essere né rigettata dall’uomo né tolta all’uomo, ma là dove essa viene ignorata, negata, violentata non si limita a rimanere tale: ciò significherebbe che in un certo modo l’uomo diventa un essere naturale e la sua potenza una energia della natura. Il che non è possibile. In verità quel vuoto rappresenta una infedeltà divenuta atteggiamento permanente e là dove manca il padrone, si avanza un’altra iniziativa, quella demoniaca. Nella sicurezza della sua fede nel progresso, il secolo diciannovesimo ha deriso la figura del demonio, diciamo più onestamente e più esattamente, di satana; ma chi è capace di vedere non ride. Sa che egli esiste ed è al lavoro. Certo anche il nostro tempo non si pone di fronte alla sua realtà effettiva. Quando parla di ‘demoniaco’, come tanto spesso avviene, non c’è serietà nelle sue parole. Per lo più sono vane chiacchiere; e dove sene parla sul serio si esprime una paura indistinta o si intende qualche stato psicologico, ovvero qualcosa di simbolico. Quando la scienza delle religioni, e la psicologia del profondo, il dramma, il film, il romanzo d’appendice parlano di demoniaco, esprimono semplicemente il sentimento che ci sia nella esistenza un elemento di disarmonia, di contraddizione, di malizia, qualche cosa di estremamente incomprensibile e di sinistro che emerge con particolare evidenza in date situazioni individuali e storiche ed al quale corrisponde una particolare angoscia. In realtà si tratta non del ‘demoniaco’, ma di Satana. E chi sia Satana lo dice in modo completo solo la Rivelazione." (pp. 19-20).
L’ultimo aspetto del potere che Guardini individua per darne una completa definizione è quello della sua universalità. Ovunque l’essere umano eserciti una qualche forma di potere, ne ricava una singolare soddisfazione. E ciò vale anche per il ‘potere della conoscenza’, che genera un orgoglio tanto più rande, quanto più l’oggetto conosciuto appare ontano dall’esperienza concreta. Accade, di conseguenza, che il filosofo o lo scienziato montino in superbia e che la loro passione per la verità si trasformi in un cieco istinto di dominarla, riducendola alla loro misura. I miti e le favole, osserva acutamente Guardini, conservano questo aspetto psicologico, così come esso sta alla base di ciò che gli uomini chiamano magia.
"Chi conosce il nome di una cosa o di un uomo, ha potere su di esso; basti pensare agli incantesimi, agli scongiuri, alle maledizioni. In senso più profondo la potenza del sapere significa conoscenza della natura del mondo, del mistero del destino, del corso delle cose umane e divine. È quel sapere per cui gli dei che si trovano al governo del mondo, sono padroni del mondo e che, nel racconto della tentazione del genesi, Satana interpola alle parole di Dio, per confondere l’autentico senso della conoscenza del bene e del male. Nelle favole una determinata parola vince il drago, scopre il tesoro sepolto, libera l’uomo prigioniero dell’incantesimo."(pp. 21-22).
Tale era anche la mentalità degli antichi, per i quali il destino in guerra di una città – Roma compresa – dipendeva dal fatto che il nemico non venisse mai a conoscerne il nome segreto; tale la mentalità dei popoli a livello etnologico, ove le pratiche della stregoneria trovano un varco, attraverso le difese magiche dell’individuo, appunto nella conoscenza del suo nome segreto; tale, infine, la credenza della magia cerimoniale, ove l’evocazione degli spiriti è resa possibile dal fatto di conoscere e pronunciare, nel corso di un apposito cerimoniale, il suo nome. Notiamo, per inciso (e con la massima serietà) che in alcuni riti e in alcune credenze del cattolicesimo sopravvive un riflesso di tale convinzione: il primo ordine che l’esorcista rivolge al demonio che possiede un essere umano è quello di rivelargli il suo nome; cui segue, inesorabile, l’ordine di uscire e di andarsene per sempre.
3. IL CONCETTO TEOLOGICO DEL POTERE.
Nel secondo capitolo del libro, Guardini rievoca il racconto biblico della creazione e, in particolare, il fatto che Dio ha creato l’uomo "a sua immagine", dunque diverso dagli altri esseri viventi e capace di divenire padrone non solo della natura, ma anche di sé stesso. L’uomo, dunque, ha ricevuto da Dio un potere tanto sulla natura, quanto sulla propria vita, ed è stato autorizzato ad esercitare un tale duplice potere. Particolarmente acuta la riflessione che Guardini svolge a proposito della forma di potere sociale che è caratteristica della modernità, il potere della borghesia, e la critica che egli svolge a tutte le filosofie liberiste basate sull’idea (ipocrita) che dal massimo dispiego di egoismo individuale possa e debba scaturire, chissà come e perché, il massimo di benessere, ordine e utilità per l’intero corpo sociale (basti pensare alla famosa Favola delle api dell’inglese Mandeville, autentico manifesto dell’utilitarismo borghese ammantato di speciose giustificazioni pseudo-filosofiche).
"In questo dono di potere, nella capacità di farne uso e nell’imperio che ne consegue, consiste la naturale somiglianza a Dio dell’uomo. (…) L’uomo non può essere uomo ed oltre a ciò esercitare o meno un potere, esercitare quel potere è essenziale per lui. A ciò lo ha destinato l’Autore della sua esistenza. E noi facciamo bene a ricordare che nel protagonista del progresso moderno, anche nel protagonista di quello sviluppo di potere umano che in esso si compie, e precisamente nel borghese, agisce una fatale inclinazione: esercitare il potere in modo sempre più fondamentale, scientificamente e tecnicamente perfetto, e al tempo stesso non prenderne apertamente le difese, cercando invece di ammantarlo dei pretesti dell’utilità, del benessere, del progresso e così via. L’uomo ha perciò esercitato una potenza senza sviluppare un’etica corrispondente. Ne è nato un uso della forza, che non è essenzialmente governato dall’etica e che trova la sua espressione più genuina nella società anonima."
Dal momento che il potere non viene all’uomo come un diritto autonomo, ma come una grazia divina, egli deve esercitarlo facendosene responsabile davanti a Colui che glie lo ha conferito; in tal modo il potere, per Guardini, si fa obbedienza e servizio. Esercitare il potere, quindi, non significa imporre la propria volontà alla natura, ma partecipare a un progetto universale che parte da Dio e a Dio ritorna. "La umana potenza non deve dunque costituire un proprio mondo autonomo, ma deve, secondo la volontà di Dio, portare a compimento il mondo di Dio facendone un umano mondo di libertà." (p. 29).
Guardini prende quindi in esame il racconto biblico della tentazione e, respingendole interpretazioni naturalistiche, individua il peccato originale appunto nel rifiuto di esercitare il potere sulle cose come una forma di fedeltà e di servizio al progetto divino. "(…) l’uomo – egli afferma – deve giungere al dominio nel senso più ampio, ma rimanendo in un rapporto di obbedienza a Dio a attuando quel dominio come servizio. Egli deve divenire signore, ma restando fedele all’immagine di Dio che è in lui, e senza pretendere di essere lui l’archetipo."(p. 31). Oggi, a circa quarant’anni dalla morte di Guardini e a quasi sessanta dal momento in cui venne pubblicato il suo libro sul potere, la gravità delle devastazioni operate dall’uomo sulla natura (con i disastrosi effetti del relativo mutamento climatico in atto), la fiducia nel destino e nella missione dell’uomo può destare qualche perplessità; essa, in ultima istanza, ci appare come viziata da un atteggiamento ingiustificatamente antropocentrico, al quale dovremmo sostituire una visione cosmocentrica. Tuttavia è il caso di notare che la fiducia di Guardini nella missione dell’uomo di governare la natura non è affatto incondizionata: egli è perfettamente consapevole che solo a patto di rimanere fedele al progetto di Dio, il dominio dell’uomo sul mondo non finirà per degenerare. Nel suo pensiero, quindi, non vi è affatto una esaltazione della volontà di dominio dell’uomo sulla natura fine a se stessa, per il semplice fatto che egli non concepisce l’essere umano come un soggetto indipendente della storia, bensì come uno strumento del piano divino; uno strumento dotato di volontà e quindi suscettibile di divenire infedele e nocivo.
Gli uomini cadono nell’inganno di Satana, come vi caddero Adamo ed Eva, e avanzano la pretesa di un dominio sul mondo per forza propria, senza più senso di servizio e senza senso di responsabilità di fronte al vero Signore. Ora, «il pericolo del potere conserva comunque un suo particolare carattere di urgenza. L’usare del potere in modo errato è non solo possibile, ma verosimile, a meno che non si dica che è inevitabile. È l’inevitabilità che si esprime nei miti della hybris: Prometeo, Sisifo. Quei miti non sono i miti dell’uomo in senso assoluto(così come la caduta dell’uomo non appartiene in senso assoluto all’uomo), ma esprimono la condizione della sua caduta.» (p.35). D’altra parte, «la Redenzione non è un semplice miglioramento della condizione dell’Essere, ma si pone al livello della creazione. Non procede dalle strutture del mondo, sia pure quelle più spirituali, ma dalla pura libertà di Dio. Pone un nuovo inizio: crea un nuovo luogo dell’esistere,, un nuovo criterio del bene, una nuova forza di realizzazione. E ciò non significa una magia esercitata sul mondo, e neppure l’esser rapiti in uno spazio libero da vincoli: la Redenzione si compie entro la realtà dell’uomo e delle cose. Ne deriva una situazione assai complessa, che forse si esprime nella forma più chiara nella dottrina dell’Apostolo San paolo circa il rapporto fra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo». (pp.36-37).
In tutte le culture superiori, osserva Guardini, gli uomini saggi hanno intuito il pericolo insito nel potere e hanno mirato al suo superamento. «La loro ultima parola si chiamava moderazione e giustizia. Il potere trascina alla superbia e al disprezzo del diritto, all’uomo violento si contrappone l’uomo ragionevole, che onora gli dei e gli uomini e custodisce la giustizia. Ma tutto questo non è ancora redenzione: è il tentativo di trovare un punto di appoggio nell’esistenza sconvolta, di stabilire un ordine; l’esistenza non è concepita come un tutto come farà invece la Redenzione. In che consiste, al punto di vista dei problemi che qui ci preoccupano, il carattere decisivo del messaggio della Redenzione? Esso si esprime in una parola che nel corso dell’epoca moderna ha perduto il suo significato: l’umiltà.» (pp. 37-38).
Ora, Guardini osserva che l’umiltà, nel senso cristiano, è una virtù di forza e non di debolezza: essa significa accogliere liberamente la volontà del Padre, una forma di obbedienza che implica forza, meglio ancora, kyriòtes, sovranità che si abbassa volontariamente alla forma del "servo del Signore".
Ancora: "Redenzione non significa che il mondo nel suo complesso è stato modificato una volta per tutte, ma che Dio ha posto un nuovo inizio dell’esistenza. (…) Questo inizio esiste e nulla porà più cancellarlo. La misura in cui si realizza è cosa propria di ogni individuo e di ogni tempo. La storia ricomincia nuovamente con ogni uomo, e ricomincia ad ogni ora, in ogni vita di uomo. Ed ha perciò in qualsiasi momento la possibilità di cominciare di nuovo, da quell’inizio che qui è stato posto." (pp. 44-45).
4. LO SVILUPPO DEL POTERE.
Nel terzo capitolo, Guardini delinea brevemente una psicologia storica dello sviluppo del potere, a partire dall’uomo primitivo che si trovava alle prese con potenze misteriose, dalle quali si sentiva dominato. Tuttavia, mano a mano che l’umanità è riuscita ad affrancarsi dai bisogni più immediati (la fame, il freddo, la sicurezza fisica, ecc.), nuovi bisogni, sempre più sottili, si sono sostituiti ai precedenti, creando una spirale di bisogni e di potere che tende ad autoalimentarsi, senza fine e senza respiro. L’atteggiamento dell’uomo antico e quello dell’uomo medioevale conserva, nei confronti del suo stesso dominio sulle forze della natura, una misura che si potrebbe definire "organica": in altre parole, crea opere e funzioni che non eccedono la sua misura. Forse rielaborando concetti che già erano stati espressi da Rudolf Eucken (maestro di max Scheler che, a sua volta, è stato tra i filosofi che più hanno influito su di lui), ad esempio nell’opera Significato e valore della vita, sia da Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente, Guardini sottolinea la continuità dell’atteggiamento dell’uomo pre-moderno nei confronti del mondo e, per contro, il carattere di rottura costituita dalla modernità medesima. «Nel modo in cui l’uomo comprende la natura, si comporta davanti ad essa, la utilizza, le imprime una forma, si stabilisce una specie di equilibrio fra la ragione, l’istinto e l’immaginazione. L’uomo si impadronisce di ciò che gli è offerto, lo condensa, ne aumenta l’efficacia, ma considerate le cose nel loro complesso essenziale, non spezza le loro strutture» (p.53).
Ma è con l’avvento della scienza moderna, cioè con la modernità, che tale equilibrio fra uomo e mondo s’incrina e si rompe irreparabilmente. La scienza, infatti, applicandosi alla tecnica conferisce all’uomo un grado di potere quale non aveva mai avuto in passato sulle cose. È a questo punto che egli comincia a cadere nella tentazione della hybris, a perdere il senso della misura e a dimenticare il suo rapporto di servizio e di umiltà nei confronti del divino.«La scienza come concezione razionale della realtà e la tecnica come complesso del nuovo ordinamento dell’azione, reso possibile dalla scienza, imprimono un nuovo carattere all’esistenza: il carattere del potere, ovvero ella potenza in un senso che diremo acuto». (p.54)
La macchina, questo strumento che si distacca dai precedenti sistemi escogitati dall’uomo per potenziare la sua capacità d’azione sulla natura, si distacca sempre più dall’insieme delle attività del corpo umano vivente. Le macchine, inoltre, essendo sempre più collegate le une alle altre, creano una rete che appare come un sistema unitario, dal quale l’essere umano risulta via via più dipendente. Così l’uomo finisce per trovarsi inserito in un sistema tecno-scientifico che, pur essendo opera delle sue mani, tende a condizionarlo in misura crescente, sospingendolo dal ruolo di soggetto a quello di oggetto dello sviluppo. Queste considerazioni possono anche apparire ovvie nel terzo millennio, ma non lo erano alla metà del Novecento quando, al contrario, la grande maggiorana degli intellettuali esaltavano in maniera acritica gli sviluppi della tecno-scienza e profetizzavano un futuro di benessere per l’umanità, affrancata dalla fatica del lavoro e dalla paura delle malattie e di una morte precoce. «Trae origine di qui – egli scrive – un ordine di strutture, che sono pensate e prodotte dall’uomo, ma che, nella loro costruzione ed azione, si allontanano sempre più da un’organizzazione direttamente umana. Esse obbediscono alla volontà dell’uomo e raggiungono le mète da lui segnate, ma al tempo stesso acquistano una vera e propria autonomia nella propria funzione e nello sviluppo ulteriore». (p. 55).
Scompare l’artigianato, che aveva caratterizzato tutte le epoche della pre-modernità; e l’uomo, da un certo punto di vista, diventa più bisognoso in quanto pere la ricchezza inestimabile della sua personale creatività: nasce la figura dell’operaio "servo della sua stessa macchina". Per definire le caratteristiche antropologiche di tale mutamento, Guardini parla addirittura di "uomo non umano", cioè che non sa più ritrovare la relativa, passata armonia fra il campo della conoscenza e dell’azione da un lato, e quello dell’esperienza dall’altro.
Veramente acute sono le osservazioni che il filosofo sviluppa circa le caratteristiche interiori e comportamentali di questo "uomo non umano" (non inumano, si badi, una figura che già aveva fatto la sua comparsa sporadica nella storia, ma sempre a livello individuale).
«La sua conoscenza si svolge entro possibilità di conoscenza e di azione che hanno superato in modo decisivo l’antica misura. A ciò si ricollega, come causa insieme ed effetto, uno dei sintomi più inquietanti di quella trasposizione di cui facciamo quotidiana esperienza, cioè il carattere ‘oggettivo’ del nuovo uomo. Esso significa da un lato volontà e capacità di dedicarsi, senza riguardo per i sentimenti soggettivi, ai singoli compiti che divengono sempre più grandi e pericolosi, e anche pudore di mostrare sentimenti più profondi, anzi del solo lasciarli sviluppare, in una vita che si svolge in forme sempre più pubbliche. Ma esso significa anche una crescente incapacità di sentimento; una progressiva freddezza del cuore; una indifferenza nei rapporti con gli uomini e con le cose della vita. caratteristico è anche quel surrogato che viene sostituito in larga misura all’autentico sentimento: la sensazione, eccitazione violenta, ma superficiale, che afferra sull’istante e rapidamente svanisce e non ha né fecondità né durata». (pp. 58-59).
Qui Romano Guardini apre una breve pausa nel ragionamento per domandarsi se a tale decadimento delle facoltà umane corrisponda un decadimento dell’uomo tout-court; e risponde con decisione in modo negativo. L’attuale decadimento riguarda un particolare momento storico, sia pure abbastanza lungo: non coincide con la storia dell’umanità. Del resto, anche nelle epoche in cui l’umanità era più vicina alla Rivelazione – nei primi secoli del Cristianesimo, ad esempio – tali pericoli erano ben presenti, anche se meno evidenti. La modernità non ha fatto che rivelare delle possibilità di ingiustizia e distruzione che erano presenti fin dall’inizio nella vicenda storica dell’umanità. Il Medio Evo, per il suo carattere organico ed armonico, aveva fatto velo a tali possibilità; ma esse, latenti, erano vive e operanti anche allora. Certo, con l’avvento della modernità è subentrata una crisi: ma crisi (come insegna la sua etimologia greca) è sempre decisione fra possibilità positive e negative. Insomma, l’uomo – in quanto luogo della possibilità – reca in se stesso le possibilità di autodistruzione o di redenzione che decideranno del suo destino; ma quest’ultimo non è segnato irreversibilmente dai caratteri storici propri della modernità. La sua libertà di scelta, anche se minacciata, rimane integra: se sceglierà di distruggere sé stesso (e la creazione con lui), ciò dipenderà non dallo strapotere tecnico proprio della modernità, ma dell’esercizio della sua facoltà di adeguarsi o meno al progetto divino.
"Quel pericolo – scrive, infatti – sta nell’uomo, in senso assoluto, e non è esclusivamente connesso al tempo che sopraggiunge; la giusta posizione può essere solo quella di accettare la situazione che ci è data e di dominarla dall’interno, appoggiandosi alle forze più pure dello spirito e della grazia. Se falliamo non significa che la nostra epoca, come tale, sia decadenza e rovina, ma diviene evidente che in ogni tempo l’uomo è soggetto a decadenza e rovina ed ha bisogno della Redenzione; ciò che in determinati tempi e in determinate circostanze, può essere meno evidente che in altre»(p. 62).
Tali considerazioni non attenuano la gravità del momento, che Guardini valuta con lucido realismo, senza affatto sminuire l’entità del pericolo. «Uno sguardo di insieme– afferma – ci dà l’impressione che sia la natura, sia l’uomo stesso siano sempre più alla mercé dell’imperiosa pretesa del potere, economico, tecnico, organizzativo, statale. Sempre più si delinea una situazione in cui l’uomo tiene in suo potere la natura, ma insieme l’uomo tiene in suo potere l’uomo, e lo Stato tiene in suo potere il popolo e il circolo vizioso del sistema tecnico-economico, tiene in suo potere la vita». (p. 65)
Viviamo, dunque, nel regno dell’organizzazione; ma l’organizzazione, da sé sola, non è in grado di creare alcuna morale. Nel Medio Evo, ad esempio, era considerato sacrilego sezionare un cadavere (e non per spirito retrogrado, come affermano i cantori della modernità, ma per una forma di rispetto verso il mistero della morte); ora, invece, qualunque pratica sembra lecita e accettabile, purché essa venga presentata come un aspetto ordinato e necessario dell’organizzazione.
«Che cosa c’è ancora nell’uomo – si chiede il filosofo – che la sensibilità media concepisca come intangibile? Non si sono fatti degli esperimenti sull’uomo vivente? Che cosa altro era la prassi di taluni istituti ‘medici’ dei campi di concentramento se non vivisezione? Che cosa significa quel complesso che va dal controllo del concepimento alla interruzione della gravidanza, dalla fecondazione artificiale alla eutanasia, alla selezione delle razze, alla distruzione della vita degli indesiderabili? Che cosa non si può fare all’uomo quando non si consideri quell’opinione comune che si rivela nei discorsi quotidiani, nei giornali, nel cinema, nella radio, nella letteratura e non per ultimo nella condotta di coloro che detengono il potere, degli uomini di Stato, dei legislatori, dei militari, dei responsabili della vita economica?». (pp. 66-67).
Non si era mai visto prima, nel corso della storia, un tale abbassamento dell’essere umano; eppure sarebbe semplicistico e fuorviante attribuirne tutta la responsabilità a forze esterne più o meno impersonali. Troppo spesso si è visto come l’arroganza del potere cresca con la passività e, in certo qual senso, con l’esplicita volontà di essere dominati da parte dei cittadini-sudditi, più che mai desiderosi di sfuggire al pesante fardello della libertà e della responsabilità. «Nel complesso – osserva Guardini, non senza una sfumatura di pensosa tristezza – a colui che viene dominato, avviene ciò che egli stesso vuole. Se il potere deve esercitare la sua violenza su di lui, è nel suo intimo che devono cadere anzitutto le barriere del rispetto e della difesa di sé». (p. 67).
A ciò si aggiungano gli effetti di una progressiva contrazione dello spirito religioso e l’incapacità del nuovo idolo, lo Stato, di assumere efficacemente il ruolo che era stato di Dio. Da tale stato di confusione e di "vacanza" dei poteri tradizionali, emerge una nuova caratteristica della modernità: la pianificazione universale. Ogni cosa è ormai affidata al meccanismo delle statistiche (e, oggi, di una cosa che ai tempi di Guardini non esisteva: i sondaggi d’opinione) e della tecnica che, a sua volta, tende a porsi come fine allo sviluppo, tanto da dettare i metodi per raggiungere gli obiettivi prefissati.
- IL NUOVO VOLTO DELL’UOMO E DEL MONDO.
Nessuno, dice Guardini, potrebbe negare i successi e i vantaggi portati dallo sviluppo tecno-scientifico nella vita del singolo individuo. Tuttavia, è legittimo domandarsi se sia tutto oro quello che luce, se il livello qualitativo della vita umana sia davvero migliorato. «(…) se il traffico si svolge in modo più celere e completo, si guadagna realmente tempo? Ciò sarebbe vero se l’uomo trovasse più agio e divenisse più tranquillo. E invece egli appare sempre più incalzato, e il risparmio di tempo attraverso l’accelerarsi del traffico ha in realtà l’effetto che egli si imprigiona sempre più nel tempo. E quando davvero l’uomo guadagna tempo, come se ne serve? Si libera forse dalla folla, o non si butta invece nella ressa di chi si diverte o si dedica a sport assurdi, legge, ascolta, vede roba inutile? La fretta ansiosa che lo svuota non prosegue in altra forma e la teoria della vita più ricca non getta la maschera rivelandosi illusione? Potremmo fissare la nostra attenzione sugli aspetti più diversi e sempre giungeremmo al risultato che la vera giustificazione del progresso culturale non può consistere in una utilità comunque concepita, perché tutto questo conoscere, lavorare, creare porta con sé anche un pericolo che si aggrava sempre più. Vivere secondo la cultura significa in definitiva vivere secondo la decisione dello spirito; ma ciò significa che quanto più grande diventa il dominio del mondo, tanto più è rischioso il vivervi». (pp. 75-76)
Se, dunque, la volontà del dominio caratterizza l’intera storia umana, ora ci accorgiamo di essere giunti a una svolta epocale: l’aumento straordinario delle possibilità tecniche che, a sua volta, è in funzione inversamente proporzionale alla consapevole responsabilità dell’uomo.
Ora, il fatto di cui bisogna prendere atto è che gli uomini nel loro complesso, e le classi dirigenti in modo particolare, non sembrano affatto consapevoli di tale situazione e nulla stanno facendo per adeguare il livello del senso di responsabilità, specialmente fra le giovani generazioni. «Esiste – si chiede allarmato – un’etica del potere costruita su di un reale contatto con il fenomeno? Il giovane e, proporzionatamente alle sue esperienze precedenti, l’uomo adulto viene educato al retto uso del potere? Questa educazione forma un elemento stabile della nostra formazione umana, sia individuale che sociale?» (p. 79).
Guardini si interroga soprattutto a proposito di due pericoli mondiali: quello di una nuova,, devastante guerra dalle conseguenze incalcolabili, che provocherebbe anche la rovina di ogni residuo ordine morale, e quello più sottile, ma non meno minaccioso, di un potere sempre più grande dell’uomo su se stesso: nel corpo, nell’anima, nello spirito. In quale direzione egli eserciterà tali possibilità di influire sulla vita dei propri simili? Guardini, non senza una nota di sconsolato pessimismo, osserva che sono finite per sempre le illusioni idealistiche secondo le quali la vita dello spirito è portatrice di valori evidenti, che la pura forza fisica non sarà mai in gradi di distruggere. Il nazismo (non lo nomina, ma il riferimento è chiaro) è stato al potere per dodici anni ed è crollato per cause esterne, non interne; il comunismo sovietico si regge da oltre trent’anni, e non mostra segni di indebolimento.
Un terzo pericolo è quello che il potere, come tale, esercita sull’esistenza. Quanto più grande è il potere, tanto più forte la tentazione di scegliere la via più facile, quella della violenza e della eliminazione fisica di qualunque cosa ad esso si opponga o faccia resistenza. Un quarto pericolo relativo al potere è quello che esso costituisce per coloro che lo usano. «Poiché – osserva Guardini – non c’è azione che si esaurisca nel suo oggetto, sia esso una cosa o una persona; ogni azione afferra anche colui che la compie. È una terribile illusione pensare che l’azione rimanga ‘al di fuori’ di chi agisce, poiché in verità quell’azione penetra anche in lui, anzi in lui stesso prima che nell’oggetto del suo agire. In verità egli ‘diviene’ continuamente ciò che egli ‘fa’…». (p. 86)
Nonostante il fosco quadro che si è venuto delineando, quello di una perversione sempre più grande del potere che produce una perversione sempre più rande della stessa natura umana, Guardini non rinuncia ad affermare un principio di speranza: per lui, una soluzione positiva del problema è ancora possibile.
«La moderna immagine del mondo – egli sostiene, intendendo per moderna (a noi pare) quella che va sino al Rinascimento compreso, ma non oltre – conteneva l’idea di una natura che significava al tempo stesso norma e sicurezza. E questa natura era considerata come un complesso di leggi e di rapporti che un lato costringevano l’uomo, ma dall’altro lo proteggevano e lo garantivano. Conoscenza e tecnica spezzano ora le strutture della natura. Gli elementi sono a disposizione di chi voglia impadronirsene. Da ordine sovrano ed insieme accogliente, la natura diviene un complesso di energie e di materie di cui l’uomo dispone. Da tutto intangibile che si doveva contemplare in gioiosa ammirazione, diviene sconfinata possibilità, fonte di energie, cantiere di lavoro. E mentre nell’epoca moderna l’uomo aveva considerato se stesso come membro di questa natura, si fa ora strada il sentimento che egli può impadronirsi di essa in libertà incondizionata, e farne ciò che vuole, farla fiorire e farla rovinare. (…) è caratteristico osservare come la novità viene generalmente considerata come un valore in sé e per sé. L’impulso a trasformare tutto sembra qualcosa in più che non il sintomo di un procreare o la convinzione dell’importanza della cosa scoperta. Certo esso ha forme negative: mancanza di rispetto e di responsabilità, vistosità ed altro ancora. Ma sembra che vi sia anche qualche osa di positivo: il sentimento che il mondo è alla nostra disposizione in un modo che non ha precedenti e che il disporne giustamente non è garantito né dalla natura stessa né dalla tradizione, ma dipende dal giudizio e dalla volontà dell’uomo.(…) Il pericolo è essenziale alla futura immagine del modo e, se inteso rettamente, le dà nuova serietà». (pp. 94-95).
L’uomo, dice Guardini, sembra attuarsi nella tensione fra due poli: quello materiale e quello spirituale; la libertà autentica è garantita solo nel porsi di fronte a Dio sovrano e personale. Una natura che voglia risolvere tutto in se stessa (pericolo contro cui già metteva in guardia Rudolf Eucken ai primi del Novecento) sopprime sia il concetto di libertà sia quello di responsabilità. Ci si può chiedere, allora, da dove venga a Guardini quella carica di speranza che lo fa retrocedere dall’abisso di angoscia in cui la riflessione sulla natura del potere nel mondo contemporaneo sembrava destinata ad avviarlo. Ma basta riandare a quanto da lui detto sul senso della Redenzione, per comprendere come essa scaturisca, fresca e viva, da una fonte nn umana e, come tale, destinata a non esaurirsi nonostante l’inadeguatezza e le colpe degli uomini. «La storia ricomincia nuovamente ad ogni istante, in quanto viene continuamente decisa nella libertà di ogni uomo» (p. 106), egli scrive, e ancora: esiste «la speranza che sia in divenire un uomo che non soggiaccia alle forze scatenate, ma sia capace di ricondurle nell’ordine. Che sia capace non soltanto di esercitare un potere sulla natura, ma anche un potere sul proprio potere, ordinandolo al senso della vita e dell’opera dell’uomo; che apprenda ad essere ‘reggitore’, impedendo che ogni cosa crolli nella violenza e nel caos" (p. 107).
L’uomo dei tempi moderni deve elaborare un nuovo ethos che gli consenta di usare la tecnica e il dominio stesso non con cattiva coscienza, come è stato finora, ma con il senso dell’adempimento di un dovere, di un compito ricevuto da Dio. Dopo Hiroshima, egli dice, l’uomo sa di vivere sull’orlo di un abisso; ma proprio la coscienza della gravità del pericolo può conferirgli un nuovo senso di grandezza; e qui sembra che riecheggi qualcosa delle teoria di Ernst Jünger sull’"operaio" inteso come nuovo tipo umano, forgiato dalla tecnica e pronto a qualunque lotta, se non addirittura del "vivere pericolosamente" di nietzschiana memoria. È questa, ci sia consentito, la parte dell’opera maggiormente suscita in noi qualche perplessità, specialmente là dove Guardini insiste sul "destino di dominio" dell’uomo rispetto alla natura; e, ancor più, là dove suggerisce che proprio lo strapotere della dimensione tecnica possa creare nella psicologia umana quella ‘impassibilità’ (altrove da lui giustamente deprecata) per compiere quel salto di qualità che gli consenta di mettere l’utilità, la sicurezza e il benessere al secondo posto rispetto al suo personale contributo alla struttura del mondo.
L’uomo dei tempi futuri deve essere capace di obbedire e di comandare, deve sapere cos’è la disciplina; deve ristabilire un principio di autorità che rispetti la dignità della persona umana. Questo tipo umano non può prescindere dal riconoscimento di una sovranità assoluta, di valori assoluti, di Dio come norma vivente e punto di riferimento dell’esistenza. Soprattutto, deve essere sempre consapevole che non esiste dominio che non sia ance, prima di tutto, dominio su di sé; e che ogni crescita essenziale non dipende solo dal lavoro, ma anche dal sacrificio liberamente offerto. Deve riconoscere che la sua propria finitezza coincide con la sua condizione creaturale e, attraverso il carattere di rivelazione contenuto in ogni essere, giunge alla Rivelazione biblica, senza enfasi e senza eccessivi sentimentalismi.
- POSSIBILITÀ DELL’AZIONE.
L’idealismo afferma che lo svolgimento della storia, nonostante cadute ed errori, è "naturale2e si svolge come una progressione necessaria e ordinata (per Hegel, come per Croce, "tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale"). Invece l’uomo non appartiene totalmente al regno ella natura, bensì sta al suo limite estremo: «perciò la storia non si svolge da sé, ma viene fatta. E può dunque prendere una direzione sbagliata, non solo in singole decisioni, i singoli momenti e settori, ma anche in tutta la sua direzione e attraverso intere epoche. E noi lo sappiamo, o almeno lo intuiamo, pure in mezzo a tutta la sicurezza della nostra esattezza sperimentale e teoretica; ciò costituisce la particolarità della nostra situazione».(pp. 118-119).
Il fatto che l’uomo, al presente, abbia sempre più smarrito il legame che lo vincola alle norme che discendono dalla verità dell’essere, alle esigenze di ciò che è buono e santo, ha creato una generale situazione di precarietà e d’incertezza anche nei fondamentali rapporti umani. Ci si chiede se l’essere umano si sente accolto, rispettato, se in esso si tenga sempre presente la sua libertà e ciò che in lui vi è di vivo e di creatore. «Certo – ammette Guardini – anche nel passato la verità, il diritto, la dignità personale, il rapporto con la intima originalità dell’altro uomo non erano sempre, forse mai, rispettati secondo la regola, ma erano almeno fondamentalmente riconosciuti. Si era inclini a tenerne conto ed il singolo, se i suoi sentimenti erano giusti, poteva ad ogni momento disporsi a tradurli in pratica. Tale stato di cose si è mutato e forma appunto l’oggetto del crescente ‘disagio della cultura’, il sentimento che si sia infranta un’armonia. Perciò si deve riconoscere che non si tratta solo di questioni di morale privata, ma di questioni che investono il reale corso della storia, la politica concreta, il successo o la rovina della nostra vita civile e culturale». (p. 123)
Nelle ultime pagine del libro, Guardini suggerisce qualche riflessione di tipo pratico per affrontare con la giusta disposizione di spirito il necessario salto di livello della consapevolezza umana. È necessario, tra l’altro, che l’uomo impari a maneggiare le cose in modo più responsabile, non badando solo al risparmio di tempo ma imparando a vederle come dei fini e non solo dei mezzi. Infatti «le cose hanno una propria natura e quando essa si corrompe o subisce violenza si irrigidisce e contro di lei non valgono più né l’inganno né la forza. La realtà si rinchiude e si sottrae alla mano dell’uomo. (…) Delle cose non si può fare quello che si vuole, o almeno non lo si può fare in tutto il loro insieme e per un lungo periodo, si possono trattare le cose solo in modo corrispondente al loro essere, altrimenti si preparano delle catastrofi. Chi è capace di vedere vede come dappertutto si prepari la catastrofe di una realtà falsamente maneggiata» (p. 126). Ancora, parole profetiche: cinquant’anni dopo che esse furono scritte, l’uso selvaggio delle acque dell’Amu Darja e del Syr Darja per l’irrigazione dei campi di cotone, la pesca selvaggia e l’uso di micidiali sostanze chimiche hanno prosciugato e avvelenato quello che era un grande bacino interno dell’Asia centrale, il lago d’Aral. Lo stesso destino è toccato al Lago Ciad in Africa, unica riserva d’acqua in una vastissima zona del Sudan, divenuto una pozza fangosa che non è in grado di mantenere la numerosa popolazione assiepata sulle sue rive. Sono solo due esempi dei disastri annunciati di cui parlava Guardini nel 1951, e con quale lucidità e lungimiranza!
Tuttavia, ammonisce il filosofo, la cosa più importante è ricordarci sempre che il dominio sul mondo presuppone la capacità di dominare noi stessi, ossia di praticare l’ascesi. «Ascesi significa che l’uomo tiene se stesso nelle proprie mani. Perciò deve riconoscere nel suo intimo il male ed affrontarlo in modo efficace. (…) Dappertutto l’uomo capitola di fronte alle forze ella barbarie: l’ascesi significa che egli non deve capitolare, ma combattere e al posto decisivo, cioè conro se stesso. Che egli deve crescere dall’interno, disciplinando e superando se stesso, e vivere così nell’onore, portando frutti proporzionati al senso della sua vita. Inoltre, dobbiamo nuovamente porci l’interrogativo circa l’estremo punto di riferimento della nostra esistenza: Dio. L’uomo non è così congegnato, da essere finito in se stesso e da potere, oltre a ciò, entrare o meno in rapporto con Dio, a seconda della sua opinione e del suo piacimento; la sua essenza consiste in modo decisivo nel rapporto con Dio. (…) Dio è la realtà che fonda ogni altra realtà, anche l’umana. Se non Gli si rende il suo diritto l’esistenza si ammala». (pp. 128-130).
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione