
José Martí (1853 – 1895) e la lotta d’indipendenza delle Filippine
24 Luglio 2006
Jacques Roux e gli “arrabbiati”
24 Luglio 2006Questo articolo è stato pubblicato sul numero 143 del febbraio 1987, pp. 26-27, del mensile "A Rivista anarchica", e rispecchia la situazione esistente all’epoca sull’isola indonesiana.
Riteniamo di fare cosa utile ripubblicandolo, anche se il quadro politco interno e internazionale è, da allora, profondamente mutato, anche perchè vi si ripercorre l’origine storica del dramma del popolo timorense, dopo che, partiti i Portoghesi dopo circa quattro secoli di dominio coloniale sulla parte est dell’isola, nel 1976 i militari di Giakarta decisero di passare all’offensiva per spazzar via quella pericolosa spina nel fianco, che si era data un governo rivoluzionario di stampo marxista.
Ebbe allora inizio una dell epagine più oscure nella storia recente del Sud-est asiatico, culminata in un vero e proprio genocidio pianificato dal governo indonesiano, con la complicità degli Stati Uniti e la benevola indifferenza del resto del mondo.
Febbraio 1987. Da undici anni è in corso a Timor una lotta coraggiosa e disperata per riaffermare il diritto dei popoli, anche i più piccoli, all’autodeterminazione. La pesante eredità del colonialismo europeo.
Timor è un’isola dell’arcipelago della Sonda, nell’estremo Sudest asiatico. La sua metà orientale, ex colonia portoghese, ha una superficie di circa 15.000 kmq. e una popolazione di forse 600.000 abitanti (la Sicilia, tanto per fare un confronto, ha una superficie di 25.000 kmq. e ospita 5 milioni di abitanti). Poche persone, in Europa, saprebbero localizzarla davanti a un mappamondo, anche fra coloro che hanno una discreta cultura geografica e che leggono il giornale tutti i giorni. Una terra lontana, povera, arretrata: un nome che ai più non dice nulla.
Eppure, proprio quest’isola lontana e dimenticata è teatro, da ormai undici anni, di una lotta coraggiosa e disperata per riaffermare il diritto di tutti i popoli, anche i più piccoli, all’autodeterminazione. La lotta del popolo di Timor orientale non è diretta contro l’antica madrepatria portoghese, che dal 1975 ha sgomberato anche da quest’ultimo brandello del suo passato impero coloniale, bensì contro l’Indonesia. Forse per questo, certa opinione pubblica "progressista" dell’occidente ha preferito chiudere occhi e orecchi di fronte alla tragedia di Timor. Come nel caso del popolo Sarawi nell’ex sahara Spagnolo, occupato illegalmente dal Marocco, riesce sgradevole ammettere che un ex Paese coloniale, una volta conquistata la propria indipendenza, si sia trasformato a sua volta in oppressore sub-coloniale di un altro popolo. Riesce oltremodo imbarazzante riconoscere che, a oltre trent’anni dalla grande Conferenza di Bandung (ironia della sorte, proprio in Indonesia!), il movimento dei Paesi afroasiatici non abbia saputo liberarsi dalle suggestioni di egemonia coloniale ricevute in eredità dall’Occidente.
Eppure è proprio così, e la causa di ciò risiede nel fatto che il movimento di liberazione fra i popoli del Terzo Mondo non ha saputo elaborare una dottrina politica alternativa al modello statalista, burocratico e militarizzato, ricevuto dall’Europa durante la dominazione coloniale.
DOPO LISBONA, GIAKARTA.
Dopo che, nell’aprile del 1974, la cosiddetta "Rivoluzione dei garofani" ebbe ristabilito la democrazia in Portogallo, il governo di Lisbona accelerò i tempi per lo smantellamento del suo impero coloniale, minato – specialmente in Guinea, Angola e Mozambico – da un’attivissima guerriglia indipendentista.
In Asia vi erano ancora, dopo la seconda guerra mondiale, tre piccole colonie portoghesi: Goa, Timor e Macao. Goa era stata annessa con la forza dall’India nel 1961; Macao – legata com’è da ragioni economiche e politiche al destino della vicina Hong Kong – rimane tuttora portoghese [Macao è ritornata allaCina Popolare nel 1999, secondo gli accordi internazionali esistenti]. I due settori lusitani dell’isola di Timor – oltre alla parte orientale, con capoluogo Dili, anche una enclave sulla costa occidentale, il distretto di Occussi-Ambeno – vennero sgomberati nel corso del 1975. [Si noti che proprio il nome del distretto occidentale di Timor ex portoghese è stato scelto dal gruppo di anarchici neozelandesi per la maxi-burla del sultanato di Occussi-Ambeno, la cui eccezionale vicenda è stata raccontata sul numero 122 di "A Rivista anarchica.]
La fretta dei Portoghesi nel lasciare questa loro lontana colonia, così poco fruttuosa economicamente, così arretrata (circa 20.000 iscritti alla scuola primaria, su oltre mezzo milione d’abitanti!) aveva una duplice ragione. La prima era dovuta a considerazioni di politica estera: salvaguardare i rapporti diplomatici con l’Indonesia, padrona dell’altra metà dell’isola, ed evitare assolutamente una umiliazione come quella patita a Goa. La seconda era dovuta all’intricata e spinosa situazione venutasi a creare nella provincia d’oltremare.
Tre movimenti politico-militari si erano costituiti e avevano già cominciato a lottare fra loro per colmare il vuoto d’autorità creatosi col ritiro imminente del Portogallo. Due di essi, l’Apodeti e l’U.D.T., erano filo-indonesiani e loro obiettivo dichiarato era la riunificazione alla "madrepatria", cioè al governo di Giakarta – guidato, è bene non dimenticarlo, da un regime fanaticamente anticomunista, controllato dai militari sul piano interno e dagli Stati Uniti (oltre che dal Giappone) su quello politico-economico internazionale. Il terzo raggruppamento era il F.R.E.T.I.L.I.N. (Fronte di Liberazione Nazionale di Timor orientale), d’ispirazione marxista, che perseguiva invece l’obiettivo della indipendenza immediata e totale sia dal Portogallo, sia dall’Indonesia. Si tenga presente che i Timoresi appartengono a una popolazione papuasica e non hanno affinità linguistiche e culturali né con i Giavanesi, né con i popoli delle altre isole indonesiane, tranne, appunto, la Nuova Guinea Occidentale e le Molucche (e in entrambe queste aree è in corso, da annni, una guerriglia indipendentista contro il governo centrale di Giakarta).
Per quasi tutta l’estate e parte dell’autunno del 1975 divampò la guerra civile. Dopo quattro mesi di lotta ebbe la meglio il F.R.E.T.I.L.I.N., che il 28 novembre dichiarò l’indipendenza e affidò la carica di presidente al suo leader F. Xavier do Amaral.
La neonata Repubblica ebbe vita quanto mai breve. Con un tempismo che tradiva una lunga preparazione, il 7 dicembre successivo l’esercito indonesiano varcò la frontiera ed invase, nel corso di pochi giorni, tutto il territorio dell’isola. Il ministro degli Esteri di Giakarta, Malik, recitò per conto del presidente Suharto la solita sceneggiata, assicurando che l’occupazione militare avrebbe avuto carattere "temporaneo". Invece, a oltre undici anni di distanza, le truppe indonesiane sono ancora lì, impegnate in una guerriglia contro il F.R.E.T.I.L.I.N. che sembra non dover finire mai, e che è stata caratterizzata da stragi, torture e sistematiche violazioni dei diritti umani.
Il 14 dicembre 1975, esattamente una settimana dopo l’inizio dell’invasione, l’Indonesia proclamò l’annessione del distretto di Occussi-Ambeno. Il 18 fu annunciata la costituzione di un sedicente governo provvisorio di Timor orientale, dominato dall’Apodeti e presieduto da Arnaldo des Reis Araujo. Il Parlamento-fantoccio eletto poi col compito specifico di ratificare l’annessione di Timor orientale all’Indonesia, la approvò all’unanimità il 31 maggio 1976.
Come suo ultimo atto "ufficiale", il 24 giugno il "governo provvisorio" rimise il territorio alle autorità di Giakarta, e poi si sciolse. Per des Reis Araujo ci fu subito, però, un premio di consolazione: i suoi protettori indonesiani gli sostituirono la carica di capo del governo con quella di governatore di Timor orientale. Il 15 luglio il Parlamento indonesiano approvò una legge che trasformava l’ex colonia portoghese nella ventisettesima provincia degli Stati Uniti d’Indonesia, e il 16 agosto Suharto (sì, quello stesso che nel 1965 aveva guidato lo sterminio di oltre mezzo milione di comunisti) proclamò ufficialmente l’annessione. Politicamente, per Giakarta la questione era chiusa.
Per tutto quel periodo l’attività di guerriglia era continuata violentissima, e nel corso di tutti questi anni l’esercito indonesiano non è ancora riuscito a venire a capo di niente. Già impegnato in un’altra guerra di occupazione sub-coloniale nelle immense foreste dell’Irian Barat (Nuova Guinea Occidentale), che si trascina ormai da circa venticinque anni, esso ha subìto a Timor degli scacchi clamorosi. Varie volte ha tentato la soluzione di forza con delle offensive massicce per stroncare la resistenza, e sempre invano.
Nel marzo del 1983 il comandante militare indonesiano, Purwanto, era giunto a un accordo con il F.R.E.T.I.L.I.N. per il cessate-il-fuoco. Ma in agosto 15 militari indonesiani caddero in un agguato, e poco dopo Purwanto fu rimosso e sostituito dal "duro" Rudito. Suo dichiarato obiettivo era la distruzione definitiva della guerriglia indipendentista: un obiettivo che né allora, né oggi è stato peraltro raggiunto, nemmeno parzialmente.
CONTRO LA REALPOLITIK DELLE SUPERPOTENZE.
Come spiegare una resistenza così lunga ed efficace da parte del F.R.E.T.I.L.I.N., se non ammettendo un atteggiamento sostanzialmente favorevole da parte della popolazione? Tatticamente, il terreno dell’isola si presta assai poco alla guerriglia: pochi lembi di foresta a galleria lungo i corsi d’acqua; e, per il resto, colline e montagne calcaree e savana arborata.
Anche sul piano internazionale il F.R.E.T.I.L.I.N. è isolato. A parte una protesta formale da parte del Portogallo, il governo indonesiano non ha mai incontrato resistenze o difficoltà dalla diplomazia internazionale.
Se a Timor si continua a lottare, a morire e, – nonostante tutto – a sperare, è perché i suoi abitanti sono in larghissima percentuale contrari all’annessione. Essi vogliono poter decidere il proprio destino, e rifiutano l’"inevitabilità" della logica secondo la quale il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Rifiutano di rassegnarsi, perchè credono nella giustezza della causa per cui si battono; e sanno che nell’Indonesia di oggi, militarista e para-fascista, non c’è spazio per alcuna autonomia delle minoranze, o dialettica politica fra ideologie diverse.
Il caso di Timor offre un ennesimo esempio della cecità e spietatezza della logica degli Stati. In Europa ci sono voluti secoli di conflitti e, da ultimo, due guerre mondiali, per ricomporre i contrasti territoriali e le politiche antagoniste di potenza: e lo stallo attuale (poiché di vera pace non è lecito parlare) non è dovuto a buona volontà, come tutti sanno.
Nei paesi del terzo Mondo, eredi dei confini coloniali, i conflitti territoriali e le contrapposte politiche di potenza sono appena agli inizi, ed è difficile prevedere se e quando potranno essere ricomposti. Difficile, se non impossibile, dire quando finirà la guerra del Golfo fra Iran e Iraq [iniziata nel 1980, sarebbe terminata nel 1988, con un sostanziale nulla di fatto], o quando la Libia cesserà di voler sottrarre il Tibesti al Ciad [occupata la regione del Tibesti dalla Libia nel 1984, essa è stata recuperata dal Ciad nel 1987, con l’appoggio politico-militare della Francia]. Tanto più che i Paesi del Terzo Mondo assolvono oggi il ruolo di valvola di sfogo delle tensioni fra le due superpotenze [l’articolo precede di quattro anni lo scoglimento dell’U.R.S.S.], e tutto il mercato internazionale delle armi (una voce ormai fondamentale dell’economia mondiale) è fondato su tale presupposto.
Ma – ci si potrà chiedere – ha senso, oggi, morire per l’indipendenza di una piccola isola del Sud-est asiatico, anzi, di una parte di essa; ha senso, in un mondo dominato dai "grandi", lottare per una causa tanto "piccola", tanto remota e dimenticata da tutti? La domanda è mal posto e tradisce una concezione "quantitativa" dell’idea di libertà, propria dell’ideologia democratico-borghese e succube della psicologia dei grandi numeri.
Gli esempi recenti dell’Afghanistan e del Nicaragua, del resto, ribadiscono la volontà dei popoli "piccoli" di non sottostare alla logica delle grandi potenze, alla Realpolitik dei Reagan e dei Gorbaciov.
MA IL CERCHIO VA SPEZZATO.
Tuttavia, opporsi a una siffatta Realpolitik non basta. Occorre contestare globalmente la logica degli Stati, che perpetuamente innesca la spirale della repressione politica e sociale. La generazione del ’68 ha visto con dolore il suo mito per eccellenza, il Vietnam, trasformarsi, subito dopo la vittoria sull’imperialismo occidentale, in Stato burocratico e imperialista (a spese della Cambogia, e in parte del suo stesso popolo). È questo il cerchio che va spezzato.
Occorre abbattere la concezione stessa di Stato quale valore supremo del diritto internazionale; quella concezione che ha condotto i "piccoli" e perfino gli affamati, come l’India e il Pakistan, sulla strada demenziale della costruzione dell’arma atomica, né più né meno dei "grandi" e dei ricchi.
[Dopo ripetute denunce dell’O.N.U. relative a gravi violazioni dei diritti umani a Timor est da parte dell’esercito indonesiano, nel 1996 il leader storico dell’indipendenza, José Ramos-Horta e il vescovo cattolico di Dili, monsignor Belo, hanno ricevuto il Premio Nobel per la pace. Nel maggio del 1998 le manifestazioni cominciate dagli studenti di Giakarta hanno portato alla destituzione del generale Suharto, mentre al potere saliva B. J. Habibie. Questi concordava con il governo di Lisbona, nel maggio del 1999, un referendum da tenere a Timor est circa il futuro assetto dell’isola. Il 7 settembre veniva liberato dalle carceri indonesiane Xanana Gusmao, leggendario capo della guerriglia indipendentista e capo del F.R.E.T.I.L.I.N. (in prigione dal 1992). Il 30 agosto del 1999 ebbe luogo il referendum fra gli abitanti di Timor est, che scelsero l’indipendenza. Il 20 maggio 2002, Timor est è diventato uno Stato indipendente.]
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