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Meritano rispetto perché seguirono la via del dovere

Quando, l’8 maggio del 1945, i rappresentanti della Germania sconfitta firmarono la resa incondizionata del loro Paese, immediatamente ebbe inizio una vendetta preordinata, sistematica e capillare da parte dei vincitori: una vendetta che si dispiegò non solo sul piano materiale, e che si abbatté sui vinti con durezza implacabile, ma anche e soprattutto sul piano spirituale, avendo come obiettivo l’auto-disprezzo, l’auto-condanna e, se possibile, l’auto-annientamento morale dei membri delle forze armate e, in definitiva, dell’intero popolo tedesco. Fu una vendetta che mostrò come gli Alleati non avessero imparato assolutamente nulla dallo storico errore e dalla grande ingiustizia della pace di Versailles del 1919, causa determinante dello scoppio della Seconda guerra mondiale, e che rivelò anzi come la loro cecità, se possibile, fosse ulteriormente cresciuta. Se, nel 1919, i rappresentati della Germania avevano dovuto firmare un documento nel quale si assumevano, per conto della loro nazione, anche la responsabilità morale dello scoppio della guerra, adesso, nel 1945, e specialmente con il processo di Norimberga, concluso nell’ottobre del 1946, e con l’umiliazione della esclusione dalla firma dei trattati di pace del 1947, essendo stata annullata la sua persona giuridica, si volle fare ancora di più: si volle instillare nei militari tedeschi l’idea di essere stati dei criminali, e nel popolo tedesco, collettivamente e individualmente, l’idea di avere una colpa inespiabile per tutti gli orrori della guerra, e specialmente per il genocidio degli ebrei. Borgomastri e civili, rastrellati a caso, vennero condotti a forza nei campi di concentramento e costretti ad assistere al seppellimento, in fosse comuni, di montagne di cadaveri scheletriti, per prendere coscienza dei crimini del Terzo Reich, dei quali essi erano stati, così avevano deciso i vincitori, quantomeno dei complici morali. Nessuno chiese conto ai cittadini americani delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, né ai cittadini britannici del rogo insensato di Dresda, nel quale perì un numero ancor maggiore di civili inermi; e nessuno, ovviamente, chiese conto ai cittadini sovietici delle deportazioni, delle stragi, delle torture e degli stupri collettivi inflitti ai vinti, ivi compresi i polacchi nel 1939 e i romeni nel 1940, cioè prima che Stalin fosse promosso da Churchill e Roosevelt al rango di alleato, anzi, quando era ancora amico e alleato di Hitler (e mandava a quest’ultimo un messaggio di felicitazioni per la brillante campagna di Francia e la presa di Parigi). Ma per i tedeschi era diverso: erano un popolo criminale, un popolo barbaro e senza cuore; avevano servito e idolatrato l’uomo più malvagio della storia, avevano creduto in lui e gli avevano offerto la loro entusiastica collaborazione, perciò era giusto considerarli, ora, alla stregua di lebbrosi, e stabilire che la loro nazione non aveva diritto di esistere e di essere riconosciuta nel consesso delle nazioni civili. I profughi tedeschi delle province orientali, della Prussia, della Pomerania, della Posnania, della Slesia e quelli dei Sudeti, del Banato, della Transilvania dovevano sparire; e di fatto ne sparirono molte centinaia di migliaia, e di loro non si seppe più nulla. I prigionieri di guerra non meritavano un trattamento onorevole: dovevano scontare gli orrori di Auschwitz e di Treblinka. Vennero trattenuti per mesi, per anni, in condizioni igieniche inumane, sporchi, denutriti, maltrattati in mille modi: non solo quelli caduti nelle mani dell’Armata Rossa, che per la maggior parte tornarono a casa solo dopo molti anni, o non tornarono affatto, ma anche quelli catturati dagli Alleati occidentali. Ogni giorno ne morivano a decine, di malattie, di malnutrizione, di freddo, ma quello era il giusto castigo per essere stati dei nazisti, per aver militato nelle SS. I vincitori non fecero il minimo sforzo per capire la situazione psicologica e morale in cui si vennero a trovare i soldati, i marinai e gli aviatori tedeschi a partire dal 1939, anzi, dal 1933: non vollero fare distinzioni fra senso del dovere e fanatismo nazista; non vollero applicare ai tedeschi, che pure erano stati avversari valorosi, gli stessi criteri di comportamento che riservavano a se stessi: e cioè che un militare non deve discutere gli ordini, ma deve servire fedelmente la sua patria, specialmente quando essa è impegnata in una lotta decisiva per la vita e per la morte. 

La memorialistica tedesca relativa a quelle vicende è piuttosto abbondante e offre un grande interesse al lettore, anche a distanza di settant’anni. Gli ex militari tedeschi che hanno vissuto l’intera durata del conflitto, e poi le umiliazioni della prigionia – una esigua minoranza, perché la maggior parte di quanti furono chiamati alle armi nel 1939, nel 1945 erano morti – hanno narrato la loro tragedia, nella maggior parte dei casi, con molta sobrietà e dignità. Non hanno assunto toni vittimistici e lamentosi, non hanno invocato i loro diritti negati, si sono limitati a descrivere la sensazione di totale isolamento spirituale in cui vissero, fino alla resa, sotto un regime tirannico e spietato, che ancora negli ultimissimi giorni di guerra faceva impiccare e fucilare i combattenti per la più lieve infrazione al codice militare, e dopo la resa nei campi di prigionia dei vincitori, dove furono sottoposti a calcolate violenze e mortificazioni, al preciso scopo di annientare la loro fierezza e il loro senso di identità. Fra i tanti libri di memorie, scritti per onorare il ricordo dei commilitoni caduti, spicca quello di un comandante di sommergibile, Herbert A. Werner (1920-2013; naturalizzato americano nel 1957), che a soli venticinque anni aveva già raggiunto quel grado prestigioso e carico di responsabilità, prova evidente di come nelle forze armate tedesche fosse premiato il merito e di quanto fosse perfetta la macchina militare di quel Paese, che seppe razionalizzare al massimo il proprio sforzo bellico, al punto da costringere praticamente il mondo intero a coalizzarsi per poter sopraffare un  simile avversario. 

Scriveva Herbert A. Werner nell’introduzione al suo libro, Le bare di ferro (titolo originale: Iron Coffins, 1969; traduzione di Enzo Peru, Milano, Mondadori, 1970, pp. 13-14):

Questo libro, che riferisce le mie personali esperienze nell’arma sottomarina tedesca durate la seconda guerra mondiale, assolve un impegno assunto da molto tempo. Dalla fine di quella guerra distruttiva, il ruolo dei sommergibilisti tedeschi è stato, a volte, distorto e sottovalutato, anche dagli storici militari che avrebbero dovuto sapere la verità. Poiché io sono uno dei pochi comandanti di sommergibile tedeschi che abbia combattuto per quasi tutto il conflitto, e che sia riuscito a sopravvivere, ritengo sia mio dovere verso i miei camerati caduti rimettere le cose a posto. Dovere è una parola che uso deliberatamente, perché il dovere era la prima e l’ultima parola nel linguaggio dei sommergibilisti; e per quanto vi sia chi afferma il contrario, abbiamo fatto il nostro dovere con una lealtà e una correttezza che non ebbero rivali in nessuna delle altre armi, da questa o da quella parte del fronte. Noi siamo stati soldati e patrioti, né più né meno, e nella nostra dedizione alla nostra causa perduta siamo morti in numero spaventevole. Ma la grande tragedia dell’arma sottomarina tedesca non è stata semplicemente quella della morte di tanti valorosi, quanto il fatto che molte delle nostre vite sono state sacrificate inutilmente, a causa dell’equipaggiamento inadeguato e delle direttive incoscienti del Comando Sommergibili. Vista a posteriori, l’importanza dell’arma sottomarina è chiara e incontrovertibile. Indipendentemente dal fatto che la Germania avrebbe potuto o meno vincere la guerra, era comunque certo che l’avrebbe perduta e la colossale produzione delle fabbriche americane avesse raggiunto l’Inghilterra in quantità sufficiente. Fu questo il tema sul quale venne impostata l’epica "battaglia dell’Atlantico", nella quale gli U-boote costituirono l’avanguardia della difesa tedesca. Fu lo stesso Winston Churchill a dichiarare: "La battaglia del’Atlantico costituì il fattore dominante di tutta la guerra. Non potremmo dimenticare neppure per un momento che qualsiasi cosa accadesse altrove, per terra, per mare o nell’aria, dipendeva alla fin fine dal risultato di questa battaglia, e fra tutte le altre preoccupazioni, noi seguivamo le sue alterne fortune, giorno per giorno, con apprensione". È significativo che Churchill, il quale sapeva fin troppo bene quali danni avessero provocato la Luftwaffe le bombe volanti V-1 e V-2abbia anche scritto: "L’unico pericolo che mi abbia veramente fatto paura durante la guerra sono stati i sommergibili tedeschi". Dal punto di vista alleato, le fortune della guerra per la Germania seguirono parallelamente i successi e le sconfitte dell’arma sottomarina. E il parallelo diveniva sempre più evidente per me, ogni volta che tornavo a terra dopo una unga missione in mare.

E il capitano di vascello americano Edward L. Beach, nella prefazione allo stesso volume (pp. 7-8):

La guerra all’interno della Germania non è comunque che lo sfondo di questo libro, il cui tema dominante è la cronaca di una vita di incredibili difficoltà, di una guerra terrificante, di una determinazione assolutamente fantastica e di un’inflessibile dedizione da parte dei sommergibilisti tedeschi. Alla fine del volume, basta un’occhiata alle loro perdite — oltre il novanta per cento degli equipaggi effettivamente impegnati in mare (in raffronto con il conteggio consueto, che comprendeva anche quelli di base a terra) — per sentire l’impulso di togliersi rispettosamente il cappello. E c’è un punto estremamente chiaro: verso la fine della guerra, quando dei sommergibili in partenza si calcolava che soltanto due su dieci sarebbero tornati, questi uomini uscivano egualmente, senza discutere gli ordini e col morale alto, pur sapendo perfettamente che la maggior parte di loro non sarebbe rientrata alla base. La triste e ironica verità affrontata da Werner con lucida commozione, è che negli ultimi mesi quasi tutti si rendevano conto che la loro causa era ormai perduta. L’eroismo del guerriero, che è generalmente ingenuo, giovane, onorevole e incorruttibile, non basta a giustificare una causa sbagliata. Eppure, se pensiamo al dopoguerra, appare evidente che questi spirito indomito è stato uno dei pilastri sui quali la Germania ha ricostruito il suo onore nazionale. (…)

La virtù più alta di questi uomini fu la tenacia: forse una tenacia al di là della logica o di una ragionevole contropartita per i rischi affrontati — non che avessero, individualmente, altra scelta — e il libro si conclude, come doveva, in tono demoralizzato e disperato. Ma noi abbiamo seguito Werner nella sua maturazione, fino a che diventa un comandante duro, freddo, sicuro. Il suo fu l’ultimo sommergibile ad abbandonare la Francia durante la ritirata dopo lo sbarco alleato del 1944. Una mezza dozzina dei suoi predecessori erano morti nello stesso tentativo, eppure egli affrontò egualmente l’impossibile scommessa e riuscì a portare in salvo la sua unità, con un carico di uomini e materiali per una Germania ormai troppo devastata per saperlo o curarsene. Mentre tutto il suo mondo gli crollava intorno, Werner non era più il ragazzo che era andato per mare cinque anni prima. Era ormai, anche se aveva soltanto venticinque anni, un uomo in grado di vere lucidamente e registrare lo sfacelo generale, e capace, nondimeno, di restare al di sopra di quella danza macabra; di prender atto di ciò che era accaduto, quando ‘unica realtà tangibile, per lui e il suo equipaggio, rimase alla fine il vecchio sommergibile, pieno di acciacchi, difetti e guasti, alò quale fecero ritorno con sollievo do una licenza a terra troppo tragica per essere sopportata.

La grandezza di questi soldati fu proprio nella forza con cui resistettero al crollo di tutto il loro mondo, nel tenere alto il proprio onore mentre tutti sputavamo loro addosso, nel non piegare la fronte quando il mondo intero s’ergeva a giudice ed emetteva un’inappellabile sentenza di condanna contro tutti loro. Alcuni, schiacciati dal senso di desolazione e d’inutilità, si tolsero la vita; la maggior parte, però, decise di sopravvivere, cosciente di aver fatto onorevolmente il proprio dovere e decisa a difenderlo anche per conto dei camerati che erano caduti, e che ora giacevano in milioni di fosse senza nome, dalle Ardenne alle pianure russe, o in fondo ai mari di tutto il pianeta, chiusi nelle loro bare metalliche. I sopravvissuti, e soprattutto i loro figli, subirono un lavaggio del cervello senza precedenti: si volle inculcare in essi un inestinguibile senso di colpa, si volle caricarli di tutti i crimini, come se in una guerra così orrenda gli altri si fossero condotti in modo più cavalleresco. A Norimberga la beffa giuridica fu spinta sino a creare ad hoc dei reati, come quelli contro la pace, che non esistevano, e a condannare alla morte disonorevole dell’impiccagione dei soldati che avevano avuto la sola colpa di obbedire agli ordini. Certo, vi furono pagine alquanto buie nella storia militare tedesca, soprattutto ad opera delle SS; nondimeno, quei fatti devono essere valutati tenendo conto di tutte le circostanze e guardando anche al contegno degli eserciti delle potenze alleate. Fu suprema ipocrisia voler gettare la croce su una sola nazione, affinché i vincitori potessero autoassolversi, pur avendo compiuto, anch’essi, azioni disumane. Ma la storia la scrivono i vincitori: e così, per settant’anni, il mondo intero, e la Germania stessa, sono stati inondati da film, romanzi, fumetti e perfino giocattoli nei quali si esalta il nobile idealismo dei vincitori e si mostrano i soldati tedeschi nella luce più cupa, come un’orda di sadici. Non sarà ora di rendere loro giustizia?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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