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23 Maggio 2019Si discute di modernità e di antimodernità; di modernizzazione e di arretratezza; di modernità come progresso e di modernità come patologia degenerativa della civiltà. Sia i suoi ammiratori che i suoi detrattori sovente tralasciano di darne una definizione, sicché ciascuno, adoperando la parola modernità, si prende la libertà d’intendere i contenuti che vuole, il che inevitabilmente genera ambiguità e vere e proprie confusioni. Ma cos’è, in definitiva, la modernità? Quali sono gli elementi che la fondano, la definiscono, ne determinano la natura le funzioni, e ne circoscrivono l’orizzonte di senso? Una definizione interessante, e certamente utile, anche se non esaustiva (ma quale definizione potrebbe esserlo? La modernità, oggi, è… tutto, o quasi tutto, e anche il suo contrario), ci sembra quella data dal sociologo Alain Touraine (nato a Hermanville-sur-Mer, Normandia, il 3 agosto 1925-vivente), cui è attribuita la paternità dell’espressione "società post-industriale", nel suo libro La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo (titolo originale: Un nouveau paradigme. Pour comprendre le monde au jourd’hui, Paris, Fayard, 2004; tradizione di T. D’Agostini e M. Fiorini, Milano, Il Saggiatore, 2008, pp. 100-101):
Vagliate tutte le componenti della modernità che in genere vengono considerate più importanti, due di esse mi sembrano indispensabili per l’esistenza stessa della modernità, in quanto rappresentano la principale condizione di esistenza della libertà e della creatività all’interno di sistemi sociali che tendono naturalmente a rafforzare se stessi piuttosto che a formare attori liberi.
Il primo principio è la CREDENZA NELLA RAGIONE E NELL’AZIONE RAZIONALE. La scienza e a tecnologia, il calcolo e la precisione, l’applicazione dei risultati della scienza a campi sempre più vasti della nostra vita e della società sono per noi componenti necessarie e per così dire emblematiche della civiltà moderna. L’importante è sottolineare che la ragione non è fondata sulla difesa degli interessi collettivi o individuali, ma su se stessa e su un concetto di verità che non si definisce in termini economici o politici. La ragione è un fondamento non sociale della vita sociale, mentre la religione o il costume erano definiti in termini sociali anche se si riferivano a realtà trascendenti, essendo il sacro una realtà di natura sociale.
Il secondo principio fondatore della modernità è il RICONOSCIMENTO DEI DIRITTI DELL’INDIVIDUO, ovvero l’affermazione di un universalismo che riconosce a tutti gli individui gli stessi diritti, indipendentemente dai loro attributi economici, sociali o politici. Questa formulazione non intende pronunciare la parola fine in merito al dibattito sul posto delle comunità nelle società individualiste contemporanee. Tuttavia, quelli che dal 1789 in avanti chiamiamo diritti umani, diritti che sono stati integrati in numerose Costituzioni e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, vengono da noi riconosciuti come una forza che va al di là di ogni comunità e di ogni principio d’ordine.
Ecco dunque profilarsi la conclusione di questa breve analisi della modernità. Una società moderna è fondata su due principi che non sono di natura sociale: l’azione RAZIONALE e il riconoscimento dei DIRITTI UNIVERSALI di ogni individuo. Non facciamoci sorprendere da questa conclusione, perché la piena modernità è inevitabilmente l’opposto del modello comunitario. Così come l’ho definita, la modernità non è più una forma di vita sociale, ma è costituita dalle due forze opposte e complementari che danno a una società il pieno controllo su se stessa: tutto da un lato è creazione, azione, lavoro, e, dall’altro, libertà senza limiti e rifiuto di qualsiasi tipo di "moralizzazione" della vita pubblica che ridurrebbe la libertà dell’attore. I discorsi che facciamo su noi stessi ogni giorno, ma anche quelli che teniamo sugli altri, e sull’organizzazione sociale, non sono forse dettati dalla volontà di agire efficacemente e di affermare, contro ogni tipo di dominio, i diritti inalienabili di ognuno e dunque il principio di uguaglianza tra gli esseri umani che non potrebbe avere alcun altro senso? Questi due principi congiunti definiscono bene la modernità perché respingono qualsiasi ordine sociale che non si sia creato con le proprie forze e che sia subordinato, per esempio, a una rivelazione divina. È un’opposizione estrema, che ha suscitato conflitti diretti tra religione e modernità, come si è visto chiaramente nel mondo cattolico sotto il pontificato di Pio IX. L’idea di laicità è inseparabile da quella dei diritti dell’individuo, perché le religioni, che si proclamano custodi di credenze e rivelazioni di portata universale, non definiscono affatto i diritti dell’individuo come tale, ma al contrario sostengono l’uguale sottomissione di tutti a una volontà divina o a una saggezza rivelata. Quando un potere spirituale domina sul potere temporale o si mescola con esso, si crea una comunità definita dall’appartenenza dei suoi membri al corpo dei credenti e dalle pratiche di una religione che il potere temporale deve far rispettare.
Teniamoci, dunque, ai due fattori caratterizzanti della modernità secondo Touraine, anche se il primo, a nostro avviso, non è definito in maniera obiettiva, ma risente fortemente del clima auto-referenziale della modernità stessa (tutti i paradigmi culturali tendono ad autocelebrarsi, ma la modernità li supera tutti e di gran lunga, per il caratteristico disprezzo che riserva agli altri paradigmi, sulla base di una ragione che, lo dice lo stesso Touraine, non si fonda su alcun altro valore, ma pretende di fondarsi unicamente su se stessa). Non è definito in maniera obiettiva perché ci sembra che sia far torto sia alla civiltà greca, sia alla civiltà cristiana medievale, negare che anche in esse la ragione fosse un elemento essenziale, che le distingueva dalle altre e anche dai precedenti paradigmi dell’area mediterranea ed europea. Chi se la sentirebbe di affermare la stessa cosa, ossia la centralità della ragione, nella società egiziana, o in quella assiro-babilonese, o in quella cinese, o in quella azteca, o in quella incaica; per non parlare delle società celtiche, germaniche, slave, e tutte le altre preesistenti, in Europa, alla diffusione della romanità e del cristianesimo? Viceversa, è impossibile riferirsi alla civiltà greca senza pensare all’enorme sviluppo che vi ebbe la filosofia e, per conseguenza, la dimensione razionale dell’attività politica e sociale; e la stessa cosa, a fortiori, vale per la civiltà cristiana medievale, di cui san’Agostino, Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri non sono le eccezioni, ma le cime emergenti di una cultura che teneva in grandissimo conto la ragione e la valorizzava più di quanto non fosse mai avvenuto in precedenza. Se i protagonisti della Rivoluzione scientifica del XVII secolo e poi, nel secolo successivo, gli illuministi, non fossero stati completamene accecati dalla smania di far rifulgere se stessi come i campioni del pensiero "risorto", avrebbero dovuto riconoscere che il cristianesimo non ha affatto ostacolato, bensì incoraggiato lo sviluppo della ricerca razionale e che non ci sarebbero mai stati gli sviluppi del pensiero matematico e scientifico in Copernico, Galilei, Cartesio, Newton, se non ci fossero stati cinque secoli almeno di splendida fioritura della ragione all’ombra della Chiesa cattolica. Pertanto la definizione del primo principio caratterizzante della modernità andrebbe, secondo noi, modificato così: non la credenza nella ragione e nell’azione razionale, bensì: la credenza in una ragione spregiudicata e in rivolta contro la tradizione e contro la fede, e nell’azione razionale così concepita. E si potrebbe aggiungere che la fiducia nell’azione razionale, conseguenza della credenza nella ragione assolutizzata, si traduce sempre più spesso in una fiducia nell’azione fine a se stessa, purché siano razionai i modi e non necessariamente i fini perseguiti. Logico: un paradigma che mette al centro la ragione, ma che non definisce il suo rapporto con l’essere, per una sorta di allergia programmatica nei confronti della trascendenza, finisce per idolatrare l’agire per l’agire, alla sola condizione che i modi dell’azione siano improntati a una rigorosa razionalità. Ed è quasi superfluo aggiungere che una siffatta smania di attivismo, unita a una tecnologia sviluppata, inevitabilmente finisce per porre gli uomini davanti a situazioni insostenibili sia dal punto di vista materiale che psicologico, per la pressione a cui sono sottoposti dalla perdita di controllo sulle cose; situazioni a volte difficilmente reversibili.
Per quanto riguarda il secondo principio, il riconoscimento dei diritti dell’individuo, è senza dubbio, fra i due, il più specifico, il più determinante. La modernità è la modernità perché si è costruita sull’assioma dei diritti dell’individuo. Anche qui, però, ci sembra che bisognerebbe aggiungervi qualcosa; che la definizione, benché esatta e centrata, lasci fuori qualcosa, che non sia completa. Che l’individuo sia depositario di diritti universali e inalienabili; che sia depositario di diritti naturali, cioè che sia naturalmente soggetto di diritti, questa è la grande novità della civiltà moderna, ed è questo che la differenzia sostanzialmente da ogni altro paradigma culturale, compresi molti tuttora esistenti (quello islamico, per esempio; e anche quello giapponese, fortemente segnato dall’influenza dello scintoismo, nonostante la secolarizzazione). Nel caso della civiltà cristiana medievale, non è che l’individuo non fosse soggetto di determinati diritti, e sia pure delimitati da una serie di condizioni e di restrizioni, prima fra tutte la disuguaglianza di fronte alla legge (che prevedeva un tribunale ecclesiastico per i membri del clero, un tribunale di nobili per i membri dell’aristocrazia, e un tribunale comune per tutti gli altri). Sia il diritto romano, sia il diritto germanico, confluiti nella civiltà giuridica e spirituale del medioevo, prevedevano una serie di garanzie e di norme tutelari, che si estendevano perfino ai servi della gleba e, più tardi, agli indios della colonie spagnole (leggi speciali di Carlo V per la difesa degli amerindi dalle prepotenze dei coloni bianchi), benché, bisogna ammetterlo, rimanessero di frequente lettera morta, a meno che vi fosse una forte autorità locale intenzionata a farli rispettare: e tale fu il caso degli ebrei nella città di Roma e negli Stati della Chiesa, ove, nonostante una serie di limitazioni, poterono godere di un livello di sicurezza quale raramente si realizzò negli altri Stati europei. Il punto è che in tutte le civiltà, a eccezione di quella moderna, la protezione accordata all’individuo non è mai stata considerata fine a se stessa, ma come parte di un più vasto interesse collettivo: la sicurezza, la stabilità e la pace dell’intero corpo sociale. Mai, prima dell’avvento della modernità, è esistita una società, dalla più primitiva alla più complessa, dalle tribù amazzoniche all’Atene di Socrate, Fidia, Pericle, Platone e Aristotele, che abbia considerato la garanzia della assoluta libertà individuale come prevalente rispetto al bene comune, o che l’abbia considerata anche solo come un obiettivo desiderabile in se stesso. Tutte hanno sempre giudicato che, se l’individuo vuole vivere bene, deve concorrere col massimo impegno al bene comune, perché in una società percorsa da tensioni, squilibri e lacerazioni, nemmeno le singole persone possono sperare di vivere bene. Tutte hanno sempre saputo che è impossibile concepire l’individuo al di fuori della società, e che considerarlo come una monade isolata è una pura astrazione.
Tuttavia c’è un altro aspetto che rende incongruo e controproducente il tanto decantato principio del riconoscimento dei diritti dell’individuo, del quale la modernità va tanto fiera, e che considera come la massima delle sue conquiste. Si tratta di questo: che la natura non riconosce ad alcuno il benché minimo diritto: né quello di nascere, né quello di vivere, né quello di morire. È lei a decidere chi nasce, chi vive e chi muore, non l’Alta Corte di giustizia europea o qualche altra istituzione germogliata dalla cultura giuridica moderna. La sola forza che può mutare il corso della natura è quella divina; all’infuori di essa, nulla e nessuno possono garantire diritti che poi non è possibile far rispettare. Dunque, l’idea giusnaturalista è sbagliata e aberrante in se stessa: pretende dalla natura un certificato di garanzia che è solo frutto delle elucubrazioni di Grozio, Altusio, Pufendorf, e, poi, di Locke, di Rousseau, di Marx, di Pannella, di Boldrini, di Vendola e di mille altri. Se a ciò si aggiunge il fatto che il massimo dei diritti viene riconosciuto al singolo individuo, ma a patto che egli sia un cittadino, cioè a patto che si sottometta preventivamente al totalitarismo ideologico della modernità, mentre se non si piega, e se non è cittadino, non ha alcun diritto, tranne quello di essere trattato da nemico pubblico e, prima o dopo, spazzato via, si capirà come l’ideologia dei diritti garantiti incondizionatamente all’individuo finisca per distruggere sia il bene comune, sia lo stesso bene individuale, nel caso quel tale individuo non accetti di farsi irreggimentare e burocratizzare. Per esempio: un cittadino francese, come il povero Vincent Lambet, ha il "diritto", oggi, di esser lasciato morire di fame e di sete in ospedale, su richiesta della consorte, anche se lui non lo ha chiesto, così come un bambino a scuola ha il "diritto" che la maestra non si permetta di chiedergli chi sono suo papà e sua mamma, perché un tal modo di parlare potrebbe offendere i suoi genitori gay. Però, se un cittadino francese osa reclamare i suoi diritti sociali, e se sfida per mesi e mesi le forze dell’ordine, il freddo, gli stenti, per manifestare contro un infame governo di banchieri massoni, che certo non lo rappresenta, né cura i suoi interessi, allora viene trattato da delinquente e deve aspettarsi il pugno di ferro da parte dello Stato. Ecco: da questi frutti si riconosce la modernità.
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