
Ma erano davvero tutti e solo dei criminali?
1 Aprile 2019
E dopo l’anima, via la coscienza: che cosa resta?
2 Aprile 2019La storia viene scritta dai vincitori: questa è una cosa che si sa. Logico, quindi, che dopo il 1945 la storia dei fascismi e quella del comunismo, la storia delle due guerre mondiali e specialmente della seconda, fosse scritta in un certo modo: separando in modo manicheo i Buoni dai Cattivi, e mostrando tutti i meriti dei primi e tutte le iniquità dei secondi. Dove i Buoni erano gli anglosassoni e il sistema capitalista, ma anche, paradossalmente, i sovietici e il totalitarismo staliniano; mentre i Cattivi erano stati dapprima i monarchi degli Imperi Centrali, nel 1914, poi il fascismo e il nazismo, con Hitler e Mussolini nel ruolo di super-cattivi, accanto ai militaristi e agli imperialisti giapponesi. Chiaro anche che, in un tale schema, non ci fosse spazio per l’imperialismo dei Buoni, quello britannico, quello americano e quello sovietico; né per altri dettagli di minore importanza, come le atrocità da quei tre regimi attuate prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. In Italia, comunque, la cultura era stata ceduta in comodato dal partito cattolico alla sinistra, per cui il vero Buono era lui, Josif Stalin, e l’ideologia che egli rappresentava; gli altri due, lo Zio Sam e Sua Maestà britannica, impersonavano un sistema che hegelianamente doveva essere "superato" e dialetticamente risolto nella sintesi finale: il comunismo mondiale. Così ce l’hanno raccontata, e così ci hanno raccontato anche la nostra stessa storia, la storia d’Italia; lasciando intatta la mitologia del Risorgimento Buono e negando sdegnosamente ogni connessione fra questo il Fascismo cattivo (con buona pace di Giovanni Gentile che vedeva una perfetta continuità fra le due cose); e costruendo una ulteriore mitologia, quella della Resistenza, che avrebbe dovuto completare, ammiccando decisamente a sinistra, la prima, quella del Risorgimento, la cui opera, ossia la costruzione della coscienza nazionale, era rimasta palesemente incompiuta. Ed è così che, rovesciando letteralmente i fatti, la logica e il buon senso, l’8 settembre del 1943 era stato riscattato e "superato" secondo la dialettica storica hegeliana e marxista: da morte della Patria, quale effettivamente è stato, a rinascita dalla Patria e, nello stesso tempo, nascita di una nuova coscienza civile, naturalmente orientata a sinistra. Tanto è vero che il nome di Garibaldi era stato abusivamente accaparrato dalle brigate e dalle divisioni partigiane comuniste durante la guerra civile del 1943-45 e la sanguinosa mattanza finale, quella dell’aprile, del maggio e del giugno 1945, a guerra cioè ormai finita, quando "sparirono" alcune decine di migliaia di cittadini italiani, generalmente nelle foibe e in altre cavità carsiche, non solo al di là ma anche decisamente al di qua dell’Isonzo; però, secondo la narrazione politically correct, non mancanti affatto all’appello, e quindi, chissà, rapiti forse in cielo su un carro di fuoco, come il profeta Elia.
Le cose stavano a questo punto quando, negli anni ’60 del Novecento, a dieci, quindici anni dalla fine della Seconda guerra mondiale (e della nostra guerra civile, come di altre guerre civili), si è levato un fortissimo vento da sinistra, ancor più impetuoso di quello del 1945, anche perché non più centrato sulle attese messianiche dei carri armati sovietici e dei cavalli dei cosacchi che avrebbero dovuto abbeverarsi nelle fontane di Piazza San Pietro (anche perché in Piazza San Pietro non ci sono fontane), ma su nuovi miti neo-marxisti, in particolare sul Buon Selvaggio latino-americano — tipica manifestazione: Ernesto "Che" Guevara, riedizione di Gesù Cristo in salsa guerrigliera, col sigaro e il basco, e senza trascurare le suggestioni cinematografiche dello spaghetti western di ambientazione messicana, tipo Vamos a matar compañeros di Sergio Corbucci o Giù la testa di Sergio Leone — e sul Buon Studente Rivoluzionario — in particolare l’ebreo tedesco Daniel Cohn Bendit: gli uni e gli altri, freudianamente più che stalinianamente, erano in rivolta contro il Padre (effettivamente, il buon Josif sembrava troppo un Grande Papà e quindi era ormai giunto agli sgoccioli della sua spendibilità ideologica, almeno in Occidente) e l’abietta tirannia da lui esercitata in quella orribile galera, in quella fetida sentina che si chiama Famiglia basata sull’unione di un uomo e di una donna e aperta alla procreazione naturale dei bambini. Stiamo parlando, naturalmente del ’68, ma anche dell’evento che lo ha preparato, reso possibile e alimentato per diversi e copiosi rivoli: il Concilio Vaticano II, che è stato una rivoluzione nella Chiesa, tanto quanto il ’68 è stato una rivoluzione nella società profana, cominciando appunto dalla scuola/università e dalla famiglia, le due istituzioni maggiormente dileggiate, detestate e prese a bersaglio. Che cos’è infatti una rivoluzione, se non un cambiamento radicale, pressoché totale, che investe tutti gli aspetti della vita, e dal quale non sarà più possibile tornare indietro, neppure se la rivoluzione stessa dovesse venire soffocata? Tale è stato il Vaticano II per la vita della Chiesa, così come lo è stato il ’68 per la società, la politica, la cultura, l’immaginario della società profana.
Ebbene, le due rivoluzioni degli anni Sessanta, quella ecclesiastica e quella civile, che sono poi confluite in una sola (nel senso che tutti i cattolici di sinistra e tutti i preti di sinistra sono confluiti nell’alveo del ’68, alcuni fino agli esiti estremi, cioè fino alle aberrazioni culturali e sessuali del Forteto e fino alla scelta della lotta armata, nelle Brigate Rosse o in altri gruppi terroristici dell’ultrasinistra) hanno portato nuova linfa alla già stanca e declinante mitologia resistenziale-repubblicana; le hanno impresso quello slancio nuovo, quel bagno di giovinezza che i vecchi partigiani, anche per ragioni anagrafiche, non potevano più darle (e infatti l’insurrezione di Genova, nel 1960, si ricollegava al mito dell’antifascismo del 1944-45, e intanto apriva la strada a ulteriori sviluppi in chiave più aggiornata e moderna). Anche perché il boom rivoluzionario degli anni ’60 ha definitivamente accreditato l’idea di un Fascismo eterno, che non passa, che non passerà mai, perché è una categoria del Male Assoluto; per cui il capitalismo, il colonialismo, il neocolonialismo, ma anche la figura del Padre autoritario e della Madre possessiva, e naturalmente quella del Prete reazionario e del Professore burocrate e insensibile (quanto male ha fatto la Lettera a una professoressa dei ragazzi di don Lorenzo Milani: più male, avrebbe detto il buon Metternich, di una battaglia perduta) erano tutti volti e incarnazioni di questo "nuovo" Fascismo, che non era più quello storico, creato da Mussolini e morto con lui, ma un nuovo Fascismo, onnipresente, capillare, indistruttibile, al quale si potevano e si dovevano ricondurre tutte le ingiustizie, tutte le cattiverie, tutte le insensatezze, perché il Fascista non è più un uomo, ma un demone, un agente della distruzione, l’esatta antitesi del Buon Selvaggio e del Buon Rivoluzionario, quindi un personaggio non solo indegno di godere di alcun diritto, ma anche, in ultima analisi, indegno di continuare a vivere. L’unico Fascista Buono è quello morto: tale era il mantra, inconscio e tuttavia fortissimo, che rimbombava nella mente di tutti i ragazzi "impegnati" e "progressisti", dal 1960 in poi, per almeno una trentina d’anni. Ora, tutti questi giovani rivoluzionari, o, più spesso, tutti questo giovani borghesi e figli di papà i quali s’immaginavano (nei loro sogni tardo-adolescenziali) di essere dei rivoluzionari e che giocavano a fare i rivoluzionari, costituivano, per il loro supremo ed ebete conformismo (dell’anticonformismo: ma poco importa) un eccezionale serbatoio di mercato. Come subito videro sia la grande industria, sia la grande finanza, da cui dipendono i capitali per il cinema di massa, per l’abbigliamento, per la musica leggera e per tutto ciò che fa tendenza. Pertanto, essere rivoluzionari e di sinistra, che già era una moda, divenne anche un business; e un capitolo non secondario di tale business fu quello editoriale. Le case editrici si affannarono a tradurre e pubblicare libri di sinistra, romanzi on the road, saggi di filosofia e di politica marxista, leninista, gramsciana, situazionista, trotzkista, terzomondista, maoista, castrista, sandinista, e chi più ne ha, più ne metta. Le grandi case editrici non meno delle piccole; quelle blasonate e radical-chic, come la Einaudi, e quelle nuove, agili e militanti, come la Feltrinelli. Quanto ai cosiddetti intellettuali, quello è stato il momento d’oro degli storici, dei saggisti, dei pensatori (o sedicenti tali), non meno dei cantautori e dei registi cinematografici e teatrali, che hanno potuto riprendere, sviluppare e assolutizzare la cultura democratico-resistenziale che già era stata posta a fondamento (mitologico) della Repubblica di Pulcinella, cioè la Repubblica antifascista e fondata sul lavoro che era uscita dalle urne (forse) con il voto del 2 giugno 1946. In quegli anni, fra i ’60 e i primi ’80, sono andati a ruba, fra gli altri, i saggi storici — ma bisognerebbe scrivere storici fra virgolette — dedicati al fascismo, al nazismo, alla Seconda guerra mondiale, nonché le biografie di Hitler e Mussolini, nei quali il pubblico dei neo-conformisti e pseudo rivoluzionari trovava esattamente quel che desiderava: dei movimenti politici e dei personaggi della storia recente sui quali riversare tutto il proprio sdegno, tutto il proprio disprezzo, tutta la propria nobilissima indignazione, tanto più che erano culminati nell’Olocausto, antefatto della nascente Religione dei Sei Milioni, vale a dire del distillato del politically correct, da cui tutte le altre forme di politicamente corretto discendono, e da cui ricevono la loro legittimazione (e senza la quale non sono nulla).
Come tipico esempio di quella sottocultura progressista e antifascista, citiamo il giudizio conclusivo sulla figura e l’opera politica di Mussolini da parte di William L. Shirer (Chicago, 1904-Boston, 1993), giornalista e sedicente storico dalle altissime tirature, nella sua fortunatissima Storia del Terzo Reich (titolo originale: The Rise and Fall the the Third Reich, Simon & Schuster, New York, 1960; tradizione dall’americano di Gustavo Glaesser, Torino, Einaudi, 1962, vol. 2, pp. 1512-1513):
Così cadde, in modo ignominioso [cioè con i fatti del 25 luglio 1943 il moderno cesare romano, il capo dalle frasi bellicose che aveva saputo approfittare della confusione e della disperazione del XX secolo, ma che dietro le pompose apparenze era fatto di cartapesta. Come uomo non mancava d’intelligenza. Libri di storia, ne aveva letti molti e pensava di averne appreso le lezioni. Ma, come dittatore egli cadde nel fatale errore di voler trasformare in una grande potenza guerriera e imperiale un paese che mancava delle risorse industriali necessarie per questo scopo e il cui popolo, a differenza dei tedeschi, era troppo civilizzato, troppo smaliziato, troppo realista per lasciarsi sedurre da tali vuote ambizioni. In fondo, il popolo italiano, sempre a differenza dei tedeschi, non aveva mai accettato il fascismo. Lo aveva semplicemente sopportato, sapendo che esso rappresentava una fase transitoria. Di ciò Mussolini, verso la fine, sembra che se ne rendesse conto. Al pari di tutti i dittatori egli fu trasportato dalla sete di potere, che come accade inevitabilmente, lo corruppe, gli corrose la mente e gli avvelenò il discernimento. Di qui il suo secondo fatale errore, quello di legare le fortune sue e dell’Italia al Terzo Reich. Quando la campana cominciò a suonare a morte [sic] per l Germania di Hitler, ciò vale anche per l’Italia di Mussolini, e sopraggiunta l’estate del 1943, il capo italiano la udì. Ma non poteva far più nulla per sfuggire al proprio destino. Era ormai prigioniero di Hitler.
Si resta imbarazzati davanti a tanta faziosità, a tale assoluto disprezzo per le regole elementari della obiettività storica; ci si chiede se autori come Shirer non provassero, almeno in privato, un po’ di vergogna a fare "storia" a questo modo: ma la risposta, senza dubbio, deve essere negativa. Perché avrebbero dovuto? Avevano dalla loro il vento di sinistra che soffiava sul mondo intero; erano forti dell’onda rivoluzionaria degli anni ’60; nessuno avrebbe guardato per il sottile, nessuno avrebbe cercato il pelo nell’uovo. L’importante era demonizzare, ridicolizzare, immiserire quei personaggi, quei movimenti (che qui non stiamo difendendo; stiamo solo facendo una riflessione sull’onestà intellettuale: del resto, abbiamo scritto decine di volte quale distanza siderale ci sia tra il fascismo il nazismo, fra Mussolini e Hitler). Mussolini, il capo dalle frasi bellicose, aveva saputo approfittare della confusione e della disperazione del XX secolo? Ma questa non è storia: questa è ideologia allo stato puro. Il vero storico si chiede, semmai, se Mussolini, oltre ad approfittare di quelle circostanze non ne era stato, e in quale misura, il prodotto. Oppure il fascismo nasce dal niente, e Mussolini era solo un abile prestigiatore? Suvvia, cerchiamo di essere seri. L’affermazione poi, che Mussolini dietro le pompose apparenze era fatto di cartapesta, è semplicemente gratuita e volgare, indegna di un autentico studioso. Di cartapesta è questo modo di studiare la storia: senza indagare le cause dei fenomeni, ma scegliendo frasi ad effetto, cariche di pathos e di moralismo da quattro soldi. Davvero Shirer, che rimprovera Mussolini di essere stato solo un leader parolaio e sbruffone, non si accorge che frasi come: Così cadde, in modo ignominioso il moderno cesare romano, sono solo aria fritta e letteratura di cattiva qualità? Si noti che il sottinteso di Shirer è che non vi è nulla di male, se si è anglosassoni, a voler costruire un impero che si regge sullo sfruttamento dei popoli africani e asiatici; il problema sorge se è un dittatore italiano a volerne costruire uno. È la stessa linea che verrà seguita dai vari Denis Mack Smith e Richard Bosworth, che tanto piace ai lettori anglosassoni, ma anche agl’italiani progressisti e antifascisti, incurabilmente esterofili e antinazionali. Il giudizio di Shirer sugli italiani? Parrebbe elogiativo, in confronto a quello sui tedeschi; ma lo è poi davvero?
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