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31 Ottobre 2018Il cavallo rosso di Eugenio Corti è uno di quei casi letterari che fanno bene sperare. Il libro, apparso in libreria nel 1983, nel 20015 era già arrivato alla trentunesima edizione, e questo nonostante alcune circostanze oggettivamente poco favorevoli, che hanno reso il successo di pubblico poco meno di un miracolo. Oltre all’assenza di una grossa casa editrice, capace di pubblicizzarlo adeguatamente e fornita degli agganci giusti per muovere la critica che conta, e oltre alle considerevole molte dell’opera (qualcosa come 1.200 pagine di testo!), pesava come un macigno il fatto che l’autore fosse poco conosciuto, e ciò per un motivo preciso, ossia per un ostracismo decretato dalla cultura egemone, dominata dal P.C.I. Combattente della Seconda guerra mondiale e reduce dalla Russia, Eugenio Corti, classe 1921 (e deceduto nel 2014), brianzolo di Besana, laureato in giurisprudenza alla Cattolica, aveva esordito nel 1947 con un libro autobiografico, I più non ritornano (con Garzanti, poi con Mursia), seguito da un secondo dello stesso genere, I poveri cristi, nel 1950; indi era sparito, per riapparire nel 1962, quando la Compagnia Stabile di Diego Fabbri, a Roma, mise in scena, a Roma, il suo dramma Processo e morte di Stalin. L’opera suscitò il furore e l’indignazione dei comunisti, perché ne emergeva una sentenza di condanna definitiva non per questa o quella forma di marxismo, ma per il marxismo in quanto tale; e siccome i compagni, allora, detenevano quasi tutti i posti che contano nella critica letteraria, nelle università, nelle case editrici e nelle giurie dei premi letterari, la sentenza di tradusse in un ostracismo tenace e definitivo, inappellabile. Né valse a migliorare le cose il fatto che l’Autore, per niente pentito di aver giudicato severamente Stalin e Togliatti, e tutta la religione di cui essi erano stati i sommi sacerdoti, si impegnò sul fronte politico e civile, in una prospettiva cattolica e anticomunista: discepolo di don Carlo Gnocchi, si schierò attivamente per il referendum abrogativo della legge sul divorzio, che si presentò al responso delle urne, e fallì, appunto nel 1974. Eppure, a dispetto di questo formidabile sbarramento e di queste circostanze sfavorevoli, l’opera si è imposta. È piaciuta, gli italiani l’hanno letta: evidentemente, una generazione vi si è rispecchiata e vi si è riconosciuta. Una generazione onesta, vorremmo aggiungere; non una generazione ipocrita e fasulla, che, dopo essersi ubriacata con i fumi della rivoluzione, ha continuato a glorificare se stessa, pur senza creder più nei suoi vecchi ideali, così, per narcisismo e per forza d’abitudine: tanto era abituata ad autocelebrarsi. E a conferma del valore dell’opera, anche al di là del particolare significato che essa ha avuto come testimonianza delle vicende di una generazione italiana, il romanzo è stato tradotto in una quantità di lingue straniere, dal lituano al giapponese. Con buona pace dei critici trinariciuti di casa nostra, il romanzo è un gran bel romanzo, lo dice il pubblico di tutto il mondo e se a loro non è piaciuto, tanto peggio, bisogna che se ne facciano una ragione.
Il cavallo rosso narra le vicende di una famiglia di piccoli imprenditori tessili e di un gruppo di personaggi le cui vite s’intrecciano con essa, e abbraccia il periodo che va dal 1940 al 1974: più particolareggiatamente durante la guerra, cui sono dedicati i primi due volumi, Il cavallo rosso e Il cavallo livido, più velocemente per il periodo che va dal dopoguerra all’inizio degli anni ’70, L’albero della vita. Metà Promessi Sposi e metà Il mulino del Po, o, se si preferisce, Guerra e pace, il romanzo è un vasto affresco di storia italiana, che fa impallidire, al confronto, i romanzi dei tanto celebrati autori di sinistra, tutti di corto o cortissimo respiro, tutti monotematici, ripetitivi, quasi ossessivi e addirittura scontati: la denuncia sociale, lo sfruttamento di classe, lo sfaldamento morale dell’odiata borghesia, non senza frequenti incursioni, o evasioni, nei regni "alternativi" alla società borghese in putrefazione, dalla droga alla violenza, dall’omosessualità al ribellismo velleitario e alla sterile celebrazione del buon selvaggio in salsa nostrana, per esempio nei "ragazzi di vita" della periferia romana, sempre, peraltro, in chiave omofila. Invece nel libro di Eugenio Corti c’è tutto il mondo, e non guardato dal pertugio del proprio gabinetto, ma abbracciato affettuosamente in tutta la sua estensione, a trecentosessanta gradi: ci sono i valori tradizionali, senza enfasi ma senza vergogna: Dio, Patria e Famiglia; ci sono gli affetti puliti, l’amore fra uomo e donna nella prospettiva di una comunione di vita, l’amore dei padri verso i figli e dei figli verso i padri (con buona pace di Freud e di tutti gli psicanalisti ortodossi o eterodossi), l’amore per la Patria, spinto sino al sacrificio di sé; e ci sono quel senso di compassione e solidarietà umana, quella benevolenza e quella bontà che non degenerano mai in buonismo, quella sensibilità alle pene e al dolore altrui che non permette mai di vedere nell’avversario un nemico da odiare e da distruggere, unito a quel sano buon senso contadino che ha fatto grande l’Italia dei nostri nonni e le ha consentito una ripresa straordinaria dopo la catastrofe della guerra perduta.
Ebbene in questo libro che ha le cadenze epiche del romanzo storico e l’intima sobrietà del romanzo di formazione, vi è una miniera di spunti, di osservazioni, di riflessioni, ciascuna delle quali meriterebbe uno studio a sé. In questa sede ne trascegliamo una, che ci è parsa particolarmente attuale e pregnante, che si può formulare nella seguente domanda: quando la società europea ha incominciato a scristianizzarsi? Domanda decisiva, sia per un credente, sia per chiunque sia pensoso dei destini del nostro continente e si chieda come i popoli europei potranno superare, ammesso che ciò sia ancora possibile, la gravissima crisi morale e spirituale che li la sospingendo, gradualmente e inesorabilmente, verso l’oblio di sé e la dissoluzione. Riportiamo dunque la seguente pagina dalla terza parte, L’albero della vita, con le riflessioni di Michele Tintori, uno scrittore amico del protagonista, Ambrogio Riva (da: E. Corti, Il cavallo rosso, Milano, Ares, 1983, e San Paolo, 2008, vol. 3°, pp. 251-253):
D’accordo con molti altri studiosi cattolici, Michele vedeva il principio della scristianizzazione nel passaggio dall’umanesimo cristiano all’umanesimo "tout-court": passaggio che — iniziatosi in Italia — era giunto a produrvi un primo e perfetto – anche se su scala ridotta — Hitler o Stalin, col granduca Valentino, il famoso principe del Machiavelli. Si trattava d’un uomo della cerchia papale: fin là dunque s’erano infiltrati il riscoperto paganesimo e l’immoralità che aveva cominciato a corrompere un po’ dovunque i costumi cristiani… Quel tragico processo era stato più tardi arrestato, e poi rovesciato (segno questo, secondo Michele, che Cristo è sempre coi successori dei suoi apostoli, per quanto indegni e peccatori) dalla grande riforma cattolica, la cosiddetta Controriforma, la quale però non aveva potuto interessare tutta la cristianità, e nelle stesse nazioni cattoliche non tutti quanti gli ambiti culturali. A quel primo gigantesco episodio di scristianizzazione Marx — secondo quanto risultava a Michele — non aveva dato rilievo; egli aveva invece afferrato molto bene, e salutato con entusiasmo, il passo successivo, cioè la frattura prodotta nella società cristiana dal protestantesimo. Partendo dal presupposto che "la critica alla religione è la premessa d’ogni critica", Marx aveva indicato in Lutero il liberatore dell’uomo "dalla schiavitù esteriore a Dio", e mostrato come la filosofia tedesca avesse poi successivamente completata l’opera di Lutero, liberando l’uomo anche dalla "schiavitù interiore a Dio". Una volta "liberi" da Dio — in pratica dalla sua morale — i diversi gruppi umani comunque in grado d’aspirare al predominio (dapprima lo stato, poi la classe, poi la razza) avevamo — sempre secondo l’individuazione di Michele — teorizzata ciascuno la propria supremazia e l’asservimento a sé di tutti gli altri gruppi, e in modo tanto più radicale quanto più il senso morale cristiano s’era andato attenuando. I due episodi-apice di questo processo erano stati finora lo sterminio dei sei milioni d’ebrei inermi nella lotta razziale nazista, e di dieci milioni (come si riteneva: in realtà erano stati il doppio) di contadini russi, pure inermi, nella lotta di classe comunista. Questo gigantesco fenomeno d’annientamento dell’uomo, ch’era il vero prodotto della sua "liberazione da Dio", il giovane scrittore aveva cercato di renderlo in modo definitivo: s’era però reso conto di quanto l’impresa fosse difficile, stanti gli innumerevoli preconcetti ormai introdotti dal laicismo e dalla scristianizzazione un po’ in tutte le menti. Aveva avvertito che le pur rigorose analisi su cui le sue pagine si fondavano avrebbero urtato contro molti ostacoli: perciò s’era sforzato di dare ad ogni singola pagina il massimo d’incisività. Perché l’opera lo soddisfacesse appieno gli sarebbe occorso altro tempo: durante il quale tuttavia la sua voce non sarebbe stata presente nel concerto della cultura in un periodo in cui nuove apocalittiche stragi — ad opera dei comunisti detentori del potere — avevano cominciato a prodursi in Asia; s’era dunque risolto a pubblicare l’opera non rifinita, col proposito di ritornarci eventualmente sopra in seguito. Anche perciò si era accorto che — nonostante la ferma vigilanza di papa Pio [XII] — un grave errore di matrice francese, tendente a presentare le verità marxiste come "verità cristiane impazzite", ma pur sempre verità cristiane — stava subdolamente infiltrandosi nello stesso mondo cattolico, col rischio d’una immensa confusione; ciò l’aveva reso tanto più impaziente.
Ah, povero Michele: nonostante la tua impazienza e la tua tempestività, quella confusione immensa che temevi, si è puntualmente verificata, e proprio per le ragioni da te intuite: una subdola infiltrazione, nella dottrina cattolica, e quindi nella sua morale, di un pensiero e di una morale non cattolici. Comunque, e anche se non tutto quel che dice Michele/Corti ci persuade, nell’insieme ci sembra di poter dire questo: vi è una concezione più coerente, più salda, più nitida, in questa pagina di prosa, che in molti e molti libri di filosofia contemporanea. Qui l’autore del Cavallo rosso ci dà una grande lezione di filosofia della storia e ci mostra, argomentando, come Lutero non abbia sfondato alcuna porta, perché la porta era già caduta sui suoi stessi cardini; la crisi morale della Chiesa era già iniziata e pertanto la Riforma cattolica è stata davvero una Riforma con la maiuscola, e non, come hanno voluto descriverla, per rimpiccolirla, gli storici protestanti, una mera reazione difensiva; ma la malattia che aveva provocato la crisi aveva ormai sparso i suoi semi, e quei semi — l’umanesimo laico e tendenzialmente ateo — avrebbero comunque dato i loro frutti: dal duca Valentino nell’Italia del 1500 a Hitler nella Germania nel XX secolo. L’estromissione di Dio dalla vita degli uomini, iniziata nel cuore della cristianità prima di Lutero, e proseguita e culminata con il nazismo e il comunismo, ha recato con sé una progettualità politica sempre più ambiziosa e sempre più brutale: stati, classi e razze si sono scagliati gli uni contro gli altri, per annientarsi a vicenda. Sono forse il custode di mio fratello?, risponde Caino al Signore, che gli ha chiesto conto di Abele, da lui appena assassinato. Questo insegna la storia del Novecento, e non altro: questi sono i frutti dell’umanesimo radicale e dell’illuminismo ateo. Liberarsi da Dio, in pratica, ha significo, per gli uomini moderni, libertà di uccidere, di sopraffare, di sterminare. Come teorizzava Ivan Karamazov: Se Dio non esiste, allora tutto è permesso. Il cristianesimo ha impiegato quasi duemila anni per domare l’istinto belluino degli uomini, per insegnar loro la dolcezza del perdono e il calore della misericordia; ma non appena gli uomini si sono sbarazzati del Vangelo, in pochissimo tempo sono regrediti al loro stato primordiale, reso, se possibile, ancor più distruttivo dal possesso di una tecnologia assai sofisticata. Machiavelli ha cacciato la morale dalla politica, e Marx ha ripreso e sviluppato le sue premesse: i genocidi del XX secolo sono la coerente applicazione delle dottrine dell’umanesimo ateo. Il senso morale cristiano ha fatto la grandezza e l’unità dell’Europa; l’orgoglio dell’uomo che si fonda solo su se stesso ha fatto di essa il laboratorio dell’inferno. E l’ha lacerata e disgregata, sino a sprofondarla nell’inerzia e nell’impotenza attuali. E ancora, mentre la civiltà europea sta naufragando, mente i popoli europei sono paragonabili ai passeggeri del Titanic, impegnati a brindare e a ballare mentre la grande nave su cui sono a bordo ha le ore contate, pare che le cose più importanti di cui intellettuali e legislatori si devono occupare, quelle da lasciare in eredità alle generazioni future, siano l’eutanasia, la libertà di drogarsi, il pieno riconoscimento delle unioni omosessuali e le adozioni di bambini da parte delle copie omofile. Vi è una Nemesi in tutto ciò; e tanto peggio per chi non la sa vedere e non è capace di riflettervi.
Se vi è ancora una sia pur minima possibilità di spostare la barra del timone e correggere la rotta, prima che il prossimo iceberg urti la chiglia della nostra nave, essa non può che passare per una assunzione di consapevolezza. Ma divenire consapevoli significa risvegliarsi e aprire gli occhi; e risvegliarsi significa liberarsi da tutto ciò che, finora, ha reso ciechi i nostri occhi: i pregiudizi radicati, tipici della modernità, di cui parla Michele ne Il cavallo rosso. Fino a quando seguiteremo a baloccarci con pregiudizi come quelli che la modernità ci ha messo in capo, e che si riassumono in questo: l’uomo è capace di fare grandi cose, purché sappia liberarsi da ogni "illusione" basata sulla trascendenza — la nave seguiterà a condurci, dritti, dritti, lungo la rotta degli iceberg e delle nebbie…
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