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29 Ottobre 2018
Fedeltà, coerenza, onore: il test del 25 luglio 1943
30 Ottobre 2018Ci sono degli snodi, delle situazioni tipiche, delle fasi cruciali, nella storia d’Italia, che si ripetono con significativa e, per certi aspetti, inquietante regolarità. È come se il film della storia corresse in avanti, ma, misteriosamente, nello stesso tempo corresse anche all’indietro e così finisse per tornare sempre al punto di partenza. Come se il popolo italiano si muovesse lungo una scala mobile la quale, da parte sua, si muove nella direzione opposta, col risultato surreale di una massa umana che si muove, eppure resta ferma.
Partiamo dall’inizio. Tralasciando l’Italia pre-romana, per ovvie ragioni, e anche l’Italia romana, sia perché non esisteva ancora il popolo italiano, sia perché l’Italia fu conquistata da Roma, ma l’Impero Romano non fu mai un impero italiano, bensì qualcosa di meno (della città di Roma) o qualcosa di più (uno Stato universalistico), risulta che l’Italia, la sua occasione di "nascere" come Stato fra gli altri Stati, la ebbe, e se la giocò, dopo la dissoluzione dell’Impero carolingio, mentre nascevano anche la Francia e la Germania: precisamente dopo la deposizione di Carlo il Grosso, con la dieta di Tribur (Treviri) nell’887, e nessun altro imperatore fu collocato al suo posto. A quel tempo, non esistevano neppure il popolo "francese" e il popolo "tedesco", però essi erano in formazione, in tutti i sensi, compreso il piano linguistico, come è attestato dal giuramento di Strasburgo dell’842, che i soldato di Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico fecero nelle rispettive lingue, il francese e il tedesco. Tanto meno esisteva il popolo italiano: e nondimeno esso era allo stato nascente. Perciò, quando diciamo che l’Italia si giocò, e giocò malissimo, le sue carte per diventare una nazione fra le altre e uno Stato fra gli altri, siamo consapevoli che la parola "Italia" è, se non proprio un’astrazione, il che sarebbe esagerato, certo una potenzialità: quel che avrebbe potuto essere. Ma, per l’appunto, le cose non andarono come avrebbero, forse, potuto andare; e mentre Francia e Germania divennero, già a partire dal IX e X secolo, due nazioni con i rispettivi popoli, l’Italia perse la sua occasione, e accumulò un ritardo di secoli, che non è più riuscita a colmare. Non l’ha colmato neppur oggi, perché il popolo italiano è ancora una realtà in formazione: e se, da un lato, mostra, come del resto gli altri popoli europei, la stessa tendenza senile e degenerativa di chi è ormai troppo stanco per accettare le sfide della storia (denatalità, ultraindividualismo, edonismo diffuso, fuga dalle responsabilità sociali), dall’altro lato, a differenza di quelli, non ha ancora terminato la compattazione interna, e quindi si trova particolarmente esposto e fragile di fronte agli elementi disgregatori sia interni che esterni. È questa la vera ragione per cui gli italiani, pur avendo delle grandissime potenzialità, non riescono mai a "fare squadra", sicché vengono superati da popoli meno intelligenti, meno laboriosi e meno tenaci, ma ormai amalgamati al loro interno e quindi capaci di stringersi intorno a un obiettivo comune, sia esso difensivo oppure espansivo. Per esempio, non c’è alcuna ragione oggettiva per cui la Francia è oggi una potenza, e l’Italia un Paese subalterno: in nessun campo, e neppure in quello economico; se non che la Francia ha avuto qualche secolo in più per amalgamare il proprio popolo e, sotto la guida di una monarchia nazionale, abituarsi a una mentalità collettiva, mentre da noi prevalgono sempre e comunque le logiche individualiste o, al massimo, corporative.
Da questo punto di vista, lo abbiamo già detto molte volte e lo ripeteremo instancabilmente, non si deprecherà mai abbastanza il fatto che l’Italia, con la guerra civile del 1943-45 e con la disfatta patita nella Seconda guerra mondiale, quel certo tipo di disfatta, cioè una disfatta anche morale e una bancarotta dello Stato in quanto tale, ha mancato la sua ultima, storica occasione di completare l’opera ancora incompleta della formazione di una coscienza nazionale, cioè, in altri termini, di fare il popolo italiano, obiettivo che né il Risorgimento, né la Prima guerra mondiale (questa, però, più di quello) erano riusciti a realizzare. E quindi non deprecheremo mai abbastanza il fatto che allora, e perfino oggi, a settant’anni di distanza, si sia stato e vi sia chi non ha capito e non capisce che quella disfatta non fu la disfatta del fascismo, ma dello Stato italiano e del popolo italiano; e che noi tutti ne avremmo pagato le conseguenze per almeno un secolo e forse più, accrescendo il ritardo rispetto agli altri grandi Stati d’Europa. È umiliante, per esempio, che il presidente Mattarella vada in Grecia a deplorare l’aggressione italiana del 1940: perché nella Seconda guerra mondiale non c’erano i buoni contro i cattivi, ma erano tutti, se vogliamo, "cattivi", e l’Italia cercò di fare, ma lo fece malissimo, quel che facevano tutti, a cominciare dalla democrazie plutocratiche: difendere i propri interessi e assicurarsi il proprio "spazio vitale". Chiedere scusa per quella campagna militare è antistorico, come lo sarebbe pretendere le scuse dalla Francia o dalla Spagna per le guerre di conquista in Italia del secolo XVI, o dall’Austria per il trattato di Campofomio che pose fine alla millenaria Repubblica di Venezia. Ma, soprattutto, denota una totale incomprensione di quel che è stata, per noi, la Seconda guerra mondiale: la quinta e ultima guerra d’indipendenza (dopo quelle del 1848-49, del 1859, del 1866 e del 1915-18), e che l’abbiamo persa malamente. Certo, la Grecia era una piccola pedina nel grande gioco delle potenze: però era una pedina sostanzialmente nelle mani di Churchill, e non senza delle ragioni strategiche ben precise l’Italia sferrò l’attacco del 1940. Certo, quell’attacco si rivelò infelice in tutti i sensi, e oggi è "facile" chiedere scusa per esso; ma se si fosse risulto in un rapido e brillante successo, e se, più in generale, la Seconda guerra mondiale si fosse decisa altrimenti e l’Asse avesse prevalso, oggi nessuno si sognerebbe di chieder scusa di nulla. La verità è che uomini di quel tipo seguono la corrente: nell’Italia democratica e antifascista chiedono scusa per i "crimini" del fascismo e fanno sperticate apologie della democrazia; ma sono gli stessi che, durante il ventennio 1922-1943, puntavano il dito contro i crimini delle plutocrazie e facevano le lodi sperticate della dittatura. Ed è lo stesso tipo umano che nel 1938 firmava il Manifesto della razza, mentre oggi si spolmona a ricordare gli orrori dell’antisemitismo e si profonde in scuse verso la comunità ebraica nazionale e internazionale. Gente senza spina dorsale, senza onore, senza morale, perfino senza cultura né senso storico. Gente buona per tutte le stagioni: figli e nipoti legittimi del 25 luglio e dell’8 settembre 1943. Gente per cui saltare da una barricata all’altra è la cosa più naturale di questo mondo e che rivela, in tali frangenti, un’agilità e una prontezza di riflessi veramente encomiabili.
Ma torniamo a quel fatidico 887 dopo Cristo e alla deposizione di Carlo il Grosso. Scriveva Franco Landogna, professore all’Università di Roma , in un — allora — celebre manuale scolastico, Il genio dei popoli (Torino, G. B. Petrini, 1951, vol. II, pp. 64-65):
Alla deposizione di Carlo il Grosso, anche il regno d’Italia rimase indipendente, ma anch’esso sconvolto dallo spirito anarchico dei grandi signori. I marchesi d’Ivrea, del Friuli, di Toscana, di Spoleto si contrastavano la corona; appena uno l’aveva afferrata, ecco gli altri coalizzarsi contro di lui, tramargli contro, cercare di abbatterlo; e se non riuscivano, SUSCITARGLI CONTRO QUALCHE COMPETITORE D’OLTRALPI.
In queste condizioni si disputarono la corona italiana anzitutto Berengario del Friuli e Guido di Spoleto. Prevale quest’ultimo; morti lui (894) e il figlio e successore Lamberto, Berengario poté ricuperare il trono, ma non seppe difendere l’Italia né contro gli Ungheri né contro i Saraceni. I grandi signori infine gli si ribellarono e dettero la corona prima a Rodolfo re di Borgogna (924-26), indi a Ugo signore di molte terre nel regno di Provenza. Il re Ugo (926-45) seppe contenere gli Ungheri scacciare i Saraceni dalle Alpi, tenere a freno i gradi signori, e tentò perfino, sebbene senza successo, di estendere il suo dominio su Roma. Ma appunto il consolidarsi della potenza regia dispiaceva ai grandi signori, uno dei quali, Berengario di Ivrea, giunge infine a scacciare Ugo (945) e ad assumere il governo, prima come tutore di Lotario, figlio di Ugo, poi, dopo la morte di Lotario, in nome proprio (950). Berengario voleva fare sposare la vedova di Lotario, Adelaide, al proprio figlio Adalberto, per assicurarsi così contro eventuali tentativi di rivincita; ma Adelaide ricusò e fuggì in Germania, offrendo al giovine re Ottone di Sassonia la propria mano e l’aiuto dei suoi partigiani per conquistare l’Italia.
Infatti Ottone sposò Adelaide, costrinse Berengario a recarsi in Germania a prestargli giuramento di fedeltà come vassallo e a cedergli le marche di Verona, del Friuli e dell’Istria, che furono aggregate al ducato di Baviera (952). COSÌ IL REGNO D’ITALIA DIVENTAVA UNA DIPENDENZA DI QUELLO DI GERMANIA; E PER OLTRE TRE SECOLI LA STORIA DEI DUE POPOLI FU INTIMAMENTE INTRECCIATA. Avendo poi Berengario tentato di sottrarsi alla pesante dipendenza, il re Ottone, anche per incitamento del papa Giovanni XII desideroso di restaurare l’Impero carolingio, venne in Italia, depose Berengario, ASSUNSE PERSONALMENTE IL TITOLO DI RE D’ITALIA, e nel 962 si fece coronare dal Papa imperatore.
Da questo momento in poi, chi riesce a ottenere la corona regia di Germania HA SENZ’ALTRO, E PER CIÒ SOLO, DIRITTO ANCHE ALLA CORONA D’ITALIA E A QUELLA DEL SACRO ROMANO IMPERO.
In questa sintesi storica, occorre evidenziare i seguenti punti:
a) i signori italiani del IX e X secolo si contrastavano la corona; appena uno l’aveva afferrata, ecco gli altri coalizzarsi contro di lui, tramargli contro, cercare di abbatterlo; e se non riuscivano, SUSCITARGLI CONTRO QUALCHE COMPETITORE D’OLTRALPI. E la stessa cosa faranno i signori italiani alla fine del XV secolo: si pensi a Ludovico il Moro che invita in Italia il re di Francia, Carlo VIII, per togliere di mezzo il suo nemico, Alfonso d’Aragona; e si pensi, più tardi alla Lega di Cambrai per stroncare la potenza crescente di Venezia: sempre con la massiccia partecipazione straniera. Meglio un padrone straniero che uno italiano.
b) Adelaide ricusò [di sposare Adalberto, figlio di Berengario d’Ivrea] e fuggì in Germania, offrendo al giovine re Ottone di Sassonia la propria mano e l’aiuto dei suoi partigiani per conquistare l’Italia. Ecco una regina che invita in Italia un conquistatore stranero; siamo nel solco di Onoria, sorella di Valentiniano III e figlia di Galla Placidia, che invita a Roma Attila, re degli Unni; e di Eudossia, vedova di Valentiniano III, che invita Genserico, re dei Vandali.
c) Ottone sposò Adelaide, costrinse Berengario a recarsi in Germania a prestargli giuramento di fedeltà come vassallo e a cedergli le marche di Verona, del Friuli e dell’Istria, che furono aggregate al ducato di Baviera. Comincia così l’infeudamento dell’Italia alla Germania; e si noti che Ottone fece quel che farà Hitler nel settembre 1943, allorché questi costrinse il suo vassallo a cedergli le regioni nordorientali per assicurarsi la via d’accesso oltre le Alpi: la Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico (tutto il Friuli e la Venezia Giulia sino a Fiume e Zara, più la nuova provincia di Lubiana) sotto il Gauleiter Friedrich Rainer, e la Zona d’Operazioni delle Prealpi (le province di Trento, Bolzano e Belluno) sotto il Gauleiter Franz Hofer.
Il quadro che emerge da questa pagina di storia ci mostra una classe dirigente debole, divisa, disposta a infeudarsi allo straniero, pur di eliminare i propri oppositori interni; e un popolo apatico, rassegnato, che subisce qualunque passaggio di governo, interno o esterno. Ed è un quadro che si ripete ogni qual volta all’Italia sembra dischiudersi la possibilità di riprendere il posto che le spetta fra le grandi nazioni: c’è sempre qualche vassallo italiano che invita, o che appoggia, un potere straniero. E non si creda che le cose siano andate tanto diversamente nel 1945. Il mito della Resistenza si fonda sull’ipotesi che l’Italia, se Hitler avesse vinto la guerra, si sarebbe trovata del tutto infeudata alla Germania; ma quel che si sa con certezza è che i fautori della caduta del fascismo, e della guerra civile, vennero messi in sella, a guerra finita, dai vincitori anglo-americani, totalmente infeudati ad essi, al punto che solo 1954 eìriottennero Trieste e che ancora oggi la nostra classe dirigente non osa nemmeno starnutire se non è sicura di avere il placet del padrone esterno; gli Stati Uniti sul piano politico-militare e l’Unione Europea su quello economico-finanziario. Qualcuno ha mai visto un governo italiano, con la sola eccezione del governo Craxi ai tempi dell’incidente di Sigonella, dire "no" agli Stati Uniti? E qualcuno ha mai visto un governo italiano, prima del governo Conte, dire "no" ai signori di Bruxelles? Al contrario: quel che vediamo, ai nostri dì, è lo spettacolo indecoroso delle opposizioni interne, sinistra (Pd e Sel) e destra (Forza Italia e, in parte, Fratelli d’Italia) che cercano d’ingraziarsi i padroni di Bruxelles, pronosticando disastri agli italiani se continueranno a lasciarsi governare da quelli che hanno liberamente eletto, cioè la Lega e il Movimento 5 Stelle. E il presidente Mattarella (come il papa Giovanni XII) che, andando ben oltre i suoi limiti costituzionali, ammonisce gl’italiani che l’adesione all’Unione Europea è un fatto assolutamente definitivo e irreversibile. È sempre la storia di Berengario e di Ottone, che si ripete. Ma noi, inguaribili ottimisti, speriamo sempre in un soprassalto di dignità e orgoglio degli italiani…
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