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Capire il fascismo è tornare a Vittorio Veneto

Capire il fascismo, la sua genesi, il suo spirito, le sue motivazioni profonde, è cosa impossibile se non si torna a Vittorio Veneto, la battaglia decisiva della Prima guerra mondiale sul fronte italo-austriaco. Questa intuizione, fondamentalmente giusta, è stata rapidamente obliata, perché aveva il torto di venire, in gran parte, dai fascisti stessi; e i fascisti, o gli ex fascisti, dopo il 1945 non avevano più il diritto di esprimere un’opinione sulla genesi del loro stesso movimento. O meglio, potevano sì esprimerla, ma non pretendere che venisse presa sul serio dalla cultura che conta, quella che celebra il potere di turno: in questo vaso, il potere democratico e repubblicano, fondato sul valore "perenne" del’antifascismo. Cioè, tradotto in parole semplici, e come sempre è stato e sempre sarà, solo i vincitori hanno il diritto di fare la storia (e gli alleati, i servi e i traditori al servizio dei vincitori, quelli veri e non quelli fasulli); ma gli sconfitti, no, hanno solo il diritto di levarsi di mezzo e rinunciare a sostenere le loro ragioni: perché ragioni, per definizione, non ne hanno, né possono permettersi di averne. Ci mancherebbe altro. Mica hanno perso per niente, o meglio, mica i vincitori hanno vinto per nulla: cioè per dare anche ai vinti il diritto di dire la loro. Tutti possono parlare, specie in democrazia, tranne gli sconfitti: se parlano, lo fanno a loro rischio e pericolo, cioè sapendo che qualunque cosa dicano, o non verrà minimamente presa in considerazione, oppure verrà ritorta contro di loro.

Dunque, fin dai primi anni del fascismo, lo storico militare Luigi Villari, oggi naturalmente dimenticato (1876-1959; c’è una voce a lui dedicata nella versione inglese di Wikipedia, ma nulla in italiano, e si capisce perché) ebbe il "torto" di esporre la più logica, la più coerente, la più naturale interpretazione della genesi morale e psicologica del fascismo, che dopo il 1945 venne letteralmente fatta "sparire", come si fa con un parente pazzo del quale ci si vergogna, perché, altrimenti, sarebbe andato di mezzo il mito creato dai vincitori" (fra virgolette, perché i partigiani italiani, specialmente comunisti, si illusero di essere un po’ vincitori anche loro; mentre i veri vincitori furono solo ed esclusivamente gli angloamericani, e i veri sconfitti furono tutti gli italiani, di destra, di sinistra e di centro: sconfitti in quanto popolo, in quanto nazione), quello della Resistenza — proibito parlare di guerra civile — come secondo Risorgimento e come "rinascita" della nazione. Come possa rinascere una nazione che combatte una guerra civile al fianco di eserciti stranieri ed invasori, intenzionati a togliergli la sovranità effettiva anche a guerra terminata, in saecula saeculorum, come di fatto è accaduto, resta un mistero arduo da capire; ma si sa, quando si fa della mitologia, tutto è possibile, e così la mitologia della Repubblica di Pulcinella, ormai da settant’anni, continua a servirci questo piatto immangiabile e indigeribile, affermando che il 1943-45 vide niente di meno che la "resurrezione" della Patria: operazione del resto necessaria, perché, diversamente, crollerebbero del tutto le basi morali, per quanto fasulle, sulle quali la nuova classe dirigente andata al potere dopo la sconfitta ha tentato di ricostruire la nazione e lo Stato. Ebbene, l’interpretazione di Luigi Villari è questa: per capire il fascismo bisogna tornare Vittorio Veneto, allo spirito di sacrificio e di eroismo che condusse l’Italia alla vittoria nella Prima guerra mondiale; e, se non basta Vittorio Veneto, si torni pure al Grappa e al Piave, alle giornate del novembre e dicembre del 1917, quando tutto pareva perduto dopo la sì disfatta di Caporetto e invece, contro tutte le aspettative, anche degli alleati, il fronte "tenne" e l’offensiva austriaca venne fermata, in una maniera che stupì il mondo, e che mostrò di cosa fossero capaci gli italiani, una volta compresa quale fosse la posta in gioco nella lotta contro gli Imperi Centrali: la sopravvivenza dell’indipendenza nazionale. E questo fu il nostro secondo Risorgimento; non certo la cosiddetta Resistenza del 1943-45.

Ora, quello spirito rischiava di essere vanificato nel primo dopoguerra; coloro i quali avevano avversato la guerra — non solo la dichiarazione di guerra, nel maggio del 1915, ma anche lo sforzo bellico, e avevano fatto di tutto per boicottarlo — si pensi solo ai cinque giorni di sangue di Torino dell’agosto 1917, fomentati dai socialisti massimalisti e ispirati dalla Rivoluzione russa — nel 1919 e nel 1920 volevano prendersi la rivincita su quelli che avevano combattuto, creduto e vinto: era la rivincita dell’Italia della disfatta, di Caporetto, del tutti a casa, contro l’Italia che aveva stretto i denti e tenuto duro, o tutti eroi o tutti accoppati, e di qui non si passa. Le cose erano giunte a un punto tale che girare per la strada in uniforme, mostrare le medaglie, salutare la bandiera o gridare Viva l’Italia! poteva significare rischiare la vita; quelli che avevano odiato la guerra, ora odiavano quanti l’avevano fatta; il loro obiettivo era accendere la miccia della rivoluzione, "come in Russia", e mettere in pratica la parola d’ordine di Lenin: trasformare la guerra mondiale (ormai, peraltro, finita, e finita vittoriosamente) in una guerra civile. Perché il vizietto della guerra civile, i rossi, l’avevano fin dal 1919; nel 1943 si sarebbero limitati a tirarlo fuori dall’armadio, e dal 1945, dopo aver reso presentabile il concetto con l’espressione eufemistica di "liberazione", ne avebbero fatto la pietra d’angolo della loro mitologia democratica (loro che democratici non erano mai stati, né mai si erano considerati tali: tali sono gli arcani della vulgata politically correct).

Uno storico militare britannico molto apprezzato, il generale John F. C. Fuller (1878-1966), autore dell’opera monumentale Le battaglie decisive del mondo occidentale, in tre grossi volumi, ha ripreso l’interpretazione del Villari e l’ha esposta nel terzo volume della sua opera (titolo originale: The Decisive Battles of the Western World and their Influence upon History, 3 vols., London, Eyre & Spottiswoode, 1948; traduzione dall’inglese di Raffaele Noviello, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1988, vol. 3, pp. 314-315):

Senza Vittorio Veneto, Mussolini sarebbe rimasto un oscuro scrittore e la prima grande vittoria sul bolscevismo non sarebbe mai stata vinta. Invece egli diventò un oracolo ispirato da una nuova fede e il secondo aspetto importante di Vittorio Veneto non si riferisce al fatto che la filosofia del fascismo fosse buona o cattiva, ma che essa annunciava l’avvento di un’era di guerre ideologiche che avrebbero lasciato perplesso l’intero mondo, perché con il trionfo di Lenin sullo zarismo era nata una nuova epoca di crociate e Mussolini era il primo crociato occidentale. L’Italia aveva subito perdite per un milione di morti e circa il doppio di feriti. Con la crisi causata dalla guerra e con milioni di uomini che soffrivano la fame, costituiva un’ottima preda per la rivoluzione,

"L’esempio della Russia — scrive il Villari — esercitò immensa influenza e fu preso a paragone; i leader estremisti socialisti… mantenevano stretti contatti con Mosca e descrivevano le condizioni della Russia come quelle di un Paradiso in terra, convincevano un gran numero di lavoratori che, se un simile regime fosse stato introdotto in Italia, ognuno sarebbe stato felice senza nessun bisogno di lavorare" ("The Awakng of Italy", pp. 50-51). Seguì un episodio di scioperi rivoluzionari e disordini. Quando nel giugno 1919 diventò primo ministro, Francesco Nitti consentì a socialisti e comunisti di operare liberamente e, temendo di non resistere alla follia bolscevica, tentò di guadagnarsi il loro sostegno. Poiché disprezzava l’esercito, scatenò una campagna selvaggia contro coloro che servivano nell’esercito o vi avevano prestato servizio. I militari venivano insultati nelle strade, le medaglie venivano strappate dai loro petti e non pochi furono assassinati da bande di ribaldi pagati da politici. Disertori e criminali militari furono liberati, la disciplina fu scossa… "Proprietari terrieri grandi e piccoli, coltivatori diretti e contadini che si rifiutavano di obbedire alle loro ingiunzioni furono boicottati, ridotti alla fame, derubati e, non raramente, assassinati. Il latte veniva rifiutato ai bambini dei genitori boicottati, l’assistenza medica era rifiutata agi ammalati e perfino i morti non potevano essere seppelliti. Nessuna bandiera tricolore poteva essere esposta ad una finestra, senza che la casa venisse danneggiata e gli abitanti brutalmente oltraggiati" (ibid, pp. 158-159).

L’uomo che si oppose più ardentemente a tale ritorno allo spirito di Caporetto fu Mussolini. Il 23 marzo 1919, reclutò nel suo piccolo ufficio editoriale il primo fascio di combattimento, un gruppo di giovani che avrebbe lavorato alla rigenerazione dell’Italia. Subito gruppi si aggiunsero a gruppi, tutti composti principalmente da ex soldati, uomini che ricordavano i sacrifici sopportati in guerra e che avevano imparato che, senza disciplina e cameratismo, non si poteva conseguire niente che avesse valore. I fasci si ispiravano allo spirito di Vittorio Veneto e fu grazie a loro che il predominio socialcomunista fu abbattuto., prima nella pianura padana e poi nel resto d’Italia.

L’8 novembre, Mussolini inquadrò i suoi sostenitori nel partito fascista. Secondo le sue stesse parole, il suo scopo era quello di sostenere la "visione integrale di quell’Italia che a Vittorio Veneto aveva inaugurato un nuovo capitolo della sua storia". Lo spiegava come segue: La nazione è un organismo comprendente una illimitata serie di generazioni, di cui gli individui sono semplici elementi transitori: essa è la suprema sintesi di tutti i valori materiali e non materiali della razza… Le istituzioni politiche sono efficienti solo se i valori nazionali trovano in esse espressione e protezione" (ibid, p. 166).

Questo doveva essere il seme di una nuova concezione di vita in Italia; una sfida non solo al bolscevismo, che doveva trovare la sua fine nella polvere, ma anche al materialismo che aveva generato la guerra e che aveva rovinato le nazioni economicamente, socialmente e moralmente. Nel 1922, nel’anniversario di Vittorio Veneto, Mussolini ordinò a quattro colonne dei suoi seguaci di marciare su Roma, "un evento di significato più profondo per l’Europa — scrive Francis Neilson — della ritirata di Brunswick da Valmy" ("The Makers of War", 1950, p. 138) e, su proposta di Salandra, fu nominato primo ministro dal re. Una volta al potere, ripulì la stalla d’Augia italiana.

La versione di comodo, elaborata da tutti gli schieramenti che confluiscono nel paradigma politicamente corretto, dai liberali ai marxisti, è che il fascismo sia sorto misteriosamente, in una Italia che, sia pure tra incertezze e sbandamenti, era incamminata verso la democrazia; che abbia imposto il suo giogo brutale alla società, che si sia impadronito dello Stato e lo abbia trascinato nella dittatura, nel disonore e nella rovina. Si tace che nel 1919-20 l’Italia era già sull’orlo della rovina; che socialisti e comunisti non puntavano alla democrazia, ma alla rivoluzione, e in molte zone avevano già imposto la loro tirannia violenta; e che, per farlo, avevano coltivato e sobillato lo spirito di Caporetto, lo spirito di disfatta, antinazionale, di odio contro tutto ciò che rappresentavano Dio, patria e famiglia. Tale spirito di disfatta aveva già condotto l’Italia sull’orlo del baratro, nei giorni di Caporetto; se l’Italia, come nazione, si era salvata, era stato per la pronta reazione degli elementi sani della società, sia militari che civili, che avevano generato lo spirito del Piave e, poi, di Vittorio Veneto. Giusta o sbagliata che fosse stata la decisione di entrare in guerra nel 1915, la nazione e l’esercito avevano sopportato sacrifici immensi; nel 1918 quei sacrifici avevano portato alla vittoria, ma sia la vittoria, sia la nazione e i suoi valori, erano nuovamente in pericolo nel 1919, perché i socialisti e i comunisti, che avevano avversato la guerra e boicottato lo sforzo bellico, covavano uno spirito di rivalsa contro quanti l’avevano combattuta. Il fatto di aggredire i reduci, di sputacchiarli, di strappar loro dal petto le medaglie, nasceva da questo rancore, da questo odio antinazionale, in nome dell’internazionalismo marxista e dell’esempio bolscevico, che si voleva imitare. Quindi nel 1919 si fronteggiavano due Italie: quella che voleva salvare il valore dei sacrifici sopportati in vista del bene nazionale, e quella che voleva vanificare i frutti della vittoria per piombarla definitivamente nel caos, e profittarne per scatenare la rivoluzione. Da una parte lo spirito d’ordine, di disciplina, di solidarietà con i vivi e con i morti, caduti nella lotta, e di difesa dei valori nazionali; dall’altra lo spirito di anarchia, apolide, ostile o indifferente ai valori nazionali, giudicati "borghesi" in nome dell’antagonismo di classe: la rivincita degli imboscati che avevano assistito alla vittoria quasi con dispetto, perché allontanava le loro utopie rivoluzionarie. Certo è un po’ una semplificazione, perché senza dubbio esistevano anche altri fattori; tuttavia non è affatto esagerato contrapporre lo spirito di Caporetto allo spirito di Vittorio Veneto. Se avesse vinto il primo — come poi vincerà nel 1943, col funesto tutti a casa!, principio della servitù nazionale verso forze straniere — l’Italia, come nazione sovrana e indipendente, avrebbe cessato di esistere venticinque anni prima di quel che accadde. Perciò non era affatto una sciocca vanteria quella di Mussolini, quando disse a Vittorio Emanuele III: Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto. Se si vuol capire il fascismo, bisogna partire da qui; altrimenti, non resta che parlare di una calata degli Hyksos, come Croce, o d’un complotto delle classi ricche ed egoiste per schiavizzare il popolo. Che però non fu schiavizzato, ma ebbe dal fascismo la prima, vera legislazione sociale della sua storia…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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