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23 Marzo 2018Com’era Oswald Spengler, visto da vicino? Certo, per capire il filosofo Spengler non è necessario conoscere la sua biografia, tanto meno il suo ritratto dipinto da un contemporaneo; ma per capire qualcosa dell’uomo Spengler, come esempio di un intellettuale della rivoluzione conservatrice tedesca fra le due guerre mondiali, allora sì. Tanto più che il suo ritratto è quello tratteggiato da un osservatore che, come Friedrich Reck-Malleczewen, per la sua nitida visione cattolica, assai critica sia del nazismo, sia dello "spenglerismo", era in condizione di vedere proprio ciò che, osservando il "fenomeno Spengler" dal punto di vista, ora assolutamente dominante, se non esclusivo, della cultura di sinistra, tende a sfuggire pressoché del tutto: vale a dire il suo aspetto rivoluzionario, e sia pure rivoluzionario di destra.
Premettiamo che Spengler, come del resto è noto, non è mai stato nazista; e che, se anche le sue opere e il suo pensiero sono potuti piacere ai gerarchi nazisti, ma specialmente quella della seconda fase della sua produzione – come del resto le opere e il pensiero di Heidegger -, la luna di miele non era destinata a durare, date le premesse notevolmente diverse delle rispettive concezioni ideali. In particolare, pur se auspicava un capo carismatico che prendesse in mano i destini della Patria e pur se riteneva che, per scongiurare, o almeno per ritardare, l’estrema catastrofe dell’Europa, fosse necessario affidarsi "al ferro e all’acciaio" più che alla cultura e alla politica tradizionali, Spengler non si affiancò ai nazisti nelle loro violente campagne antisemite, e questo rifiuto di far suo uno dei capisaldi del programma hitleriano avrebbe potuto costargli caro, se la morte non fosse giunta, l’8 maggio 1936, all’età di soli cinquantacinque anni (era nato a Blankenburg, sullo Harz, il 29 maggio 1880), in tempo per sottrarlo a probabili conseguenze, pochi mesi dopo l’entrata in vigore le leggi di Norimberga contro gli ebrei del 15 settembre 1935. In fondo, Spengler era un pessimista radicale, e proprio per tale ragione il suo pensiero non si prestava ad essere utilizzato dai nazisti, proprio come quello di Pirandello — se ci è concesso di fare questo paragone — poco e male si prestava ad essere strmentalizzato dai fascisti. Nondimeno la filosofia di Spengler era, a suo modo, "rivoluzionaria", nel senso che teorizzava una rottura con la tradizione e l’avvento di un modo completamente nuovo di fare la politica, capace di stare al passo con gli sviluppi della tarda civiltà moderna, ormai entrata, per lui, nella fase tipicamente decadente della "civilizzazione", caratterizzata da urbanesimo, gigantismo architettonico, cosmopolitismo, relativismo, edonismo, indifferentismo religioso, affievolimento della creatività artistica e intellettuale. Come altri intellettuali tedeschi degli anni ’20 e ’30, e non solo tedeschi – si pensi, ad esempio, allo scrittore polacco Witkiewicz, delle cui idee ci siamo occupati in un apposito lavoro — era ossessionato dalla minaccia bolscevica gravante da Est, e, più in generale, dalla "barbarie asiatica", spada di Damocle sospesa sul cuore della civiltà europea; idea che trova riscontro nelle tesi storiografiche di Ernst Nolte circa il nazismo come "risposta" difensiva al pericolo bolscevico (curiosamente, questa tesi era stata in qualche modo prefigurata, per il fascismo, da un pensatore anarchico, Luigi Fabbri, che vide nel movimento di Mussolini una specie di "rivoluzione preventiva" contro la minaccia di una rivoluzione comunista; anche di ciò abbiamo scritto a suo tempo). Contemporaneamente, la paventata possibilità di una sorta di alleanza fra bolscevismo e razze gialle emergenti (si pensi allo slogan del "pericolo giallo", diffuso in quegli anni in molti ambienti conservatori europei) combaciava con le tesi diffuse dall’americano Lothrop Stoddard circa l’eventualità che la razza bianca venisse sopraffatta da una aggressione simultanea delle razze di colore, che avrebbero potuto strapparle per sempre l’egemonia mondiale.
Per Spengler, tutto questo si inseriva in un contesto più ampio, caratterizzato dagli sviluppi sempre più rapidi dell’industria pesante e dalle innovazioni tecnologiche, che stavano cambiando non solo le modalità produttive, ma la faccia stessa del mondo, e rimodellando in maniera radicale i modi di vivere e di pensare dei popoli, nel senso di spingere le masse verso un materialismo sempre più marcato. Il rimedio a tutto questo, se pure esisteva, non poteva essere in un ritorno ai modi di pensare e alla organizzazione economica e sociale anteriore al 1914, perché si doveva prendere atto che i cambiamenti in corso erano irreversibili e, anzi, destinati ad andare sempre più lontano. La sola risposta possibile, per Spengler, consisteva nell’adeguarsi pienamente a tali processi di gigantismo industriale e finanziario e di rimodellamento sociale, nel tentativo di assumerne il controllo mediante una decisione "eroica", magari da parte di una élite decisa, energica, "cesariana", un po’ sul modello del Principe di Machiavelli. Il tempo incalzava, ne restava ormai poco: l’Occidente avrebbe potuto rallentare il proprio tramonto solo se avesse trovato in se stesso le energie per prendere saldamente in pugno la situazione e per trasformare gli elementi di dissoluzione in altrettanti elementi di potenziamento e di difesa della civiltà europea. Se vogliamo, un concetto che ricorda abbastanza da vicino le tesi di Julius Evola sulla capacità di "cavalcare la tigre": quando le trasformazioni sociali e culturali si presentano come inarrestabili, l’unica cosa che si può fare, per non esserne travolti, è assecondarle, e nello stesso tempo, cercare di volgerle a proprio favore, o, almeno, fare sì che perdano anche solo una parte delle loro potenzialità ciecamente distruttive.
Ed ecco il punto: questo programma ideologico, considerato da un punto di vista cattolico, e quindi tradizionalista e antimoderno (parliamo del cattolicesimo dei primi decenni del ‘900 e, comunque, di un cattolicesimo che non aveva, e non ha, nulla a che fare con la neochiesa del signor Bergoglio, dei vescovi di strada e dei teologi progressisti e modernisti odierni), è, a suo modo, un programma rivoluzionario, e quindi non è l’antitesi del rivoluzionarismo di sinistra, ma qualcosa di simile e speculare ad esso, una sua copia uguale e contraria. In questo senso, non ci sono nemmeno delle differenze sostanziali fra l’ideologia nazista e la filosofia di Spengler, in quanto, sia pure con notevoli differenze, esse hanno in comune proprio con il nemico marxista la cosa più importante: la volontà di "cavalcare" la minaccia della modernità — lo sterminio di classe per gli uni, il capitalismo selvaggio e di rapina per gli altri — adottando in larga misura la stessa agenda della modernizzazione: industrialismo accelerato, subordinazione della politica all’industria, della cultura all’economia, della tradizione al progresso, della creatività al "cesarismo". Anzi, si può perfino azzardare che il nazismo, in ceti suoi aspetti – per esempio, nell’utopia ruralista e nei temi legati all’agricoltura biodinamica, cari a un Erhard Bartsch, un Alwin Seifert e un Walther Darré (ma anche al padre dell’antroposofia, Rudolf Steiner) era più "conservatore" di quanto non lo fosse il pensiero di Oswald Spengler — e, se è per questo, di altri esponenti della così detta "rivoluzione conservatrice" tedesca, come Ernst Jünger, Carl Schmitt, Hugo von Hoffmansthal, Ernst von Salomon e Gottfried Benn – il quale, dopotutto, era disposto a modificare radicalmente la prospettiva culturale e sociale tradizionale, pur di assecondare, ma in definitiva per poterle controllare, le tendenze impetuose della civiltà moderna. Agli occhi di un cattolico, la rivoluzione conservatrice era comunque una rivoluzione, un sovvertimento violento dell’ordine tradizionale, uno sconvolgimento non solo dei modi di pensare e di vivere, ma anche dei riferimenti morali e spirituali, e, perciò, una catastrofe, sulla stessa linea del giacobinismo del 1793 e del bolscevismo del 1917. Ed era, soprattutto, un deliberato allontanamento dalla tradizione cristiana, dalla Germania di Goethe, ma anche di Novalis, con il pericolo di una deriva in senso pre-cristiano e quindi paganeggiante, come poi di fatto avvenne con il regime nazista. Un po’ come aveva visto Evola nel caso dell’Italia, per il quale la ve"vera" tradizione non era quella cattolica, ma quella imperiale romana, per la Germania esistevamo due possibili tradizioni culturali e spirituali da opporre alla modernità avanzante, sul modello del capitalismo statunitense e della finanza amorale, senza radici e largamente controllata da elementi giudaici: quella cristiana, risalente al Sacro Romano Impero, ma la cui unità si era infranta con lo scisma luterano; e quella pre-cristiana, ossia dell’antico paganesimo germanico. Qualunque movimento che si opponesse alla modernità doveva richiamarsi o all’una, o all’altra: Hitler scelse la seconda soluzione, Reck optò per la prima; Spengler non ne scelse alcuna, si chiuse in una specie di epicureismo scettico, ma sostanzialmente d’impronta umanistico-rinascimentale. Molto acutamente Friedrich Reck osserva che il "tramonto dell’Occidente" decritto e profetizzato da Spengler è, in effetti, il tramonto della civiltà del Rinascimento, vecchia di soli quattro secoli, e non della civiltà europea in quanto tale (si ricordi anche la battuta con cui Hitler difendeva le stranezze, la pompa e la mania di collezionare opere d’arte di Göring: Lasciatelo stare, è un uomo del Rinascimento).
Il cattolico di cui stiamo parlando è Friedrich Reck, uno junker, un nobile prussiano proprietario terriero, di famiglia protestante, nato a Malleczewen, nella Prussia Orientale, l’11 agosto 1884, e che sarebbe morto, giustiziato con un colpo di pistola alla nuca, nel campo di Dachau, il 16 febbraio 1945, dopo essere stato imprigionato come anti-nazista, in seguito a una delazione anonima del dicembre precedente. Medico laureato, combattente nella prima guerra mondiale, si era convertito al cattolicesimo nel 1933, mentre Hitler andava al potere, dopo aver scoperto nella Chiesa cattolica l’ultimo faro di civiltà nelle tenebre avanzanti della barbarie, della quale il nazismo gli sembrava solo l’ultima e più brutale manifestazione, ma che aveva origine dai processi sempre più convulsi, caotici e incontrollabili della modernità, e specialmente in una sorta di totalitarismo industriale. Si può quindi vedere in lui, come in altri intellettuali della stessa regione geografica, roccaforte dei valori tradizionali prenazisti, patriarcali, religiosi, della vecchia Germania di Bismarck, o di ancor prima, ad esempio Ernst Wiechert, del quale abbiamo trattato in un altro articolo. Dopo la conversione, lo scrittore si era stabilito definitivamente a Monaco, nella cattolica Baviera, città in cui viveva, al centro di una piccola cerchia di ammiratori e discepoli (di cui Reck non faceva però parte), anche Oswald Spengler, che peraltro conosceva personalmente fin dagli anni della Prima guerra mondiale, tramite la frequentazione un amico comune, August Albers, il curatore delle opere del filosofo de Il tramonto dell’Occidente.
Di Friederich Reck-Malleczewen, scrittore abbastanza prolifico, autore di numerosi saggi e di romanzi avventurosi per la gioventù (compresa una biografia dell’ammiraglio Maximilian von Spee, perito nella battaglia navale delle Isole Falkland dell’8 dicembre 1914), il pubblico non tedesco conosce quasi solo Il re degli anabattisti, dedicato alla tragica vicenda di Giovanni da Leida a Münster, nel 1533-36, descritta come una sorta di prova generale di quel che avrebbero poi fatto i giacobini francesi, i bolscevichi russi e gli stessi nazisti tedeschi. Sebbene quest’ultima analogia fosse solo implicita, i nazisti la colsero benissimo e sequestrarono immediatamente il libro; e, soprattutto, resero impensabile una eventuale pubblicazione del diario. Questo venne trovato, dopo la morte dell’autore, in una casetta sigillata, nascosta nella sua casa, e precisamente sepolta nel giardino. Il diario va dal 1936 all’ottobre del 1944, poco prima dell’arresto dell’autore, ed è di una franchezza ruvida, quasi spietata, nel giudicare uomini e cose. Lo scrittore aveva immaginato il titolo Diario di un disperato, titolo che poi venne modificato, quando il volume vide la luce, con l’enfatico Il tempo dell’odio e della vergogna (edito in Italia da Rusconi, Milano 1970, nella traduzione di Riccardo Mazzarol e Quirino Principe; l’edizione oroginale è del 1966, Stuttgart, Henry Goverts Verlag, intitolata Tagebuch eines Verzweifelten. Zeugnis einer inneren Emigration).
Riportiamo la pagina dedicata a Spengler, in occasione della sua morte e datata semplicemente Maggio 1936 (pp. 11-15):
Spengler dunque è morto. Ma una personalità i tale livello ha il diritto di esigere, come un maragià, che i suoi compagni lo seguano nell’oltre tomba: pochi giorni dopo il suo decesso infatti Albers, che curava le sue opere presso la casa editrice Beck, ha scelto una morte atroce gettandosi sui binari del treno suburbano di Starnberg, dove è stato trovato dissanguato e con le gambe recise. Ritornando a Spengler, l’ho incontrato ancora alcune settimane fa nella Bayerstrasse. Come di consueto era avvolto in stoffe raffinate, come di consueto lanciava imprecazioni e faceva su di sé oscure profezie cariche di risentimenti e di amor proprio ferito. Un tale personaggio merita che ci si soffermi su di lui… Ricordo ancora il nostro primo incontro, quando Albers lo condusse da me. In quella piccola vettura che lo andò a prendere alla stazione, e che non era stata prevista per certi pesi, troneggiava un uomo massiccio che lo spesso mantello di lana rendeva ancor più corpulento. Ogni cosa in lui era così resistente e solida che pareva sfidare la dimensione terrestre: la voce profonda di basso, la quasi leggendaria giacca di lana tessuta a mano, l’appetito a cena e, di notte, il russare davvero ciclopico che rimbombava come una sega meccanica, strappando al sonno gli altri ospiti della mia casa di campagna. A quel tempo, prima del successo decisivo della sua opera fondamentale e della svolta determinante della sua vita che fu il passaggio nell’oligarchia dell’industria pesante, sapeva ancora mostrarsi allegro e disinvolto; e talvolta lo si poteva convincere a scendere nelle acque limpide del mio fiume, adorno di tutta la sua dignità, e di nuotarvi allegramente. Più tardi sarebbe stato impensabile che egli si presentasse in costume da bagno dinanzi ai garzoni e ai contadini che lavoravano, e ritornasse a riva in loro presenza come un tricheco sbuffante.
Certo, rappresentava il miscuglio più strano che io abbia mai incontrato di autentica grandezza umana e di tutta una serie di piccole, e anche grandi, debolezze che nessuno mi rimprovererà di rievocare oggi, prendendo congedo da lui. Come uomo era uno di quei robusti mangiatori che amano celebrare da soli le loro orge con una smorfia triste. Ricordo con un certo divertimento una sera in cui ci eravamo riuniti in tre per una cenetta molto semplice: questo accadeva nelle ultime settimane della prima guerra mondiale quando agli ospiti non si poteva offrire molto. Spengler, predicando con passione, ingoiò un’oca intera senza lasciarne nemmeno un boccone ad Albers o a me. La sua predilezione per i pranzi sostanziosi che più tardi gli avrebbero offerto i suoi mecenati industriali non era però il solo particolare che invitasse al sorriso. Quando lo conobbi (non aveva avuto ancora il suo primo grande successo) mi pregò di non andarlo a trovare nel suo appartamento — se non erro, nella Agnesstrasse di Monaco — perché si sentiva tropo allo stretto e sperava di potermi mostrare in seguito la sua biblioteca nelle sue proporzioni monumentali.
Nel 1926, dopo aver stretto legami d’amicizia con i maggiori esponenti della società Langam [associazione di grandi industriali fondata nel 1871] e aver traslocato nella fastosa Wiedenmayerstrasse sulla riva dell’Isar, mi guidò attraverso un seguito di sale enormi, mi mostrò anche i suoi tappeti, i quadri e persino il letto, che era un vero e proprio pezzo da museo con i suoi cinque piedi di larghezza e somigliava davvero a un catafalco… Ma, al momento di entrare nella biblioteca, si mostrò visibilmente imbarazzato. Alla fine, poiché insistevo, mi trovai di colpo in una stanza molto piccola in cui sopra alcune misere scaffalature di noce, accanto a una pila di libercoli e romanzi polizieschi, c’era una collezione di libri osceni.
Tuttavia non ho mai conosciuto un uomo così sprovvisto di senso dell’umorismo e cos’ suscettibile nei confronti di ogni critica, anche la più discreta. Ma il destino ha voluto che quest’uomo, che detestava soprattutto la mancanza di serietà, lasciasse nel suo "Tramonto dell’Occidente", fra tante acute affermazioni, anche un gran numero di inesattezze, d’imprecisioni e persino di errori. Ad esempio, fa nascere Dostoevskij a Pietroburgo anziché a Mosca e fa morire il duca Bernhard von Weimar PRIMA dell’assassinio di Wallenstein. Ma, ciò nonostante, da tutti questi errori trae delle conclusioni importanti. Guai a chi avesse osato fargli rilevare queste cose che in fin dei conti potevano capitare a tutti! (…)
Non so se abbia percepito l’irruzione del’irrazionale che ora compare nel circuito della nostra vita, se abbia intuito che il tramonto dell’Occidente, da lui proclamato, era soltanto il declino del mondo creato dall’uomo del Rinascimento quattro secoli fa. La sua cattiva stella volle che a metà del suo cammino egli cadesse sotto la dipendenza dell’oligarchia dell’industria pesante. Con il tempo questo rapporto cominciò a influire anche sul suo pensiero. Da parte mia, con la migliore volontà del mondo non so come si possa conciliare la profezia del 1922, espressa grandiosamente nel secondo volume del "Tramonto", sul ruolo che avrebbe avuto il cristianesimo di Dostoevskij, con il sistema tecnologico che costituisce la trama delle sue opere posteriori. La sua tragedia si spiega in una disfunzione di tipo intellettuale (vorrei dire universitaria) che gli impedì di credere negli dei e, naturalmente, in Dio. I suoi discepoli lo lasciarono nel momento in cui, intorno al 1926, fece pace con la situazione vigente in Germania: non certo con il nazismo (non conosco nessuno che l’abbia detestato quanto lui in ogni momento della sua vita), ma con i magnati del commercio della Ruhr, che dopo il crollo della monarchia erano diventati i veri padroni dello Stato e premurosamente erano venuti incontro alla nostalgia che Spengler nutriva per un tenore di vita patrizio ed edonistico. Lo slancio di quello spirito, a cui siamo debitori per le prospettive che ha aperto con la sua prima opera, fu spezzato nel momento in cui i corvi…, non quelli di sant’Antonio ma di Thyssen e Hösch, incominciarono a rifornire la sua tavola di vini gagliardi della Borgogna.
Egli di conseguenza cedette alle sue inclinazioni epicuree, alla sua predilezione per le salse piccanti e all’ineguagliabile talento culinario della sorella che gli governava la casa. I nazisti, nella loro stampa penosa, confezionata da maestri di scuola elementare carichi di frustrazioni e da sottotenenti tornati dalla guerra privi di equilibrio morale, celebrarono il ritorno del figliol prodigo e dichiararono trionfanti che i loro oppositori stavano passando dalla loro parte uno dopo l’altro. Ma intanto il secondo volume dei suoi "anni decisivi" si trova ben custodito nella casetta di sicurezza in attesa di un ritorno a condizioni normali, speranza di tutti noi.
Oltre al gustoso ritratto di uno Spengler gargantuelico, una sorta di Falstaff redivivo, colpisce l’acutezza dell’analisi di Friedrich Reck circa l’inevitabilità del "nichilismo" spengleriano, una volta girate le spalle a Dio, al Dio cristiano, ossia a quanto di meglio la tradizione europea ha saputo accogliere e assimilare nel corso della sua lunga storia. I nazisti, almeno, avevano per sé gli dei del Walhalla; ma questi rivoluzionari di destra, che cosa avevano? In quanto rivoluzionari, non avevano più una tradizione sulla quale posare i piedi: non restava loro che annaspare, oppure chiudersi in un edonismo privato, scettico, disperatamente autodistruttivo. I dettagli sulla vita di Spengler, le sue abitudini, il suo abbigliamento, i suoi pasti pantagruelici, non sono meri pettegolezzi, ma aiutano a capire il clima morale dell’uomo e dell’epoca. Se Spengler non avesse voltato le spalle a Dio, a una visione trascendente della storia, o comunque aperta alla trascendenza, non sarebbe stato così disperato; se non fosse stato così disperato, forse non si sarebbe ammazzato col mangiare come un orco a poco più di cinquant’anni di età. Il suo era un mangiare, anzi, un divorare, patologico (una oca intera per cena!), forse una bulimia non diagnosticata come tale, che ricorda molto da vicino i fratelli che sono protagonisti del romanzo di Federigo Tozzi Tre croci: il loro appetito insaziabile ha qualcosa di malato, è una spia di un profondo disordine interiore, di un malessere che non è possibile gestire, razionalizzare. E inoltre, se non fosse stato così disperato, forse Spengler avrebbe riposto la propria gratificazione in qualche cosa di meglio che una villa arredata con il gusto pacchiano di un sultano in esilio; e questa sua debolezza non avrebbe offerto una facile presa ai grandi industriali tedeschi, i quali furono ben felici di "arruolarlo" quale loro maître à penser. In fondo, era un aristocratico sino al midollo, ma con una pericolosa inclinazione al lusso e allo spreco, di matrice grossolanamente borghese: i suoi ultimi anni a Monaco, nell’isolamento di una vita fatta di pasti colossali, vestiti di lusso e libri pornografici, ricorda da vicino gli ultimi anni di D’Annunzio a Gardone; con la sola differenza, che torna a vantaggio dell’italiano, che D’Annunzio non si lasciò mai comprare o mettere la museruola, mentre Spengler, senza neppure avvedersene, permise ai potenti signori dell’acciaio di togliergli la sua indipendenza, in cambio di uno stile di vita da Cesare del basso impero…
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