Coraggio: è nato un Bambino…
22 Ottobre 2017
Facciamo il punto
23 Ottobre 2017
Coraggio: è nato un Bambino…
22 Ottobre 2017
Facciamo il punto
23 Ottobre 2017
Mostra tutto

Hitler, il grande (e perdente) giocatore di poker

Il "caso Hitler" insegna che è un terribile sbaglio identificare la politica, la grande politica, specie quella internazionale, con il gioco del poker; anche se dalla sua lezione si può imparare che il grande politico deve possedere qualcosa dell’esperto giocatore di poker: una strana mescolanza di audacia, freddezza e imperturbabilità davanti al rischio, purché si tratti di un rischio calcolato. Ed è proprio nella sua capacità di calcolare un rischio che si può "pesare" un grande politico, e distinguerlo da un piccolo politico: fra i due corre la stessa differenza che esiste fra un pesce abissale e un pesce d’acqua dolce. È superfluo aggiungere — ma è bene farlo, per scaramanzia — che la presente riflessione astrae completamente dall’aspetto etico del "caso Hitler", ma vuole limitarsi alla dimensione strettamente politica. E a chi obiettasse che una tale separazione è impossibile, risponderemmo che la sua obiezione è giusta sul piano filosofico, perché la filosofia coglie la verità dell’intero e non delle singole parti, ma, in pratica, quando si valuta l’azione di un uomo politico, si scende dai cieli sconfinati della filosofia e si atterra sul duro e crudo terreno della prassi, perché la politica appartiene alle cose di quaggiù e non alle cose di lassù; e aggiungeremmo che tale distinzione è sempre stata fatta, anche per altri grandi "mostri", a cominciare dal suo quasi omologo Stalin, e che solo per Hitler e il nazismo si pretende di non poterla assolutamente rispettare: il che è indice di pregiudizio ideologico. Solo davanti a Hitler l’indignazione è totale, tanto è vero che Stalin, che fece morire più cittadini del proprio Paese di quanti ne fece morire Hitler appartenenti a molti Paesi, non viene tutt’ora percepito dall’opinione pubblica come un "mostro" paragonabile al Führer; per lui solo, e per il nazismo, è stato coniato il termine di "male assoluto", e sì che né gli Assiri, né i Mongoli, né i Turchi Ottomani, tanto per fare qualche citazione dalla storia antica e medievale, erano gente che scherzasse, quando facevano la guerra. Poi, per analogia, il "male assoluto" si è esteso anche al fascismo, in omaggio alla storiografia marxista, specialmente sovietica, che ha sempre considerato il nazismo come una semplice variante del "fascismo", categoria truculenta e quasi metafisica della destra reazionaria e totalitaria sovra-nazionale. Da ultimo, si son visti uomini politici della destra neofascista, come Gianfranco Fini, blaterare di "male assoluto" anche per il fascismo italiano, salvo poi tentar di rettificare, precisando che solo alcuni aspetti del fascismo italiano, come le Leggi razziali, furono "parte" del famigerato male assoluto (e lo disse, guarda caso, durante un viaggio ufficiale in Israele).

Sulla concezione politica di Hitler esiste un ottimo studio di Eberhard Jäckel, La concezione del mondo in Hitler; e noi stessi ce ne siamo a suo tempo occupati (cfr. il nostro articolo La questione della Weltanschauung di Hitler come problema storiografico, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/07/2009). Ma sull’azione politica di Hitler, sul suo modo di "fare" la politica, vi sono ancora molte questioni aperte. Un punto, a nostro avviso, è ormai relativamente stabilito: Hitler non fu un politico opportunista; non fu disponibile a stringere compromessi, se non in via temporanea e in perfetta mala fede, ossia con la riserva mentale di sbarazzarsene quanto prima possibile; e non deviò mai sensibilmente dai fini e dagli obiettivi che si era proposto. Allo stesso tempo, fu ossessionato dal fattore tempo: ritenne che lui personalmente, e il popolo tedesco, disponessero solo di pochi anni per riorganizzare la Germania, stracciare l’Europa di Versailles, stabilire delle posizioni di vantaggio che assicurassero al suo Paese un futuro di prosperità e di egemonia a livello mondiale. Pensava che, in qualunque momento, qualcuno avrebbe potuto assassinarlo, e che per l’intera Germania la questione del capovolgimento della "sentenza" del 1918 consistesse essenzialmente in una lotta disperata contro il tempo. Si trattava di separare e battere i nemici dai quali essa era accerchiata, e trasformare l’Europa da una prigione, in cui la politica dei vincitori della Prima guerra mondiale l’aveva rinserrata, in uno "spazio vitale", dal quale tali nemici venissero esclusi e a cui attingere per assicurarsi le materie prime e i materiali strategici che l’avrebbero trasformata in una fortezza inespugnabile. Questo voleva Hitler: trasformare l’Europa centrale in una fortezza inespugnabile, dopo aver fatto a pezzi l’"ordine" di Versailles, a cominciare dall’Austria, dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia e dalla Piccola Intesa, che la strategia francese le aveva costituito sul fianco per limitare la sua espansione verso l’area carpatico-danubiana e balcanica. Per riuscirci, egli doveva innanzitutto evitare che si ripetesse la situazione del 1914, ovvero la guerra su due fronti: quindi, doveva fare in modo che Francia e Gran Bretagna da un lato, e Unione Sovietica dall’altro, non giungessero, per nessun motivo, a un accordo contro di lui, in modo da poterle affrontare separatamente. Il "mistero" del patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939, che tanto stupì il mondo (e scandalizzò i "compagni" comunisti) è tutto qui; e infatti, meno di due anni dopo, il 22 giugno 1941, si vide, con l’Operazione Barbarossa, quel che ne pensava realmente Hitler: per lui era carta straccia, puramente e semplicemente. Gli era servito per attaccare la Polonia e spartire con il "collega" di Mosca vaste aree dell’Europa centro-orientale, dal Mar Baltico al Mar Nero; poi, sconfitta la Francia (ma non l’Inghilterra: e fu questo il suo errore fatale), non gi serviva più. Come Napoleone, pensò che per sconfiggere la Gran Bretagna bisognava invadere la Russia: e dimenticò i suoi buoni propositi di non ripetere una guerra su due fronti. Di fatto, dopo la caduta della Francia, il fronte occidentale non esisteva più; però la potenza britannica era ancora in piedi, quasi intatta; di nuovo la sua flotta bloccava le vie marittime della Germania; inoltre esistevano dei punti d’appoggio, per esempio l’Egitto, a partire dai quali i britannici avrebbero potuto attaccare l’Asse, prima nel Mediterraneo, infine in Europa. Quindi, la decisione d’invadere l’Unione Sovietica, senza prima aver piegato la Gran Bretagna, fu un errore madornale, e l’idea di realizzare, così, la sconfitta della Gran Bretagna, fu una autentico rovesciamento della giusta prospettiva strategica, La strada per Londra non passa per Mosca: passa per lo Stretto di Dover per il Canale della Manica. Hitler ebbe la sua occasione a Dunkerque, e la sprecò, illudendosi di poter giungere a un accordo con Churchill: fu per questo che Hess, benché poi ufficialmente sconfessato, tentò la sua "missione impossibile" in Scozia. Ma è una pagina di storia che forse non sapremo mai: non siamo neppure sicuri che il povero vecchio, morto "suicida" nel 1987, a 93 anni, ultimo prigioniero eccellente della Seconda guerra mondiale, fosse proprio lui, il vice di Hitler.

D’altra parte, gli obiettivi di guerra di Hitler non erano paragonabili a quelli della politica classica, per esempio a quelli della Germania imperiale nel 1914. Premesso che egli, quasi certamente, quando lanciò l’attacco contro la Polonia, il 1° settembre 1939, non pensava che quel gesto avrebbe dato inizio alla Seconda guerra mondiale, ma s’illuse che gli anglo-francesi avrebbero capitolato, com’era già avvenuto a Monaco l’anno precedente, non è nemmeno vero che egli non volesse la guerra: l’aveva messa in conto, eccome; solo, per lui la guerra non era solo il mezzo per spostare, a vantaggio della Germania, gli equilibri di potere internazionale, ribaltando il "verdetto" del 1918. E non è neppure vero che la Gran Bretagna non volesse la guerra: non solo la voleva, ma la voleva presto, perché il ritmo del riarmo tedesco, e specialmente del riarmo navale, lasciava intravedere che entro pochissimi anni la Royal Navy avrebbe perso la propria superiorità e, con essa, la Gran Bretagna avrebbe perso il dominio dei mari, che essa riteneva indispensabile per il mantenimento dell’Impero. Comunque, tornando a Hitler, egli non aveva messo in conto una guerra generalizzata per degli obiettivi puramente territoriali, politici ed economici; e nemmeno per la conquista dello "spazio vitale" a Oriente. No: i suoi obiettivi prioritari erano ideologici, ed erano due: la distruzione del comunismo e l’estirpazione del giudaismo dall’Europa. Con l’Impero britannico, riteneva di poter convivere, dopo avergli sottratto le chiavi strategiche del Mare del Nord (così come Mussolini voleva sottrargli quelle del Mediterraneo) e dopo essersi fatto restituire le vecchie colonie tedesche, perdute con la pace di Versailles. Pur di riuscirci, egli era disposto al "sacrificio" definitivo della posizione tedesca in Estremo Oriente e nel Pacifico, ch’essa aveva tenuto fino al 1914, e cui ora rinunciava per sempre, in cambio dell’alleanza strategica col Giappone; un po’ come, per avere l’alleanza strategica dell’Italia, aveva rinunciato a ogni rivendicazione sul Sud Tirolo, cosa che lo aveva esposto a lungo alle critiche dei nazionalisti tedeschi. Ma né l’alleanza con l’Italia, né quella col Giappone, andavano a ledere degli interessi vitali della Germania: si trattava quindi, per lui, di compromessi accettabili. Anche quello con la Gran Bretagna era, per lui, un compromesso accettabile: lasciar sopravvivere l’Impero britannico non ledeva, a suo parere, gli interessi vitali tedeschi (ma non capiva che una Germania così forte, e con una flotta d’alto mare di nuovo temibile, come ai primi del ‘900, ledeva, di per sé, gli interessi vitali britannici). L’errore di Dunkerque nacque da un tale calcolo: la decisione di "risparmiare" l’esercito inglese, che si sarebbe rivelata disastrosa, era la necessaria premessa della "missione Hess", che sarebbe totalmente fallita. Churchill voleva la guerra fino alla distruzione totale della Germania, né più né meno; e si sarebbe alleato anche col diavolo (cioè con Stalin) per condurla a termine. Non è vero che l’obiettivo del leader inglese consisteva nella distruzione del nazismo; così come non è vero, nel caso dell’Italia, che il suo obiettivo era "solo" di liquidare il fascismo (dopo che la stessa politica inglese aveva spinto Mussolini nelle braccia di Hitler, a partire dal 1935): l’obiettivo era mettere a terra la Germania, e questa volta non per un paio di decenni, ma per sempre.

Hitler, dunque, considerava una sua personale missione di civiltà liberare l’Europa dal doppio bubbone del comunismo e del giudaismo (le due cose, nel caso dell’Unione Sovietica, erano una sola). E non è neanche vero che volesse ridurre gli slavi in schiavitù, e attuare il genocidio degli ebrei: entrambe le idee nacquero e si svilupparono, per così dire, in corso d’opera, cioè nel calor bianco della Seconda guerra mondiale, e, in particolare, dopo che l’Operazione Barbarossa giunse a un sostanziale fallimento davanti a Mosca, nel dicembre del 1941, proprio mentre gli Stati Uniti entravano ufficialmente in guerra (ma, di fatto, lo erano già), gettando sul piatto della bilancia il loro incalcolabile potenziale industriale e finanziario. Fu a quell’epoca che la guerra assunse il carattere spietato di una "guerra totale": perché Hitler, che sarà anche stato un pazzo (oltre che un criminale), ma non era uno stupido, probabilmente si rese conto che la mancata vittoria entro il dicembre del 1941 equivaleva all’inizio della sconfitta. E, a quel punto, le due componenti ideologiche del suo programma divennero assolutamente prevalenti, al punto da indurlo a sottrarre forze militari ai fronti di combattimento, per portare a buon fine la sottomissione disumana delle popolazioni slave e l’eliminazione fisica degli ebrei che, inizialmente, aveva pensato solo di "trasferire" nel Madagascar (riprendendo un piano originariamente concepito, guarda un po’, dal governo polacco, che nel 1937 aveva addirittura inviato una commissione sull’isola africana, per verificare "in loco" la fattibilità del trasferimento degli ebrei polacchi). Da un lato, si trattava di fare il vuoto o quasi in vasti territori dell’Est europeo, per renderli disponibili alla futura colonizzazione germanica (obiettivo minore dopo che il maggiore, la distruzione dell’URSS, era fallito); dall’altro, estirpare fin l’ultimo ebreo dall’Europa, per mettere al riparo la sua civiltà dall’"infezione" semita, che non era, per Hitler, solo biologica, ma culturale e spirituale, oltre che economico-finanziaria. E bisognava farlo in fretta (di nuovo il fattore tempo era decisivo), prima che la Germania, circondata da nemici e impossibilitata a mantenere il necessario ritmo della produzione industriale, perdesse l’occasione storica di portare a termine la sua duplice missione di "civiltà".

Hitler, dal punto di vista delle grandi decisioni di politica internazionale, si comportò, in tutto e per tutto, come un giocatore di poker: bluffò e rilanciò la posta, incessantemente, illudendosi che una incrollabile fiducia nella sua buona stella fosse sufficiente a sconfiggere dei nemici che, secondo lui, erano moralmente pavidi, traballanti e non avevano degli autentici ideali, ma combattevano solo per meschine ragioni d’interesse mercantile. Gli andò bene con la rimilitarizzazione della Renania, nel marzo 1936, poi con l’Anschluss, nel marzo 1938, e infine con la conferenza di Monaco del settembre 1938: ma qui finì la sua buona stella. Come un giocatore ostinato, non volle prendere atto che, dopo l’attacco alla Polonia, la sua fortuna di giocatore era finita, e volle continuare ad alzare la posta, commettendo alcuni errori fatali. Il più grave di tutti, senza dubbio, fu quello di attaccare l’Unione Sovietica, allora sua alleata e principale fornitrice di petrolio, grano e acciaio, quando non aveva ancora chiuso la partita con la Gran Bretagna (dietro la quale si stagliavano, sempre più minacciosi, gli Stati Uniti d’America) e con il Canale di Suez a portata di mano, chiave strategica del Medio Oriente e dei pozzi petroliferi del Golfo Persico. Corollario di questo errore, non aver concordato con il Giappone, terzo membro del Patto tripartito, se non l’attacco giapponese contro l’Unione Sovietica in Estremo Oriente, almeno un suo atteggiamento bellicoso, che avrebbe obbligato Stalin a trattenere sull’Amur e in Mongolia quelle divisioni scelte che, poi, si rivelarono decisive nella battaglia invernale davanti a Mosca. È chiaro che anche Stalin stava preparando un attacco alle spalle della Germania e si trattava solo di vedere quale dei due membri della strana alleanza sarebbe balzato per primo alla gola dell’altro; Hitler temette che Stalin si approfittasse dal fatto che una parte delle forze tedesche erano impegnate in Occidente, anche dopo la caduta della Francia (per "coprire" le coste dell’Atlantico da un possibile attacco inglese, oltre che per sostenere, nel Mediterraneo e nei Balcani, il suo alleato italiano). Ma la decisione di Hitler di attaccare lui per primo, presa fin dal luglio 1940, dopo la caduta della Francia (per la quale Stalin si era personalmente congratulato con Hitler), fu presa senza aver chiaramente individuato il nemico principale e, quindi, in assenza di una vera strategia globale. Nell’estate del 1940 il nemico principale era pur sempre la Gran Bretagna, la quale, col blocco marittimo e il sostegno indiretto degli Stati Uniti, si trovava in una situazione non dissimile da quella del 1914: essa poteva colpire lo schieramento dell’Asse, sia pure con scarse probabilità, per il momento, di trovare un punto vitale da abbattere; ma lui, Hitler, non aveva alcuna speranza di colpire al cuore la potenza britannica, a meno di concentrare le sue forze nel settore del Mediterraneo. Il minimo che si possa dire dell’Operazione Barbarossa è che essa fu intempestiva e, in ultima analisi, avventuristica, cioè frutto di una strategia improvvisata. E qui emerge il limite intrinseco di una strategia politica da giocatore di poker. Hitler era, tutto sommato, un avventuriero e un "romantico", nel senso che credeva nella sua buona stella, nel suo destino, in una specie di "mano invisibile" che lo avrebbe sempre protetto, purché lui non avesse mai arretrato e si fosse mostrato, così, degno di riportare un successo memorabile. Il destino lo aveva scelto, a patto che lui sapesse mostrarsi all’altezza di qualsiasi situazione. Naturalmente, in ciò aveva la sua parte l’esoterismo del dittatore nazista, e la convinzione hitleriana di una serie di fattori spirituali che stavano dalla sua parte, e che avrebbero giocato a suo favore.

Questo aspetto della personalità di Hitler, e, di conseguenza, delle sue scelte politiche, è stato bene osservato e descritto dall’uomo che, forse, conobbe meglio l’animo del dittatore: Albert Speer, il suo adorato "architetto di corte", nonché ministro della produzione di guerra, che ne ha parlato in questi termini (da: A. Speer, Memorie del Terzo Reich; titolo originale: Erinnerungen, 1969; tradizione dal tedesco di E. e Q. Maffi, Milano, Mondadori Editore, 1971, pp. 463-464):

Il 22 giugno 1944, quasi contemporaneamente ai primi grandi successi anglo-americani [dopo lo sbarco in Normandia], era incominciata quell’offensiva sovietica, il cui risultato sarebbe stata la perdita di venticinque divisioni tedesche. Ormai neanche l’estate permetteva più di fermare l’avanzata dell’Armata Rossa. È fuori di dubbio che Hitler, nel tragico corso di quelle settimane, mentre tre fronti – l’occidentale, l’orientale e l’aereo — crollavano l’uno dopo l’altro, inesorabilmente, dimostrò di possedere dei nervi eccezionalmente saldi e una sorprendente capacità di resistenza. È probabile che la lunga lotta per il potere, con tutti i suoi rovesci di fortuna, lo avesse temprato, così come aveva temprato Goebbels e altri compagni del tempo. Forse in quegli "anni di lotta" l’esperienza gli aveva anche insegnato che davanti ai collaboratori non si doveva lasciar trasparire la benché minima preoccupazione Chi gli stava incontro non poteva non ammirare l’autocontrollo che egli sapeva conservare nei momenti critici. È indubbio che questo comportamento contribuì molto a rafforzare il senso d fiducia con cui venivano accolte le sue decisioni. Evidentemente gli era sempre consapevole dei milioni di occhi che lo osservava, e dello scoraggiamento che avrebbe prodotto perdendo anche per un solo istante il dominio di sé. Questo autocontrollo rappresentò fino all’ultimo uno straordinario atto di volontà; tanto più straordinario quanto più cresceva il logorio degli anni, della malattia, degli esperimenti morelliani [del suo medico personale, dottor Morell], delle fatiche. La sua volontà mi sembrava a volte semplice e senza fremi come quella di un bambino di sei anni, che nulla riesce a scoraggiare o a stancare. Ma questo bambino, benché buffo sotto un certo punto di vista, sapeva anche suscitare rispetto

Il fenomeno della persistente fiducia di Hitler nella vittoria, in anni di continue sconfitte, non può tuttavia spiegarsi soltanto con la sua energia. Durante la prigionia a Spandau, Funk mi confidò che egli riusciva sempre a dare ai medici un quadro falso ma credibile delle sue condizioni di salute, per il solo fatto che egli credeva nelle proprie bugie; e postillò l’osservazione dicendo che questa era stata la base della propaganda di Goebbels. Anche l’inflessibilità di Hitler me la posso spiegare soltanto immaginando che egli avesse reso credibile a se stesso la vittoria finale. Si può dire, in un certo senso, che il Führer venerasse la propria immagine. Egli teneva costantemente uno specchio davanti a sé, e in questo specchio vedeva non soltanto se medesimo, ma anche la conferma della missione cui egli adempiva per decreto della provvidenza. La sua religione era "Der Grosse Zufall", il Grande Caso Fortunato; il suo metodo era il potenziamento di sé mediante l’autosuggestione. Quanto più gli avvenimenti cercavano di metterlo con e spalle al muro, tanto più fortemente reagiva con la certezza nell’avvenire. Non v’è dubbio che egli si rendesse freddamente conto degli eventi militari; ma li trasponeva nella sfera della sua fede, e nella stessa sconfitta vedeva un aspro apportatore di vittoria, tenuto nascostamente in serbo per lui dalla Provvidenza. Era naturalmente in gradi di scorgere il carattere disperato di una situazione, ma ciò n on lo smuoveva dalla ferma aspettativa di quel rivolgimento che il destino avrebbe, in ultimo, operato a suo favore. Se c’era qualcosa di morboso in Hitler, era questa fede incrollabile nella propria buona stella. Hitler era, sì, il tipo dell’uomo credente; senonché la sua capacità di credere era degenerata nella fede in se stesso.

Ed ecco spiegata anche l’origine dell’attitudine di Hitler a trasformare la grande politica in una drammatica partita a poker, con la posta che si fa sempre più alta ad ogni nuova mano. La fiducia di Hitler nella sua buona stella era certamente irrazionale, non però alla maniera del "comune" giocatore di carte, come quello descritto da Dostoevskij nel suo romanzo omonimo, bensì come quella del superuomo prescelto dal destino per condurre a termine una missione grandiosa, che lui solo conosce sino in fondo, e della quale si sente degno, ma che lo costringe a sfidare il mondo intorno a sé in misura crescente, esponenziale. Prendiamo il caso dell’attacco alla Polonia: Hitler sapeva che tale mossa avrebbe potuto trascinare in guerra Gran Bretagna e Francia contro di lui, viste le assicurazioni date da Londra e da Parigi al governo di Varsavia; ma non se ne curò. Ritenne, come già aveva fatto in occasione della crisi dei Sudeti, l’anno prima, nel settembre 1938, che un atteggiamento risoluto, di sfida totale e di completo disprezzo per l’avversario, gli avrebbe regalato la vittoria senza neppur bisogno di dare la parola alle armi. Puntò e perse; ma non trasse alcuna lezione dalla sconfitta. Per lui, le sconfitte erano la premessa per le future vittorie, come bene ha visto Albert Speer. Da una simile natura, cioè la natura di un paranoico, o, come hanno ipotizzato i sostenitori della dimensione "magica" del nazismo, di un invasato, di un posseduto, la sfida era l’elemento necessario e vitale, e ad ogni sfida doveva far seguito una nuova, sempre più grossa. Bisognava costringere il destino a piegarsi davanti a lui, l’uomo dominatore: il dominatore del destino. In un certo senso, Hitler è il caso estremo di quel tipo di politico teorizzato da Machiavelli nel Principe, laddove il Segretario fiorentino parla della volpe e del leone, e dice che il principe, pur dovendo saper essere sia astuto come la volpe, sia audace come il leone, alla fine deve essere soprattutto leone, perché la Fortuna è femmina, e si arrende a chi la sa prendere con audacia e decisione. Hitler, quindi, era un credente, ma era credente in se stesso: si era auto-divinizzato, ed era il primo degli schiavi che adoravano e servivano l’immagine di sé che aveva posto sull’altare. Per essere all’altezza di quel dio, Hitler non esitò a scendere, e a far scendere a tutto il popolo tedesco, le scale dell’inferno: avrebbe accettato qualsiasi destino, tranne quello di mostrarsi vile e inadeguato davanti a quell’immagine sovrumana del proprio io. Per questo non accettò il verdetto della sconfitta, fino all’ultimo: e sperò, ostinatamente, contro ogni evidenza, in un "miracoloso" ribaltamento della fortuna, così com’era accaduto a Federico il Grande durante la Guerra dei Sette Anni; sebbene la sua parte razionale vedesse bene che, dal punto di vista militare, non c’era più alcuna ragione per nutrire speranze. Fu la sua sicurezza — la sicurezza d’un paranoico o d’un ossesso – a magnetizzare e ingannare i suoi seguaci e buona parte del popolo tedesco, inducendoli a credere in lui, fino all’estremo, in lui e nelle sue "armi segrete", quando già i sovietici penetravano in una Berlino in macerie. Ma le guerre non si vincono sperando nella fortuna; non delle guerre di quella entità: non delle guerre totali. E una nazione non viene "graziata" dal destino per due volte…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.