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26 Settembre 2017La disfatta italiana dell’8 settembre 1943 è stata irreparabile.
Non sul piano internazionale: Germania e Giappone sono riemersi più forti di prima dalla loro rispettiva disfatta del 1945, per intanto sul piano economico; e, se non hanno ritrovato ancora l’antica forza espansiva sul piano politico, è solo questione di tempo, tanto è vero che nessuno, almeno sul piano teorico, è in grado di sollevare delle serie obiezioni alla loro domanda di accedere al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con un seggio permanente, al pari delle cinque potenze che uscirono vincitrici dalla Seconda guerra mondiale: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia (che allora era l’Unione Sovietica) e Cina (che all’epoca era quella nazionalista di Ciang Kai-shek e non quella comunista).
Anche l’Italia, negli anni ’50 e ’60, aveva ingranato l’acceleratore dell’economia e realizzato il suo miracolo economico, divenendo una delle grandi potenze industriali del mondo; però qualcosa, al suo interno, si era irrimediabilmente spezzato, qualcosa che forse non sarà più possibile ricostituire, e che pesa e peserà come un macigno sulla sua vita nazionale: il fallimento dell’integrazione fra cittadini e Stato, ossia la formazione di una vera coscienza nazionale. Questo era mancato al Risorgimento, che si era tradotto, per varie ragioni, soltanto nella formazione materiale del Regno d’Italia, nel 1861, ma nella sua mancata unificazione spirituale, soprattutto per la contraddizione di una classe dirigente massonica e rivoluzionaria, monarchia sabauda inclusa, che pretendeva di realizzare uno stato senza e contro il popolo, profondamente legato al cattolicesimo di cui essa era, invece, acerrima nemica. Gli storici liberali e marxisti, le due scuole principali del pensiero italiano moderno, continuano a interrogarsi sul perché delle debolezze dello Stato post-unitario, e cercano nelle direzioni più lontane, mentre la risposta fondamentale è vicina, vicinissima, sotto il baso di chiunque la voglia vedere: non si può fare uno Stato se coloro che lo concepiscono e lo realizzano non sono minimamente in sintonia con i futuri governati. Eppure, questo hanno voluto fare Cavour e Vittorio Emanuele II (per Mazzini e Garibaldi, predicatori e fautori della guerra civile, non si può neanche parlare, per fortuna, di classe dirigente): una Italia contro il papa, contro la Chiesa e contro i cattolici, quando il papa, la Chiesa e i cattolici erano quanto di più vivo e di più "unitario" vi fosse nella millenaria storia dei popoli della Penisola. Nessuna meraviglia che da una così strana operazione, realizzata in gran parte con le baionette straniere (come ricordava, ironizzando, il conte Bismarck, a proposito delle tre "S": Solferino, Sadowa e Sedan), scaturisse uno Stato fragile, incerto, diviso e discorde; uno Stato cui si vollero negare federalismo e autonomie per timore di vederlo andare in pezzi subito dopo averlo costruito.
Ebbene: dopo averlo fatto, i suoi artefici si sono accorti che lo Stato italiano, per essere vivo, mancava della cosa più importante: un’anima (l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani, aveva candidamente ammesso Massimo D’Azeglio, liberale massone e fautore di una infiltrazione liberale e massonica nelle file dei cattolici). Allora tentarono di dargliela, gettandolo nella fornace di una guerra mondiale, la quale, per esso, non era necessaria, né desiderabile, in quanto non toccava i suoi interessi vitali; ed entrandovi dalla parte "sbagliata", cioè contro i suoi alleati e a fianco dei loro nemici. Sembrava un’impresa facile: l’Austria-Ungheria era presa alla gola dall’esercito russo ed era impegnata pure in Serbia; invece si rivelò un’impresa lunghissima, ardua, quasi impossibile: ancora alla fine di ottobre del 1918, quando ormai era incominciata la rivoluzione delle varie nazionalità all’interno dell’Austria-Ungheria, l’esercito austro-ungarico, sul fronte italiano, teneva e si batteva con estrema determinazione. Il crollo di Vittorio Veneto fu reso possibile dal crollo del fronte interno: sul piano strettamente militare, è assai dubbio che ci sarebbe stato. Sia come sia, i dirigenti dell’Italia liberale, i liberali conservatori di Salandra che l’avevano gettata nella fornace a cuor leggero, con il miraggio di compensi territoriali che, poi, gli avari alleati le avrebbero lesinato in maniera umiliante nella Conferenza della pace, erano andati assai vicini all’obiettivo di realizzare quel che il Risorgimento non aveva saputo o potuto fare, date le premesse: il popolo italiano. La "leggenda del Piave" riuscì a fare, dopo Caporetto, una parte di ciò che le tre guerre d’indipendenza non avevano fatto: creare un senso di unità nazionale. Ma durò poco: la gravissima crisi economica post-bellica vanificò tutti gli sforzi fatti, e, come si è detto, la meschina gelosia degli alleati privò l’Italia di gran parte dei suoi obiettivi strategici; per cui il Paese piombò in un fosco periodo di conflitti intestini, una vera e propria guerra civile strisciante, cui pose fine l’avvento del fascismo. Si videro allora le nefaste conseguenze della nascita dello Stato italiano senza gli italiani: i neonati partiti di massa, scaturiti dal suffragio universale, cattolici e socialisti, non erano interessati a dare un contributo veramente costruttivo alla vita dello Stato: i primi perché memori della perfidia e della prepotenza liberale e massonica, i secondi perché abbagliati dal nuovo vangelo marxista della rivoluzione proletaria.
Quanti si ostinano a credere che Mussolini abbia "tolto la libertà" a un popolo che l’aveva cara, e che s’era avviato felicemente sulla strada della democrazia, prendono una cantonata colossale, ammesso che siano in buona fede: l’Italia del primo dopoguerra era un Paese disastrato, in un clima di guerra civile, sul punto di dissolversi, economicamente defunto, politicamente inesistente, il tutto a dispetto della sua "vittoria". Mussolini rimise insieme i cocci, ridiede speranza a una generazione, salvò almeno in parte i frutti della vittoria militare e creò le premesse per la ripresa economica: con la dittatura, certo; ma quale alternativa era possibile? Siamo sinceri: forse la repubblica dei Consigli, sognata da Gramsci e Togliatti, cioè quella che si era vista in Ungheria con il folle Bela Kun, o quella che avevano creato i bolscevichi in Russia? Ciò avrebbe precipitato l’Italia nel caos e l’avrebbe risospinta indietro di decenni, forse di secoli. Oppure una monarchia liberale di tipo neogiolittiano, che riprendesse la marcia verso il progresso che si era interrotta con la Grande guerra? Impossibile, perché il giolittismo era già morto prima della guerra: si era suicidato, allorché aveva voluto il suffragio universale ma non aveva saputo, e forse nemmeno voluto, l’integrazione sociale delle diverse classi, preferendo reggersi su sistemi clientelari vecchio stile e su connessioni sospette fra politica e alta finanza (vedi lo scandalo della Banca Romana). I cattolici erano, in fondo, i più maturi per tentare la ricostruzione nazionale, ma pagavano il doppio scotto dell’inesperienza politica e della sostanziale estraneità allo "spirito del Piave", poiché erano stati ostili o estranei alla guerra, beninteso in senso ideale (al fronte, avevano fatto il loro dovere come tutti gli altri, e anche meglio di altri). Era necessario che l’appello alla rinascita nazionale venisse da una forza politica che veniva, invece, dall’esperienza della guerra e della vittoria; che sapesse e che volesse portare a galla lo spirito del Piave cioè il senso dell’impegno comune nel pericolo comune: e il fascismo fu la forza che si assunse quel compito. Piaccia o non piaccia (e sappiamo che agli intellettuali italiani, che hanno coltivato la Grande Menzogna per settant’anni, non piace), non esisteva altra forza politica che avesse i requisiti per fare appello alle forze vive della nazione; oltretutto esso era un movimento di giovani, e non d’imboscati che avevano boicottato lo sforzo bellico, ma gente che veniva dalle trincee e che aveva maturato un saldo amor di patria, quale non esisteva, né mai era esistito, prima di Caporetto e prima del Piave. Certo, vi era la componente della violenza: ciò era dovuto soprattutto al ruolo che l’arditismo svolse nei primi anni dell’esperienza fascista; non ci si può aspettare che chi viene dalla scuola della violenza in guerra porti, in tempo di pace, i guanti bianchi e le buone maniere. Ma i fascisti videro, a parte taluni eccessi, ciò che le altre forze italiane non videro: la direzione in cui bisognava andare per ricostruire l’unità nazionale, ossia la valorizzazione di quanto l’Italia aveva fatto nella Grande guerra. Gli altri, avrebbero voluto mettere quell’esperienza fra parentesi e, se possibile, dimenticarla; i socialisti andavano oltre, e ci sputavano sopra: come sputavano sulle medaglie dei reduci dal fronte e dei mutilati di guerra. E che Mussolini avesse la stoffa dello statista, in una palude di nanerottoli, è mostrato dal fatto che egli, pur disponendo della forza, cercò la via della riconciliazione e dell’unità nazionale, perché comprese che solo così il popolo italiano si sarebbe finalmente amalgamato con lo Stato: e propose la collaborazione sia ai socialisti, che la rifiutarono con sdegno, sia ai cattolici, che l’accettarono solo per ciò che parve loro vantaggioso, la stipulazione dei Patti lateranensi e la tutela dell’Azione Cattolica, per conservare una certa presa sulle giovani generazioni. Anche la monarchia fece buon viso, ma solo per ragioni opportunistiche: lasciò fare ai fascisti il lavoro "sporco", cioè spazzar via i rossi; poi andò a rimorchio dei successi di Mussolini per vent’anni, ricavandone lustro e prestigio (comprese le corone d’Etiopia e d’Albania); e infine, quando le cose volsero al peggio, nel luglio del 1943, non esitò a scaricarlo come un pacco postale.
Giungiamo così alla conclusione che la disfatta del fascismo, il 25 luglio del 1943, fu anche la disfatta dell’Italia e la rivincita dei nemici interni dello Stato, primi fra tutti i social-comunisti — i quali, infatti, si abbandonarono subito all’ebbrezza sanguinaria della guerra civile — nonché dei nemici esterni: gli Alleati, i quali, con la scusa di abbattere la dittatura e "liberare" gli italiani, miravano a far fuori l’Italia come grande potenza e quindi come concorrente sul piano della politica internazionale (oltre a far fuori il fascismo come modello politico pericoloso a livello mondiale, perché alternativo sia al comunismo che alla democrazia massonica e plutocratica).
Osservava Giuseppe Prezzolini, quarantacinque anni fa, nel suo Necrologio onesto del fascismo (in: G. Prezzolini, Manifesto dei conservatori, Milano, Rusconi Editore, pp. 142-144):
… Il fascismo fu una delle più ITALIANE creazioni politiche che ci siano state. Poiché se guardiamo alla storia d’Italia, quali FORME originali di Stato si trovano? Prima di tutto il PAPATO, universale monarchia in principio, ma storicamente in grande parte formata e nutrita da menti e volontà italiane, poi i COMUNI, oligarchie cittadine mercantili, quindi le SIGNORIE, dittature di fatti e bellicose che diventarono ereditarie e conservatrici col tempo, e poi si salta fino al Fascismo, che venne imitato in parecchie parti del mondo.
Esso fu concepito da italiani, fatto da italiani, tenuto in vita da italiani ed accettato, finalmente, con esaltazione e apparente entusiasmo, dalla maggioranza degli italiani; i quali si adattarono ad alzare la mano in segno di saluto, a marciare col passo dell’oca, a radunarsi ad ore esatte gridando gli stessi motti, insomma a comportarsi come non si eran mai comportati "collettivamente" in nessuno dei momenti della loro storia, anche quando furono dominati da stranieri.
Il fascismo fu l’apice del RISORGIMENTO ITALIANO, e anche l’ultimo atto del Risorgimento nazionale, ed il più disperato tentativo, non riuscito, di dare unità ai popoli della penisola italiana costituendovi uno Stato forte. Il fallimento di questo tentativo, dovuto a forze estranee al Paese, ha condotto l’Italia a cercar di diventare una provincia dell’Europa, come unico mezzi di salvare e di far valere entro un organismo politico più forte ed ampio le qualità del suo popolo artistico, individualistico e abile; poiché l’alternativa sarebbe la sudditanza alla Russia.
Una cosa è ferma: si può dir molto male del fascismo e di Mussolini; ma chi ne dice male dovrebbe sempre ricordarsi che non avrebbero avuto il buon successo che ebbero per ventidue anni, se non avessero trovato l’appoggio, l’entusiasmo, le dedizioni, le imitazioni, la complicità e il benestare, almeno a segni e parole, del popolo italiano. Il fascismo fu una situazione che il popolo italiano, salvo eccezioni, tutto quanto, plebe e magnati, clero e laici, esercito e università, capitale e provincia, industriali e commercianti e agricoltori fecero proprio, nutrirono col proprio consenso ed applauso, e che se fosse continuata, oggi essi continuerebbero ad applaudire e a sostenere.
Fascismo e antifascismo hanno collaborato alla rovina dello Stato italiano e si son dati la mano per distruggerlo. Il fascismo, col dichiarare la guerra, l’antifascismo facendo sapere agli alleati che l’Italia era disunita, e indicandola quindi come il punto più debole da attaccare. I fascisti consegnarono l’Italia alla Germania, gli antifascisti agli alleati: tutti insieme prepararono la servitù politica sotto lo straniero, che essi preferivano alla vittoria dell’avversario politico interno. Le distruzioni e le rapine sono per metà dei tedeschi e per metà degli alleati. I fascisti non capirono che la Germania non lavorava per il fascismo, ma per sé; gli antifascisti non capirono che gli alleati pure non capirono che gli alleati non lavoravano per l’antifascismo, ma per se stessi.
Non si poteva dire di più, né meglio. Peccato solo una cosa: che, dopo aver compreso questo, Prezzolini sia andato, proprio nel 1940, a prendersi la cittadinanza statunitense: quella del nemico…
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