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La missione della contessa di Castiglione a Parigi come punto d’attrito fra politica e morale

Il fine giustifica i mezzi, diceva Machiavelli; e così deve aver pensato anche il primo ministro sabaudo, Camillo Benso conte di Cavour, allorché, nel 1855, spedì a Parigi, in "missione speciale", la sua bellissima cugina, Virginia Oldoini, "Nicchia" per gli amici – andata sposa a 17 anni di Francesco Verasis Asinari, conte di Costigliole d’Asti e Castiglione Tinella, e considerata una delle donne più affascinanti del suo secolo – con il preciso obiettivo di sedurre l’imperatore francese Napoleone III per favorire, con argomenti non proprio diplomatici nel senso tradizionale del termine, un suo accostamento al Regno di Sardegna in funzione anti-austriaca. Riuscite, cara cugina — le aveva raccomandato Cavour, andando dritto al sodo della faccenda -; usate i mezzi che vi pare, ma… riuscite!

Il saggista Giuseppe Ivan Lantos (ebreo ungherese nato a Tangeri nel 1942 e poi stabilitosi in Italia), saggista, studioso di esoterismo e tradizioni iniziatiche, ma anche autore di apprezzate biografie, come quelle su Madame de Pompadour e su Stalin, ha così rievocato quello scabroso e poco edificante episodio della politica cavouriana, nella biografia La contessa di Castiglione (Milano, Alberto Peruzzo Editore, 1985, pp. 97-100):

Cavour divide le sue giornate tra i lavori della conferenza di pace [quella di Parigi, dal 25 febbraio al 16 aprile 1856, che chiuse il capitolo della Guerra di Crimea], i risvolti mondani legati al congresso e l’intenso lavoro con Virginia. E dei suoi impegni parigini, il presidente del Consiglio informa con scrupolo Luigi Cibrario, ministro degli esteri, che è rimasto a Torino. "Caro collega", scrive Cavour in una delle numerose lettere, "spero che sarete soddisfatto della mia corrispondenza; credo bene a discarico della mia e vostra responsabilità, di consegnare nei miei dispacci tutti i fatti interessanti che mi vien fatto di constatare; ciò è necessario per l’avvenire, ma sarebbe pericoloso se mai quanto scrivo venisse ad essere conosciuto. Vi prego quindi altamente di tenere la mia corrispondenza nascosta: affidatela non all’intero gabinetto, ma solo a Susino, che mi pare degno della vostra fiducia la più assoluta. Ho scritto al re riferendogli la conversazione che io ebbi ieri sera con l’imperatore; onde incutergli la necessità del segreto lo pregai di non fare parola al Consiglio; potrete però parlargliene in particolare… Vi avverto che ho arruolato nelle file della diplomazia la bellissima contessa di… invitandola a "coqueter" ed a sedurre, ove d’uopo, l’imperatore".

Cavour era consapevole del fatto che l’incarico affidato alla contessa rimasta anonima nella lettera era, dal punto di vista della morale, quasi come avviare una giovane all’esercizio della prostituzione e di questo provava una gran vergogna, d’altra parte, come politico, sapeva che non c’erano altri mezzi per la realizzazione del "progetto Italia". Tanto valeva avere tormenti di coscienza privati e la tranquillità per il dovere (pubblico) compiuto. Per consolarsi o quantomeno sgravarsi un po’ del fardello che lo affliggeva, cercava giustificazioni presso Costantino Nigra: "Se noialtri facessimo per noi, cioè per nostro personale interesse, quello che stiamo facendo per l’Italia, saremmo delle belle birbe, anzi i peggiori sporcaccioni del mondo".

Nicchia e la sua missione sono l’argomento di un’altra lettera che Cavour invia a Urbano Rattazzi: "Se io non riesco non sarà per mancanza di zelo", scrive il presidente del Consiglio. "Faccio delle visite, pranzo in città, frequento il mondo diplomatico, scrivo dei biglietti, intrigo con il palazzo reale. Faccio tutto ciò che posso. Ho anche tentato di stimolare il patriottismo della bellissima C… al fine ch’ella seduca l’imperatore".

Se le remore morali di Cavour potevano apparire paradossali ancorché legittime, lo statista non aveva nulla da temere circa gli sviluppi della missione di Nicchia: la breccia nella fortezza napoleonica era stata aperta, ora non si trattava d’altro che, con la necessaria pazienza di allargare il varco e completare la conquista. Chi invece aveva capitolato dinanzi alle incontenibili bordate del fascino di Virginia era il bel mondo parigino. Le testimonianze di questo straordinario plebiscito d’omaggi non si contavano e i testimoni erano tutti, per diversi motivi, attendibili. Edoardo Hervé affermava: "La contessa di Castiglione è una donna della quale la Grecia avrebbe divinizzata la bellezza e avrebbe riservata come modello soltanto a Fidia e a Prassitele; marmo antico fuori posto nel nostro secolo profano".

Henry de Pène: "Decisamente la regina della stagione è ormai incoronata: è la bellezza incomparabile che l’Italia ci ha mandato: la contessa di Castiglione. "L’italiana a Parigi": questo è il titolo di una sinfonia che l’ammirazione canta dal mattino alla sera e dalla sera al mattino".

Henry d’Ideville, destinato qualche anno più tardi all’ambasciata di Francia a Torino: "La contessa è meravigliosamente bella, questo è scontato; ma aggiungo ch’ella è superiore a molte donne per l’intelligenza e per carattere e che non cede per nulla alla superiorità che ogni dama può riconoscerle in grazia, eleganza e in bellezza".

Costantino Nigra, abile diplomatico e raffinato esperto di avvenenza femminile: "Nicchia, aurea, Venere dai triplici incanti di Anadiomene, della Medicea, della Callipigia".

E anche dal coro di quelli che non le sono amici le viene tuttavia attribuita incondizionatamente la palma per la più bella.

Facciamo pure la tara alla considerazione che Cavour era consapevole del fatto che l’incarico affidato alla contessa… era, dal punto di vista della morale, quasi come avviare una giovane all’esercizio della prostituzione, dal momento che — speriamo di non venire accusati di cinismo o di sessismo — dall’età di undici anni Virginia era passata da un amante all’altro, frequentandone anche parecchi contemporaneamente e puntando sempre più in alto, mentre mieteva ovunque successi che avevano accresciuto a dismisura la sua ambizione, il suo narcisismo, la sua sfrontatezza e la sua mancanza di scrupoli verso il marito, che ella, a un certo punto, prese a chiamare il povero becco: quel marito sempre innamorato di lei e sempre pronto a perdonarle qualsiasi cosa, e che per amor suo si era rovinato, anche economicamente. Va da sé che pure Napoleone era sposato, con una donna molto bella e devota, l’imperatrice Eugenia, che quasi impazzì per la gelosia e che riuscì, alla fine, a sfrattare Virginia da Parigi, con la scusa di mettere al riparo l’augusto consorte da un possibile attentato: ma solo dopo parecchi mesi di relazione scandalosa fra l’italiana e suo marito, che l’aveva colmata di regali, mentre lo scandalo correva sulla bocca di tutti e la Castiglione veniva chiamata la rivale (oltre che con epiteti assai meno gentili) della spagnola. E si noti che, all’epoca, Napoleone III, nato nel 1808, era vicino ai cinquanta, mentre Virginia, nata nel 1837, di anni ne aveva meno di venti. Dopo aver fatto la tara, dunque, troveremo che la questione resta inalterata: è lecito, a un uomo politico, perseguire i suoi scopi servendosi di mezzi così torbidi, e riducendo la politica stessa a una faccenda di letti e di lenzuola? A questa domanda, che l’intelligente e irreprensibile Cavour si era fatto da se stesso, egli aveva trovato una risposta che lo assolveva e placava i suoi scrupoli, sia pure in senso relativo e non assoluto: l’abbiamo udita nelle parole rivolte a Costantino Nigra: Se noialtri facessimo per noi, cioè per nostro personale interesse, quello che stiamo facendo per l’Italia, saremmo delle belle birbe, anzi i peggiori sporcaccioni del mondo. Ecco, dunque, qual è la linea di demarcazione fra liceità ed illiceità morale nella politica: il fatto di agire per il bene dello Stato e non per vantaggio personale, anche nell’uso di mezzi, di per sé, illeciti, o, comunque, assai poco edificanti. Dove abbiamo già sentito questo tipo di argomentazione? Ah, sì: all’epoca di Tangentopoli, precisamene dagli uomini politici accusati di aver commesso i reati di corruzione e concussione, per il finanziamento illecito dei propri partiti. Bettino Craxi fu il solo che, da dietro la sbarra degli imputati, disse a chiare note: Se questo è un reato, sappiate che facevano tutti così; ma io, personalmente non ha mai messo in tasca un quattrino. Sarà per questo che il segretario del Partito Socialista si era affrettato a scaricare — liquidandolo come un mariuolo isolato – quel Mario Chiesa, esponente del suo partito a Milano, che si sarebbe rivelato, in seguito, la prima pietra caduta, da cui ebbe origine la frana irreparabile di tutto il partito e di tutto il sistema della Prima Repubblica? Sottile distinzione: prendere denaro per il proprio partito è cosa legalmente illecita, ma moralmente ammissibile; prenderlo per metterselo in tasca, invece, è cosa del tutto indegna. E così anche il conte di Cavour: spedire sua cugina nel letto dell’imperatore dei Francesi era cosa lecita, se fatta per uno scopo patriottico; censurabile, se fosse stata fatta per un suo tornaconto personale. In fondo, è sempre la distinzione operata dallo stesso Machiavelli. Il principe deve saper intrare anche nel male, se ciò lo richiede la ragion di Stato; ma non deve indulgere nei vizi privati che possono nuocere ad essa. Il criterio del lecito diventa, perciò, l’utilità; e l’etica viene subordinata alla politica, la quale, da semplice mezzo per il buon governo, viene assolutizzata e diventa un valore in sé, superiore a ogni altro.

Nel caso specifico, si trattava di fare l’Italia. E allora tutto poteva andar bene: la seduzione sessuale da parte della contessa di Castiglione, tanto quanto l’aver spedito in Crimea qualcosa come 20.000 soldati piemontesi, per partecipare a una guerra che non aveva nulla a che fare con gli interessi vitali, né del Piemonte, né dell’Italia. Perfino le bombe di Felice Orsini potevano andar bene: nel senso che il solenne spavento preso dal Napoleone III per l’attentato, cui era sfuggito per miracolo (ma che aveva lasciato sulla strada 12 morti e 156 feriti) fu sfruttato da Cavour per convincerlo che la guerra all’Austria e la nascita di un’Italia indipendente sarebbero state le sole risposte efficaci al terrorismo, capaci di smorzare i furori rivoluzionari del partito democratico. Tutto andava bene, per arrivare là dove Cavour voleva giungere: alla stipulazione degli accordi segreti di Plombières, fra lui e Napoleone III, il 21 luglio 1858, i quali avrebbero portato, l’anno dopo, alla guerra comune contro l’Austria, primo passo verso l’unificazione italiana (o l’ingrandimento del Regno di Sardegna, secondo i punti di vista). Il punto cruciale del disegno di Cavour era che come politico, sapeva che non c’erano altri mezzi per la realizzazione del "progetto Italia". Questo è un giudizio che lasciamo volentieri al Lantos e ai molti altri che hanno accettato questa versione, chiamiamola così, classica. Secondo gli ammiratori di Cavour e gli storici della scuola liberale, non c’erano altre strade per aprire la prima breccia sulla via dell’unificazione italiana, se non ricorrere all’aiuto di un sovrano straniero. Mazzini non era d’accordo, e, con lui, non lo sono gli storici d’ispirazione democratica: un’altra via c’era, ed era quella di coinvolgere il popolo, tutto il popolo, facendo appello alle sue ampie risorse mediante un programma rivoluzionario di riforme sociali. Fu proprio il rifiuto di questa alternativa che spinse Cavour e i suoi successori ad appoggiarsi a forze esterne — dopo Napoleone III, sarà la volta del suo grande antagonista e, infine, clamoroso vincitore: il cancelliere prussiano Bismarck: parliamo, ovviamente, della guerra del 1866, dai nostri storici pomposamente chiamata "terza guerra d’indipendenza", ma che, per la maggior parte degli storici europei, è stata la guerra austro-prussiana, così come quella del 1859 era stata la guerra franco-austriaca. È difficile dire chi dei due abbia ragione, o se esista una terza possibilità: che l’Italia, cioè, potesse realizzare la propria unificazione senza fare appello alla rivoluzione sociale, e senza appoggiarsi sull’aiuto delle baionette straniere. Di fatto, come sappiamo, fu la Massoneria a prendere la direzione del moto unitario — lo stesso Cavour era un libero muratore, come del resto lo era il suo grande "rivale" politico-militare, Giuseppe Garibaldi — e, fra le due alternative, non c’è dubbio che la Massoneria preferisse la seconda alla prima. E così avvenne. Il risultato fu un’Italia unita e indipendente, sì, ma minata alla base da una debolezza, o meglio, da una serie di debolezze, che avrebbero pesato, e pesano tutt’ora, a centocinquanta anni di distanza: perché una nazione che nasce per gli intrighi di pochi e con l’ipoteca delle potenze straniere sempre pronte a ingerirsi nei suoi affari, nasce male e parte con il piede sbagliato. Fragile, discorde, spiritualmente — oltre che economicamente – frammentata e divisa: tale era, ed è, l’Italia nata dal genio politico di Cavour, ma con una scarsissima partecipazione popolare, o, addirittura, contro la volontà popolare, come in più d’una occasione si è visto (e si vede). Non c’è da meravigliarsi se, venuta al mondo con tali debolezze, l’Italia del Novecento è stata come il proverbiale vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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