
Eppure, prima o poi, si deve far i conti con se stessi
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Un tipico errore modernista: separare l’amore dalla spiritualità
3 Agosto 2017Fra il 20 maggio e il 21 ottobre 1883 l’isola di Krakatoa, nelle Indie Orientali olandesi (odierna Indonesia) fu letteralmente demolita da una serie di violentissime eruzioni vulcaniche, le quali scaraventarono in aria immani quantità di materiale eruttivo, rocce, ceneri e polveri, e rilasciarono vapori così densi, da oscurare la luce del sole per parecchi mesi, con effetti visibili fino all’altro capo del mondo. Ancora l’anno seguente alcune rotte marittime dell’Oceano Indiano risultavano interrotte per la presenza di banchi galleggianti di pietra pomice, così fitti e numerosi da costituire un serio problema per le navi. La navigazione a vapore era ancora agli inizi e le navi a vela, relativamente piccole e leggere e del tutto prive della odierna strumentazione per procedere al buio o nella nebbia, correvano dei seri pericoli di fronte a quelle isole galleggianti, non segnate sulle mappe, che avevano qualcosa d’irreale e di pauroso. Una esplosione ancor più devastante, sempre nelle Isole della Sonda, ebbe luogo l’11 aprile del 1815 e si scatenò dal vulcano Tambora, una montagna alta più di 4.000 metri che, al termine dei fenomeni parossistici, risultò "decapitata" di ben 1.300 metri; l’anno seguente, il 1816, passò alla storia in tutto il mondo come "l’anno senza sole", e di lì ebbe inizio una "piccola era glaciale", con una serie di estati mancate e d’inverni freddissimi, appunto per la massiccia presenza, nell’atmosfera terrestre, delle polveri prodotte dall’eruzione. C’è perfino chi ha ipotizzato che l’esito della battaglia di Waterloo (18 giugno 1815) sia stato influenzato in maniera decisiva dagli effetti sul clima dell’eruzione del Tambora, con il terreno saturo di umidità che fece rimandare l’azione dell’artiglieria francese — la quale, nei piani di Napoleone, avrebbe dovuto risultare decisiva – di ora in ora, fino a mezzogiorno, annullando il cosiddetto tiro di rimbalzo e soprattutto consentendo a Wellington di tenere le sue posizioni, con la fanteria britannica e alleata, fino all’arrivo, nel pomeriggio, di Blücher.
Forse il mito delle isole Simplegadi, poste all’ingresso del Ponto Eusino (Mar Nero), che cozzavano fra loro e minacciavamo di stritolare la navi dirette da e per il Mediterraneo – la loro etimologia deriva da syn, "insieme", e plésso, "urtare, battere" -, e che anche gli Argonauti, guidati da Giasone e diretti nella Colchide, alla ricerca del Vello d’oro, dovettero superare, può aver avuto origine da un evento di quel genere, cioè dalla formazione di isole natanti di pietra pomice originate da una formidabile eruzione vulcanica. E forse anche certe tradizioni dell’antichità, come l’episodio biblico delle dieci piaghe che colpirono l’Egitto faraonico al tempo di Mosè, sono riconducibili a un evento catastrofico di tipo eruttivo: l’oscurità prolungata, che sembra aver inghiottito il sole; l’invasione delle cavallette, eccetera, tutto questo potrebbe racchiudere la memoria degli effetti di un qualche sconvolgimento climatico, prodotto, a sua volta, da una colossale eruzione vulcanica. Pertanto, la domanda è: siamo a conoscenza, per l’area del Mediterraneo, di qualche catastrofe naturale che, per violenza, sia paragonabile a quelle del Krakatoa o del Tambora? E siamo a conoscenza di qualche brusco cambiamento nell’assetto politico, economico e sociale di quell’area, per esempio con la brusca scomparsa di qualche fiorente civiltà, come se un intero popolo si fosse estinto da un giorno all’altro, e come se le sue imponenti opere fossero state inghiottite nel nulla, in qualche voragine o in qualche angolo sconosciuto della nostra conoscenza storica? In questo secondo caso, dovrebbero anche esistere delle tradizioni le quali, in maniera implicita o esplicita, tramandino la memoria di una tale catastrofe o, almeno, dei suoi effetti: non "soltanto" giorni senza sole o anni senza estate, ma proprio il ricordo di un popolo scomparso e di una civiltà estinta.
Ebbene, come tutti sanno, una tale tradizione esiste; anzi, ne esistono parecchie. Le tradizioni relative al diluvio universale, che sono presenti nella mitologia di quasi tutti i popoli dei diversi continenti, ma specialmente in quella mesopotamica, oltre che nella Bibbia, potrebbero contenere il ricordo di un prolungato periodo di piogge torrenziali originate dai densissimi vapori immessi nell’atmosfera da una grandiosa eruzione vulcanica. Comunque, una tradizione, fra tutte, spicca per quanto concerne la scomparsa improvvisa di un popolo e di tutta la sua civiltà: quella di Atlantide, raccolta da Platone nei suoi dialoghi Timeo e Crizia, e che Solone avrebbe appreso, per primo, durante un soggiorno nel paese del Nilo, per bocca dei sacerdoti egiziani, i quali gli dissero che i greci, rispetto a loro, erano come dei bambini quanto alla conoscenza delle cose passate. Ora, il problema è che Platone colloca l’Atlantide nell’Oceano occidentale, vale a dire nel mezzo dell’Atlantico settentrionale; ed è lì che innumerevoli studiosi l’hanno cercata e si sono sforzati di localizzarla, sul fondo del mare o nelle isole circonvicine. Ma se la collocazione geografica dell’isola di Atlantide — anzi, del continente: perché Platone la dice grande come l’Asia e la Libia insieme — fosse un parto della fantasia del filosofo greco, come pure molte delle notizie relative ai suoi abitanti, ma il nucleo essenziale di quella tradizione fosse veritiero e si riferisse a un qualche evento realmente accaduto, cioè la distruzione repentina di una terra abitata e la scomparsa, altrettanto subitanea, della sua organizzazione sociale e materiale? Se così fosse — stiamo procedendo, ovviamente, per via d’ipotesi — bisognerebbe tornare alla prima domanda che ci eravamo posta: se esiste, nell’antichità di cui possiamo aver memoria, un qualche evento catastrofico paragonabile alle eruzioni di Krakatoa e del Tambora, ma collocabile nell’area geografica di cui Platone faceva parte, ossia nell’area mediterranea. E la risposta è positiva: una esplosione del genere si verificò in quell’area, precisamente nell’isola di Thera (oggi Santorini), una delle isole Cicladi, nel Mare Egeo, approssimativamente fra il 1627 e il 1600 avanti Cristo, secondo il metodo di datazione del radiocarbonio. Pare che si sia trattato di un evento vulcanico ancora più formidabile dell’eruzione del Krakatoa, per l’esattezza quattro volte superiore per la quantità di materiali espulsi; e il maremoto che dovette accompagnarlo fu certamente di una potenza tale da spazzare un ampio tratto di mare, distruggendo l’insediamento minoico di Akrotiri, investendo le altre isole vicine e arrivando a sconvolgere le cose dell’isola di Creta. Lo studio geologico dell’isola di Santorini mostra che essa è quanto rimane di una caldera vulcanica, ripetutamente esplosa e collassata su se stessa, quindi invasa dall’acqua del mare.
Ha scritto al riguardo il filologo classico irlandese John V. Luce nella sua opera assai nota La fine di Atlantide. Nuove luci su un’antica leggenda (titolo originale: The End of Atlantis. New Light on an Old Legend, Thames & Hudson, 1969; traduzione dall’inglese di Celso Balducci, Roma, Newton Compton Editori, 1976, 1994, pp. 130-132):
… Secondo un’ipotesi avanzata, al principio del secolo, da Drerup, molti autori hanno, quanto meno, rilevato la possibilità che la rappresentazione, dataci da Omero, dei lieti e intraprendenti Feaci, abitanti di un’isola ai confini del mondo, sia parzialmente debitrice di antioche memorie della vita nella Creta minoica. La descrizione dei giardini di Alcinoo, la passione dei Feaci per la danza, il loro amore per i bagni caldi e i comodi letti, sono tutti elementi che danno valore a questa teoria. E forse ancor più significativa è la loro notevole attitudine alla navigazione, la loro esperienza nel trasportare, rapidamente e confortevolmente, merci e passeggeri fino alle più remote destinazioni. Ulisse si giova della loro abilità quando essi riportano lui e i suoi tesori a Itaca, ma questa impresa suscita l’ira di Poseidone, che ritiene che essi, pur essendo suoi discendenti, facendo compiere a Ulisse un viaggio così buono, abbiano disprezzato i suoi voleri, per cui minaccia di tramutarne la nave in pietra nel viaggio di ritorno e anche di "racchiudere la loro città con una grande montagna". Zeus lo distoglie dal mettere in atto la più grave delle punizioni, mentre la nave durante il viaggio di ritorno viene debitamente tramutata in pietra sotto gli sguardi sgomenti dei Feaci, al che il re Alcinoo si rammenta di un "antico oracolo", trasmessogli dal padre secondo il quale un giorno Poseidone sarebbe divenuto geloso dei Feaci, in quanto "non si peritano di trasportare tutti e ciascuno", e avrebbe pietrificato una loro nave e ne avrebbe "ricoperto" la città con una montagna. Dato che la profezia si è già realizzata per metà, egli ordina immediatamente il sacrificio propiziatorio di dodici tori scelti, nel tentativo di evitare la distruzione della città. A questo punto del’Odissea il racconto si sposta lontano dalla Feacia, né mai più ci viene detto se il rimedio è stato efficace.
A questo proposito, possiamo citare una tradizione, nelle "Argonautiche" orifche, secondo la quale una volta Poseidone "colpì la terra Littonia con il tridente"e la "disperse", per cui essa si trasformò in "isole, sparse nell’infinito oceano, ci gli uomini danno il nome di Sardo, di Eubea e di Cipro". È, questo, un riferimento particolarmente interessante, in quanto l’epiteto "littorio" sta a indicare Creata, dove sorgeva l’importante città di Litto che si diceva fondata da Litto, figlio di Licaone. Questo passo ha inoltre l’origine in comune con quello tratto dal già discusso (p. 108) Quarto Peana di Pindaro, dato che in entrambi la distruzione consegue a una lite o battaglia tra Poseidone e Zeus. Io penso che il passo di Pindaro contenga un ricordo della formazione della caldera a Thera. È inoltre possibile che il presente passo conservi una remota tradizione della devastazione sismica o vulcanica a Creta, seguita da un’ampia dispersione della popolazione, non soltanto verso la Grecia, ma anche lontano verso occidente (Sardegna?) e verso oriente fino a Cipro.
Scavando immediatamente a sud del palazzo di Cnosso, Evans trovò, in un piccolo sacrario, le corna dei tori sacrificati. Nei pressi si trovavano grandi blocchi caduti che egli ritenne fossero stati staccati dalle pareti del palazzo a opera di una scossa di terremoto. A questo proposito egli acconciamente citava il verso omerico: "Lo Scuoti-la-terra-dei-tori si compiacque". Nel sacrificio propiziatorio, voluto da Alcinoo, di tori a Poseidone potrebbe ravvisarsi un’eco omerica di un antico rito minoico. Non molto chiara è la vera natura della minaccia di Poseidone ai Feaci. Si capirebbe la distruzione della città mediante un terremoto, mentre è difficile intendere un’espressione come "coprirla tutto intorno" o "racchiuderla" con una montagna. Molte volte le profezie vengono formulate "post eventum". È possibile che l’"antico oracolo" ricordato da Alcinoo in realtà fosse una spiegazione escogitata dai Greci subito dopo il cataclisma di Thera per comprendere la terribile catastrofe subita da Creta minoica. Era ammissibile supporre che i Minoici avessero offeso la loro divinità marina col riporre eccessiva fiducia nella loro capacità di navigatori, dovendo subire, per questo, le conseguenze della sua ira. Tanto il lenzuolo di cenere, quanto l’ostruzione dei loro porti, provocata dalla pomice galleggiante, potrebbero rientrare nei termini della minaccia di Poseidone. E certamente una visita a Thera ci fa ben capire che cosa accade quando le forze della natura "ricoprono una città con una grande montagna".
Secondo John V. Luce, l’esplosione di Thera — che egli collocava verso il 1470, disponendo di dati geologici ancora approssimativi — sarebbe all’origine del mito omerico dei Feaci, questo popolo intraprendente e laborioso, intelligente e marinaro, amante dello sport ma capace di apprezzare tutte le comodità del vivere civile, innamorato della vita e ospitale verso gli stranieri: come nel caso dell’arrivo di Ulisse, naufrago e solo, che viene dapprima soccorso dalla bellissima principessa Nausicaa, quindi dal re Alcinoo e dalla regina Arete; un popolo protetto da Poseidone, ma poi da questi preso in odio, e sul quale pesa la minaccia di una vendetta del dio. Tutto ciò richiama, effettivamente, sia il racconto platonico relativo all’Atlantide, i cui abitanti, ricchi e civili, furono puniti per il loro ricorso alle arti della magia nera, e vennero distrutti dall’inabissamento della loro terra e da una serie di furiose tempeste marine, sia quel che sappiamo, sul piano storico, della brusca scomparsa della civiltà minoica, che, di lì a poco, sarebbe caduta preda dei Micenei. Se l’evento catastrofico di Thera sia stato sufficiente a distruggere la civiltà minoica, è questione tuttora controversa e fortemente dibattuta; tutti gli studiosi, però, ammettono che esista, quanto meno, una relazione fra l’eruzione vulcanica e la decadenza assai brusca dei minoici, sottomessi poco dopo dai Micenei, come se non avessero avuto più la forza di difendersi. Omero descrive la civiltà dei Feaci con molta simpatia, si può dire che ne fa un quadro idilliaco. La virtù sovrana da essi praticata è lì ospitalità; ma dal loro modo di viere emerge tutta una concezione della vita che rivela saggezza e dinamismo, un equilibrio perfetto di progresso e tradizione. Alcinoo è il prototipo del re buono e giusto; sua figlia Nausicaa è adornata delle più splendide qualità fisiche e morali; perfino il giardino della reggia è una meraviglia e fornirà il modello del luogo paradisiaco preparato dalla mano dell’uomo (un’eco si può cogliere forse nel giardino della "lieta brigata" del Decamerone). Vi è, in tutto ciò, una memoria della perduta civiltà minoica? Sì, è possibile, se non addirittura probabile…
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