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25 luglio 1943, fu tradimento? c) Federzoni

Dopo Alfredo De Marsico e Dino Grandi, vogliamo occuparci ora di un terzo personaggio di assoluto rilievo, tra i firmatari dell’ordine del giorno Grandi nell’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo (organismo che, vale la pena di ricordarlo, non si era più riunito da prima dell’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale), che determinò la crisi immediata del regime e la sua liquidazione da parte del re Vittorio Emanuele III, che sostituì prontamente Mussolini con il generale Pietro Badoglio quale capo del governo.

Ma chi era Luigi Federzoni? Bolognese, come Dino Grandi, classe 1878, una laurea in lettere (con Giosuè Carducci) e una in giurisprudenza, giornalista, saggista, romanziere, era stato, nel 1910, tra i fondatori, insieme a Enrico Corradini, dell’Associazione Nazionalista Italiana e del suo organo di stampa, L’idea nazionale, quindi era stato eletto deputato nel 1913. Allorché, dieci anni dopo, ebbe luogo la fusione tra fascisti e nazionalisti, fu per tre volte ministro nel governo di Mussolini, prima alle Colonie (dal 1922 al 1924), poi agli Interni (dal 1924 al 1926) e infine, di nuovo alle Colonie (dal 1926 al 1928). Svolse anche un ruolo di primo piano sul versante culturale e istituzionale: firmatario degli Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile, nel 1925, ebbe poi la presidenza della Società Geografica Italiana (dal 1923 al 1926), fu senatore dal 1928, presidente del Senato per un decennio, dal 1929 al 1939, presidente dell’Accademia d’Italia dal 1938 al 1943, nonché, nello stesso periodo, presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, presidente dell’istituto Fascista dell’Africa Italiana e presidente della società editrice della prestigiosa rivista Nuova Antologia (fondata a Firenze nel 1866), fino alla caduta del regime, nel luglio del 1943.

Federzoni, dunque, era un nazionalista che, più tardi, avrebbe rivendicato di non essere mai stato fascista, ma di essersi trovato iscritto al Partito Nazionale Fascista per semplice immissione automatica; e, in buona sostanza, di aver servito il Partito per servire la Patria. Come Dino Grandi, egli non vide mai nel fascismo altro che una realtà temporanea, destinata a finire, nulla più che uno strumento per realizzare i fini nazionalisti e imperialisti che l’Italia, a suo avviso, doveva perseguire per imporsi quale grande potenza. In questo senso, egli non riteneva di avere alcun obbligo di fedeltà nei confronti del fascismo, in via di principio, ma solo fino a che gli obiettivi del regime e quelli dello Stato avessero coinciso. Anche lui rivendicò di aver giurato fedeltà prima di tutto al Re — nella triplice veste di ufficiale dell’esercito, di senatore e di ministro — e poi a Mussolini; anzi, negherà addirittura di aver mai giurato fedeltà al fascismo, e dichiarerà, candidamente, di non aver mai potuto immaginare che, un giorno, si sarebbe verificato un contrasto tra la fedeltà al Re e la fedeltà a quello che era il suo governo. Certo, fa piacere sapere che un uomo il quale, per vent’anni, aveva servito il regime fascista, in pace e in guerra, e che aveva ricoperto altissime cariche istituzionali e politiche, possedeva un’anima così pura e così ingenua, da non potere e non volere (sono parole sue) pensare che vi sarebbe mai stato alcun serio motivo di conflitto fra lo Stato, rappresentato dal Re, e il Partito al quale apparteneva, e che era, guarda caso — ma questo, il buon Federzoni, pare quasi far finta d’ignorarlo — non un borghese e legalitario governo democratico, ma un regime dittatoriale, nato da un atto di forza e realizzatosi mediante lo smantellamento progressivo e irreversibile dello Stato liberale e di diritto.

Ed ecco l’autodifesa di Luigi Federzoni sul 25 luglio, dai toni bruschi, nervosi, piuttosto aggressivi e, talvolta, sarcastici, sempre un po’ sopra le righe, intitolata Le memorie di un condannato a morte, cap. XIII, Siamo traditori?, e pubblicata su La Nuova Stampa di Torino del 30 giugno 1946, preceduta da una inusuale, e ancor più aggressiva, premessa redazionale diretta contro di lui (cit. in: Gianfranco Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio 1943, crollo di un regime, Milano, Mursia, 1963, pp. 549-550):

Facciamo un po’ un esame di questo mio caso. Chi e che cosa avrei tradito? Il giuramento? L’"idea"? L’uomo che mi aveva per sua bontà innalzato, beneficato, ecc. ecc.? La Patria con l’aprire le porte al nemico? (Sono queste le imputazioni che ora si vanno confusamente indicando contro tutti noi in blocco).

Ho tradito il giuramento? Quale giuramento? Quello di "eseguire gli ordini del Duce" e di "servire la causa della Rivoluzione fascista"? Non ebbi mai a prestarlo né a pensarci; e nessuno mi invitò mai a riparare alla lacuna, ammesso che lacuna ci fosse. Come tanti altri fui iscritto di ufficio nel febbraio 1923 per l’automatica immissione dei nazionalisti in seguito all’avvenuta fusione dei due movimenti politici. Del resto, allora, si pensava anche dai nove decimi dei fascisti che la "causa della rivoluzione" fosse rappresentata dalle ragioni della marcia su Roma, ossia di un insieme di circostanze e di necessità per le quali l’atto di forza era stato compiuto ed era stato successivamente sanato dalla Corona e dal parlamento oltre che accettato dai vari partiti che avevano consentito di buon grado ad essere rappresentati nel governo sotto la presidenza di Mussolini.

"Eseguire gli ordini del Duce"? Benissimo, sempre che, com’era naturale e logico, essi fossero compatibili con i principi affermati al momento della marcia su Roma e poi all’atto della fusione fra nazionalismo e fascismo. Altrimenti si sarebbe trattato di un totale abbandono della propria coscienza all’arbitrio personale di un uomo, fosse pure un genio, che tuttavia poteva sbagliare o traviarsi. […]

Quanti giuramenti si possono prestare? Avevo ripetuto come ministro il giuramento di fedeltà al Re, già pronunziato come ufficiale e come deputato. Non potevo e non volevo nemmeno per un attimo immaginare che, un giorno, avesse da sorgere contrasto tra la fedeltà al Re e la fedeltà a quello che era il suo governo. In ogni caso era il primo vincolo che valeva, perché anteriore e perché assorbente. Comunque, il secondo vincolo — che sarebbe sempre stato "sub conditione" — non lo contrassi neanche "pro forma". […]

Ho tradito l’"idea"? Quale "idea"? Quando Mussolini, assunto il potere, auspicò la fusione dell’Associazione nazionale italiana con il PNF proclamò l’identità dei fini dei due movimenti, non solo, ma attribuì ai nazionalisti, nel giorno della loro entrata nel partito, il compito di elaborare e illustrare la loro dottrina politica, la quale sarebbe dovuta diventare la dottrina del fascismo: cosa di cui poi non si fece nulla, sicché il fascismo rimase un partito senza dottrina, finché Mussolini stesso non ebbe composto, otto o dieci anni dopo, il centone pragmatistico del suo articolo per l’"Enciclopedia". In concreto, il fascismo non attuò, bensì sciupò, traviò e infirmò con una volgarizzazione superficiale di tono demagogico, un organismo di idee in cui era un’essenza classica di ordine, di giustizia e di grandezza morale.

Come si vede, Federzoni si sente perfettamente a posto con la sua coscienza perché afferma di non aver tradito né il giuramento, né l’"idea", né la Patria. Gli argomenti che adopera sono di natura legale e formale, ma anche di natura ideologica. A rigore, non essendo mai stato fascista, non deve spiegare perché abbia votato contro Mussolini; comunque, il fascismo non era il nazionalismo e lui, nazionalista, non era mai stato fascista. Inoltre, non esisteva alcuna "idea" da tradire, perché il fascismo non aveva idee: fu un partito senza dottrina, che vampirizzò una esigenza di ordine, di giustizia e di grandezza morale. Quando volle dargli una dottrina, Mussolini, una decina d’anni dopo aver preso il potere, scrisse la voce fascismo per l’Enciclopedia Italiana (in realtà, insieme a Giovanni Gentile), che, a detta di Federzoni, è solamente "un centone pragmatista". Pertanto se ne ricava che il fascismo, dalla sua nascita al 1932, non ebbe alcuna base ideologica e che quanti lo servirono, come lo stesso Federzoni, vissero, ideologicamente parlando, sul nulla: si nutrirono di aria fritta e ne furono, a loro volta, solerti venditori presso gli italiani. È curioso che un uomo della cultura e dell’intelligenza di Federzoni non si avveda dell’assurdità di questa tesi, che solo gli antifascisti più fegatosi e preconcetti, ormai, sostengono in sede storiografica; e come, se anche la si volesse prendere per buona, essa suoni come una condanna inappellabile di lui stesso, di tutta la sua carriera politica, istituzionale e intellettuale.

Per difendersi dalla taccia di traditore, egli arriva a dire che non tradì nulla, perché non c’era nulla da tradire: il fascismo non era una cosa seria, non era neppure una cosa concreta, era solo una bolla di sapone; fu unicamente un fenomeno di parassitismo culturale e morale, che s’impossessò di una domanda di ordine, giustizia, eccetera, senza offrire nulla di proprio. È come se un ammutinato, per respingere l’accusa di ammutinamento, sostenesse che non c’era alcuna nave, alcun capitano, alcuna istituzione contro cui ammutinarsi, ma solo dei fantasmi inconsistenti, delle illusioni destinate a svanire. Va bene che Federzoni aveva esordito sulla scena pubblica come romanziere e novellista, ma qui va un po’ troppo oltre il segno, trasformando, pirandellianamente, le cose, i fatti, in semplici punti di vista, opinioni e fantasticherie, e il fascismo in una recita a soggetto: così è, se vi pare. Quel che non convince, ovviamente, in una siffatta interpretazione, è che egli abbia aspettato la notte del 25 luglio 1943 per trarre le conseguenze pratiche da questa scoperta, votando la sfiducia all’autore di quella grande illusione, di quella grande bolla di sapone: vale a dire, quando ormai il disastro dell’Italia era imminente, e, soprattutto, quando lui stesso, insieme agli altri, sarebbe stato presto chiamato a rispendere di quei vent’anni di fedeltà al regime. Se lui, nazionalista, non era d’accordo sulla fusione con il fascismo, chi o che cosa gli avrebbero impedito di rassegnare le dimissioni, e tornare alla sua carriera di scrittore? Viceversa, se era rimasto al suo posto e aveva ricoperto, per tre volte, la carica di ministro del Regno – fra l’altro, nominando il nuovo capo della polizia, Arturo Bocchini, che restò al suo posto dal 1926 fino alla morte, nel 1940, collaborando strettamente con il suo omologo tedesco Heinrich Himmler e rafforzando la politica dell’Asse Roma-Berlino – non è forse lecito desumere che il fascismo, per quanto privo di una idea portante, gli sia parso meritevole di essere servito con zelo, con alacrità, con convinzione? Si può accettare di essere ministro dell’Interno e ministro delle Colonie per conto di un governo di cui non si ha alcuna stima? E si può scoprire solo dopo venti anni, guarda caso alla vigilia di una disfatta militare, ma non prima, che quel regime ha tradito gli interessi nazionali e non merita più alcuna fedeltà? Insomma: le riserve mentali del signor Federzoni — sto con i fascisti, ma solo finché non mi deludono, finché non danneggiano la Patria, finché non scopro che stanno "traviando" le migliori energie della nazione — non sono un po’ troppe, e non emergono un po’ troppo tardivamente?

Si direbbe che, nella sua personalità, si sia verificato uno stranissimo sdoppiamento, durato per quattro lustri: da una parte l’uomo dalla coscienza intemerata, che non vuole abbandonarla all’arbitrio di un uomo, fosse pure un genio, e che, la notte del 25 luglio, dice "basta" al regime e al suo capo, in compagnia della maggioranza dei membri del Gran Consiglio (chi lo sa se avrebbe trovato altrettanto coraggio, se i firmatari dell’ordine del giorno Grandi fossero stati in minoranza), dall’altra il solerte ministro, deputato, presidente del Senato, presidente di svariati istituti ufficiali o semi-ufficiali del regime, che non mostra mai, in pubblico, dubbi o incertezze, né mai lascia trapelare i suoi scrupoli e i suoi nobili tormenti interiori. E non è nemmeno da dirsi che, come servitore dello Stato, Federzoni sia stato un moderato rispetto al fascismo. Per fare solo un esempio: nel 1929, dopo essere stato per due volte ministro delle Colonie, Federzoni redasse il progetto di un impero africano che avrebbe dovuto estendersi dal Fezzan fino al Golfo di Guinea, guadagnando così all’Italia il desiderato sbocco sull’Oceano Atlantico, che Mussolini, molto più modestamente, ma forse con maggiore realismo, cercava dalle parti dello Stretto di Gibilterra e del Marocco spagnolo (cfr. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 169). Ora, la tesi di un "deragliamento" del fascismo dai suoi scopi iniziali, che avrebbe dato a uomini come Federzoni la liceità morale di voltargli le spalle (se la parola "tradimento" ripugna alla loro delicata sensibilità), starebbe in piedi se tali uomini si fossero posti in funzione moderatrice verso di esso e verso la politica che condusse alla guerra; ma non è credibile se, al contrario, furono loro a spingere il regime fascista a coltivare ambizioni imperiali veramente grandiose, quali esso, da se medesimo, non era arrivato neppure a immaginare. In un certo senso, questa tesi potrebbe calzare, semmai, al caso di Dino Grandi, che effettivamente, a un certo punto della sua stranissima carriera in seno al fascismo, divenne un moderato, nel senso di un fautore dell’accordo con la Gran Bretagna. Peccato che quella politica, sì, fosse in contrasto con la ragion d’essere del fascismo: fare dell’Italia una grande potenza, liberandola dal "protettorato" britannico…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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