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8 Luglio 2017Ma cos’è questo fascismo che si scioglie come neve al sole?, domandò, esterrefatto, Adolf Hitler, quando gli giunsero le prime notizie sul colpo di Stato del 25 luglio 1943; non si può chiamare diversamente quel che accadde allora, con la caduta e l’arresto di Mussolini e l’ascesa al potere di Piero Badoglio, per volontà del re Vittorio Emanuele III, che sfruttò il voto del Gran Consiglio per rientrare in possesso di tutti i suoi poteri costituzionali, così volentieri "consegnati" al Duce, de facto se non de jure, per un ventennio. E forse solamente allora si rese conto, il Führer della Germania nazista, quanto fosse sempre stato fragile, inconsistente, il suo alleato dell’Asse Roma-Berlino, e di come — fatta salva la sua sincera stima e l’amicizia personale nei confronti di Mussolini — egli avesse sempre sopravvalutato l’efficienza di quel modello, il fascismo, che gli era stato da guida negli anni della propria conquista del potere. Perché è chiaro che Hitler non avrebbe mai convocato un organismo paragonabile al Gran Consiglio, e mai avrebbe permesso ai suoi collaboratori di votare la sfiducia nei suoi confronti; né mai avrebbe tollerato di rimanere, costituzionalmente, al secondo posto, rispetto al Capo dello Stato, diciamo a un Hindenburg, il quale avrebbe potuto liquidarlo in un amen, come fece Vittorio Emanuele III, a Villa Savoia, in quel pomeriggio del 25 luglio. E mai e poi mai, infine, Hitler avrebbe lasciato il comando, sia pure formale, delle Forze Armate, a qualcun altri che non fosse lui.
Certo, queste differenze stanno anche a mostrare che, per Hitler, il Partito nazista veniva prima dello Stato, ed era lo Stato che doveva subordinarsi ad esso, o meglio, che doveva "nazificarsi", mentre per Mussolini le cose stavano esattamente al contrario: nulla doveva venire prima, o essere al di sopra, dello Stato, neppure il Partito fascista. Differenza di temperamento e di prospettive politiche, ma anche differenza, profonda, del contesto storico: la Germania era già una unità di Stato e popolo, l’Italia no, il Risorgimento era ancora da completare, il popolo italiano era ancora ai primi passi nella sua vita nazionale. Hitler, dunque, si era impadronito d’una macchina in piena efficienza, anche se prostrata dalle conseguenze della sconfitta del 1918 e dalla crisi economica del 1929; Mussolini si era sforzato, per vent’anni, di realizzare quella fusione fra cittadini e Stato che è la premessa indispensabile, non diciamo per una politica di potenza, ma anche soltanto per una pacifica ed equilibrata vita nazionale. Sta di fatto che Hitler non cadde finché non cadde l’ultimo lembo del territorio tedesco e finché l’ultimo soldato tedesco non si trovò nella impossibilità materiale di proseguire la lotta; Mussolini venne fatto cadere da una congiura di palazzo proprio nella illusione – che accomunò, paradossalmente, fascisti e antifascisti — secondo la quale, eliminato lui, l’Italia avrebbe potuto salvarsi, uscendo dalla fornace della Seconda guerra mondiale senza pagare uno scotto troppo pesante. E fu illusione così tenace che perfino dopo la tragedia della guerra civile e della sconfitta totale, da parte di una duplice invasione straniera, ancora al tratto di Parigi del 1947 i delegati italiani si presentarono coltivando l’assurda speranza che proprio il fatto che gli stessi italiani avessero eliminati politicamente Mussolini prima dell’armistizio dell’8 settembre, avrebbe permesso all’Italia di ricevere un trattamento, se non da potenza vincitrice (esistono un limite perfino all’improntitudine più sfrenata, ed una sorta di pudore perfino nei più sfrontati), almeno da cobelligerante, quale essa effettivamente era stata: ma le cose si svolsero ben diversamente.
Abbiamo detto, nel precedente articolo, che ci sembra di grande interesse storico, sociologico e morale, riflettere sulle motivazioni che, a posteriori, i protagonisti della caduta di Mussolini, membri del Gran Consiglio e quindi, in teoria, suoi stretti collaboratori e uomini di fiducia, diedero del loro operato nella notte del 25 luglio, per difendersi dall’accusa, o dal sospetto, di tradimento, che, inevitabilmente, da allora li ha accompagnati, sia nella percezione degli amici, o ex amici, fascisti, sia in quella degli antifascisti. Ora, dopo Alfedo De Marsico, è tempo di ascoltare le parole del principale artefice di quella caduta, Dino Grandi, che era stato, per tutto il ventennio fascista, il solo possibile antagonista di Mussolini e l’unico che avesse avuto, per un momento, la concreta ambizione di prenderne il posto. Ciò era avvenuto subito dopo la firma dell’effimero patto di pacificazione coi socialisti del 3 agosto 1921, fortemente voluto da Mussolini, ma disapprovato dai capi dello squadrismo e specialmente da Grandi, che, all’epoca — e in contrasto con la sua successiva immagine di diplomatico raffinato, moderato e filo-inglese — era, dello squadrismo, il capo riconosciuto, assieme a Italo Balbo. In tale occasione, Grandi aveva cercato di mettersi in contatto con Gabriele D’Annunzio per proporgli di sostituire Mussolini alla guida del movimento fascista (movimento che si sarebbe trasformato in Partito nazionale fascista solo il 3 novembre di quell’anno). Il poeta-soldato, però, avuto sentore della cosa, rifiutò anche solo di aderire al’abboccamento; e Mussolini, dopo aver presentato le proprie dimissioni dalla direzione del movimento e averle viste rifiutate, riprese saldamente in pugno la situazione. Quel che tutti avevano visto era stato: primo, che Grandi, pur godendo di molto seguito fra gli squadristi emiliani, non era ritenuto, e non si riteneva egli stesso, all’altezza di prendere la guida del movimento fascista a livello nazionale; secondo, che, nondimeno, Grandi era, e veniva considerato da tutti, come il numero due del fascismo e, all’occasione, come l’unico capace di rivaleggiare con Mussolini per la guida suprema di esso.
Si può dire che tutta la brillante carriera politica di Grandi, che non è questa la sede per rievocare, fino alla guida del Ministero degli Esteri (dal 12 settembre 1929 al 19 luglio 1932), alla carica di ambasciatore a Londra (per sette anni) e, poi, a capo del Ministero di Grazia e Giustizia (dal 12 luglio 1939 al 5 febbraio 1943), nonché alla presidenza della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (dal 30 novembre 1939 al 2 agosto 1943), si sia svolta in parallelo a quella di Mussolini, che lo temeva e che, alla fine, lo destituì da ministro degli Esteri per il suo eccessivo riavvicinamento alla Gran Bretagna e alla linea della Società delle Nazioni (non senza pesanti intromissioni di Italo Balbo, l’ex amico che ora aborriva Grandi e voleva nuocergli in ogni modo). Affiliato alla massoneria, della quale era uomo di spicco, Grandi disse di aver concepito per la prima volta un qualcosa di simile al suo ordine del giorno, quand’era nel fango delle trincee sul fronte greco-albanese, ove sarebbe maturata la sua definitiva avversione per Mussolini e per la sua politica; benché nel giugno del 1940, al momento dell’entrata in guerra al fianco della Germania (che egli detestava), non risulta che abbia fatto udire la sua voce per dissuadere o criticare la decisione del Duce, al contrario, tenne dei discorsi molto bellicosi che parevano perfettamente in sintonia con quella politica. Nulla di strano, in questo: Grandi era sempre stato un opportunista, un calcolatore; uno che non si espone, se non quando è certo di avere in mano un poker d’assi.
Ma ecco con quali argomenti egli si è poi difeso dall’accusa di tradimento per i fatti del 25 luglio, nel corso di colloqui avuti con lo storico e giornalista Gianfranco Bianchi (da: G. Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio 1943, crollo di un regime, Milano, Mursia, 1963, p. 548):
L’organo supremo del Regime era il Gran Consiglio del Fascismo di cui il Duce del Fascismo faceva parte e alle decisioni del quale lo stesso Duce del Fascismo era tenuto ad obbedire. Il preteso "tradimento", che sarebbe stato da noi perpetrato per il fatto di essere venuti meno al giuramento verso Mussolini, è una trovata macabra e grottesca in pari tempo. In primo luogo tutti noi, come Ufficiali, come Deputati, come Ministri della Corona, eravamo legati da un preciso giuramento al Capo dello Stato. Mussolini, come Primo Ministro, era tenuto a rispettare questi giuramento prestato nelle mani del Sovrano. Il giuramento da noi fatto, nell’ambito del Partito, trovava le sue evidenti limitazioni nel nostro giuramento, al capo dello Stato e, comunque, il giuramento come uomini di partito consisteva nella obbedienza alle deliberazioni, non del Duce del Fascismo, ma bensì dell’Organo supremo del Regime che era precisamente il Gran Consiglio.
E allora, di quale "tradimento", di quale "complotto" si sta cianciando? Il fascismo non era Mussolini per quanto Mussolini abbia fatto di tutto per identificare nel fascismo la sua persona e la sua dittatura. Ciò facendo egli ha, di fatto, ucciso il fascismo.
La dittatura mussoliniana ha, ripeto, ucciso il fascismo il quale non ha mai considerato nella tavola delle sue leggi ideologiche e spirituali un regime a carattere totalitario. Chi è venuto meno è stato Mussolini, non noi che votammo l’ordine del giorno.
Una volta che il Gran Consiglio come Organo supremo del Regime aveva approvato a maggioranza il mio ordine del giorno, il Due, così come tutti i fascisti, era tenuto ad uniformare la sua condotta secondo le deliberazioni dell’Organo supremo del Regime.
È significativo il fatto che Grandi, dopo aver ricordato che costituzionalmente, il giuramento suo e degli altri "congiurati" del 25 luglio verso il Re d’Italia precedeva, in tutti i sensi, quello prestato al Duce del Fascismo, come scordandosi il piccolo dettaglio che il fascismo era una dittatura e non una democrazia, che lui stesso aveva avuto larga parte nel creare a suon di bastone e olio di ricino nelle campagne emiliane, si sia poi scordato di menzionare l’altro giuramento, il più importante di tutti: quello prestato alla massoneria, cui era iscritto. E si sa che, negli alti gradi, si tratta di un giuramento estremamente serio, per non dire drammatico, con il quale ci si impegna a eseguire qualunque ordine da parte dei superiori, fosse pure quello di piantare un coltello nel cuore del proprio genitore o del proprio fratello. E Grandi si dimentica anche di ricordare, a beneficio del lettore, forse distratto, forse inconsapevole, che Mussolini, nel 1925, aveva lanciato una dura offensiva, sia in parlamento sia di tipo squadrista, contro la massoneria, provocando lo scioglimento di tutte le logge (tranne il Grande Oriente), da lui ritenute una forma di occulta dittatura che, sotto la maschera democratica, perseguiva dei propri obiettivi che la rendevano incompatibile con il consolidamento del fascismo nella società italiana. Infine, Grandi si scorda di parlare dell’ipotesi, fatta da alcuni (come appare dal libro di Mimmo Franzinelli, Guerra di spie, apparso nel 2004), che proprio dalla massoneria dei Paesi anglosassoni, e specialmente da quella degli Stati Uniti, gli sia venuto il "suggerimento" di organizzare — insieme a un altro frammassone illustre, Vittorio Emanuele III, col quale si abboccò il 4 giugno 1943 – una manovra per estromettere Mussolini dal potere. Cosa che sarebbe giunta agli orecchi dei servizi segreti tedeschi, tanto è vero che Himmler ne sarebbe stato informato ancor prima del vertice di Feltre fra Hitler e Mussolini del 19 luglio, a Villa Gaggia Per quanto non sia dimostrata la regia massonica internazionale dei fatti del 25 luglio, e, forse, non sia neppure dimostrabile, questo scenario appare comunque più verosimile di una non meglio precisata "illuminazione" che Grandi avrebbe avuto, nella neve e nel fango delle montagne greco-albanesi, durante l’inverno 1940-41.
Tuttavia, lasciamo perdere queste strane dimenticanze e concentriamoci sugli argomenti giuridici e morali coi quali Grandi rintuzza, sdegnosamente, la taccia di traditore. Traditore, lui? No, perché aveva giurato fedeltà al re, prima che a Mussolini; inoltre, il Gran Consiglio era l’organo supremo del fascismo, e quindi anche Mussolini era tenuto a uniformarsi alle sue decisioni. Curioso: a parte i precedenti delle riunioni del Gran Consiglio, che si erano chiuse, tutte, con l’approvazione delle deliberazioni del Duce, dalle parole di Grandi pare quasi che Mussolini fosse un normale capo del governo di una normale democrazia parlamentare, il quale ha l’obbligo di piegarsi alla volontà della maggioranza dei suoi ministri. E invece il fascismo era una dittatura: una dittatura che ambiva a trasformarsi in totalitarismo. Questo lo vedevano, lo sapevano e lo capivano tutti, in Italia e all’estero: possibile che lui solo non lo sapesse? Una volta imboccata questa china, Grandi è costretto a procedere, con perfetta coerenza, fino alle estreme conseguenze: il fascismo non è Mussolini; Mussolini se n’è impossessato, lo ha identificato con la propria persona, e, così facendo, lo ha "ucciso". Spiacenti, ma questa interpretazione non è credibile, e non è nemmeno seria. Il fascismo e Mussolini sono realmente una cosa sola, tanto è vero che non è possibile immaginare l’uno senza l’altro. La prova: dopo la caduta e l’arresto di Mussolini, e soprattutto dopo l’armistizio di Badoglio dell’8 settembre, Hitler si guardò attorno, per vedere con chi avrebbe potuto, eventualmente, rimpiazzare la figura del Duce, alla testa della costituenda Repubblica Sociale Italiana: e non trovò nessuno. Roberto Farinacci, che si agitava più di tutti, lo disgustava con l’eccesso di servilismo: pareva volesse proporsi come il Gauleiter tedesco per l’Italia. Chi altri, allora? Alessandro Pavolini? Non ne aveva la statura politica. Achille Starace? Meno ancora. Giovanni Preziosi era utile in chiave antisemita, ma nulla di più: in Italia, contava zero, anzi, peggio, non godeva di alcuna simpatia. I diciannove che avevano firmato la mozione Grandi, poi, per Hitler erano tutti dei miserabili traditori, perché tale era la sua idea del partito: essi erano l’equivalente di Ernst Röhm e dei capi delle SA, da lui eliminati brutalmente nella "notte dei lunghi coltelli" del 30 giugno 1934, a poco più di un anno dalla presa del potere; mentre Mussolini aveva subito la minaccia dei suoi ras, nel 1921, arrivando con loro a un compromesso incruento. Per Hitler, bisognava fucilarli alla schiena, tutti quanti (sarebbe stato accontentato, ma solo per cinque di essi). Dunque, non c’era nessuno che si potesse anche solo minimamente pensare di sostituire a Mussolini dopo il 25 luglio 1943: ciò dimostra che lui e il fascismo erano una cosa sola. Ma, obietta Grandi, ciò dipende dal fatto che Mussolini volle sovrapporre se stesso al fascismo. È un’affermazione ridicola: il fascismo è stato una creazione di Mussolini: il creatore non si sovrappone alla sua opera, ma è colui che la crea. Pensato e creato da Mussolini, il fascismo è caduto con lui. La verità è che Grandi e gli altri diciotto firmatari dell’ordine del giorno che sfiduciava il Duce hanno perpetrato un suicidio politico, sia verso se stessi, sia verso il regime. Che il fascismo potesse sopravvivere a una votazione come quella del 25 luglio, in cui la maggioranza dei gerarchi aveva chiesto che Mussolini riconsegnasse al sovrano l’effettivo comando delle Forze Armate e la suprema direzione politica del Paese, è assurdo.
Resta, perciò, un lato misterioso nella notte del 25 luglio. I firmatari dell’ordine del giorno Grandi non potevano non sapere tutto ciò. Rimane allora da capire come Dino Grandi, e, forse, anche gli altri, pensassero di poter sopravvivere alla estromissione di Mussolini, magari conservando sia il regime fascista al potere, sia i loro incarichi istituzionali e i loro personali privilegi. Probabilmente Vittorio Emanuele III seppe giocarli tutti quanti, e molto bene, così come aveva saputo giocare Mussolini: il quale, il 25 luglio, gli s’era presentato, a Villa Savoia, con una fiducia tale da rasentare la dabbenaggine…
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