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I frutti avvelenati del “tacito patto” del 1945

Può una società intera reggersi su di una menzogna, aggravata dall’ipocrisia di spacciarla per la verità, pur sapendo benissimo che di una menzogna si tratta, e anche molto, molto grossa? O non è forse inevitabile che, in una situazione del genere, la menzogna generi dei frutti avvelenati, i quali faranno sentire poi, nel corso del tempo, i loro micidiali effetti, alterando e avvelenando i figli, i nipoti e anche i pronipoti di quella società? La menzogna non genera sempre effetti nefasti, tanto più esiziali, quanto più essa viene creduta, o fatta passare per vera, da una intera generazione, e tramandata da essa a quelle successive?

Stiamo parlando, naturalmente, della società italiana: della società nata dalla sconfitta del 1945 e dalla Repubblica di Pulcinella del 1946. Per essere precisi, non di una sola menzogna si è trattato, ma di tutta una serie di menzogne, così ben collegate e saldate l’una con l’altra, così necessarie l’una all’altra, per poter reggere, nel suo insieme, il castello della Grande Menzogna – abbastanza grande da poter ospitare, al suo interno, niente di meno che l’intera società italiana, la sua cultura, la sua educazione, i suoi valori fondanti, o pseudo valori -, da dare l’impressione di essere una sola: infatti, pur girando attorno all’edificio poligonale, non è agevole scoprire i punti di giunzione tra le une e le altre facce, e capire che di si tratta di una somma di cose diverse, tenute insieme, appunto, dal comune denominatore della falsità.

La prima menzogna è che a perdere la guerra del 1940 sia stato solo Mussolini, o, tutt’al più, il regime fascista. Mussolini diventa, così, l’alieno, il corpo estremo piovuto da chissà mai quale lontana galassia, da qualche lontanissima nebulosa: uscito lui di scena, ogni cosa è ritornata al suo posto, come prima e quasi — anzi, senz’altro – meglio di prima L’Italia, pertanto, nella Seconda guerra mondiale, non ha perso nulla, al contrario, ha guadagnato tutto: la libertà, la democrazia, la stima di se stessa e il rispetto degli altri, dei Paesi civili di tutto il mondo. E pazienza se gli "altri", a suo tempo, avevano apprezzato Mussolini, eccome; pazienza se uomini come Churchill e Roosevelt lo avevamo ammirato, e avevano sostento che il suo era stato il miglior governo che l’Italia potesse sperare di avere, in quel momento storico. Pazienza anche per i 470.000 morti, 320.000 dei quali appartenenti alle Forze Armate e 150.000 alla popolazione civile, gran pare dei quali ultimi periti sotto i bombardamenti aerei dei "liberatori" angloamericani: non si può fare la frittata senza rompere un po’ di uova, specie se la frittata è così grande e appetitosa. Il che spiega il silenzio imbarazzato, e vergognoso, sui caduti di El Alamein e di Capo Matapan, e più ancora sulle donne, sui vecchi e i bambini morti sotto le loro case distrutte dalle fortezze volanti dei baldi "liberatori" (al massimo si poteva parlare dei caduti in Grecia e in Russia, a maggior discredito del regime fascista): se a perdere la guerra era stato soltanto Mussolini, non si poteva parlare di loro, altrimenti la menzogna avrebbe mostrato le sue gambe corte.

La seconda menzogna è che la caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943 — che, come tutti sanno, fu il risultato di una congiura, anzi, dell’intrecciarsi simultaneo di più congiure, e nel quale la partecipazione popolare fu semplicemente nulla — e l’armistizio dell’8 settembre – che fu, in gran parte, il risultato dell’incapacità e della vigliaccheria di Badoglio e dell’intera nuova classe dirigente, se così la si vuol definire, messa in piedi in quattro e quattr’otto da sua maestà Vittorio Emanuele III – scodellarono, per grazia infusa, le prodezze della Resistenza, fucina di tutti i valori e preambolo, se non causa diretta, della Liberazione e della successiva nascita della Repubblica democratica, "fondata sul lavoro". Sulla guerra civile, neanche una parola, per circa sessant’anni: proibito perfino parlarne, pena il reato di lesa maestà del mito fondante della Repubblica di Pulcinella. Che poi la Resistenza abbia prodotto la "liberazione" e la "democratizzazione" della società italiana, è una leggenda che non reggerebbe all’esame di un bambino: ma il punto è che, appunto, nessuno l’ha messa in dubbio per tutto quel tempo. Si è trattato, anzi, di una doppia menzogna: perché la "Resistenza" è un contenitore che comprende cose in sé diversissime e anche inconciliabili (fino alla violenza e all’eliminazione fisica: vedi il massacro di Porzûs), e nella quale operarono, fra l’altro, gli spietati assassini dei G.A.P. nelle città, e, in montagna, le bande comuniste desiderose d’instaurare il "mondo nuovo" staliniano (e non certo la libertà), nonché i delinquenti puri e semplici, bramosi di stupro, di rapina e di assassinio, e che furono particolarmente attivi nelle ultime settimane prima, e soprattutto dopo, la fine della guerra, quando le cifre parlano di un’impennata gigantesca, e un tantino sospetta, nel numero dei sedicenti partigiani: singolare coincidenza, che avrebbe dovuto far riflettere e lasciar intuire almeno una parte della verità, se per caso ci fossero state ancora delle menti libere e delle schiene dritte, nei ranghi della Repubblica di Pulcinella.

La terza menzogna è che la Liberazione e la nascita della Repubblica, operate dal "popolo" e dai valorosi combattenti partigiani, abbiamo ripristinato ciò che il fascismo aveva conculcato e rapito agli italiani: la libertà, le istituzioni democratiche, il diritto e la capacità di decidere da sé il proprio destino. Come se il fascismo non fosse sorto proprio perché, nell’Italia del primo dopoguerra, non c’erano né l’autentica libertà, né delle istituzioni capaci di garantirla, o almeno di raggiungerla, ma solo fazioni scatenate, da destra, da sinistra e dal centro, e una classe dirigente "liberale" che mostrò una totale incapacità, una totale inettitudine, e una totale mancanza d’interesse per il bene della nazione; come se l’Italia del 1919-22 non fosse governata da un’accozzaglia di poltroni, di parassiti, di corporazioni antidiluviane, di assurdi privilegi, di maestri del nulla, di capipopolo senza eserciti e senza idee, di arringatori parolai, di voltagabbana e di avventurieri senza fede e senza scrupoli, di cinici industriali e finanzieri incapaci di vedere qualcosa al di fuori dei loro interessi, dei loro profitti e dei loro monopoli. Ebbene: furono proprio costoro a tornare al potere nel 1945-46: per una metà proprio i vecchi arnesi, usciti dalle loro tane, pardon, dal loro esilio più o meno dorato — i vari Sturzo, i vari Salvemini, o, peggio, i vari Togliatti -, dopo che per venti anni avevano speso tutte le loro energie per denigrare l’Italia e preparare la sua caduta ignominiosa, pur di far cadere il fascismo, che li aveva espulsi via da sé, come inutili parassiti, e della cui assenza nessuno si era accorto per vent’anni; e per un’altra metà sbucati fuori ex nihilo (più o meno, si capisce: forse meno che più), insomma i "giovani", quelli con le mani e con la faccia pulite, che si affacciavano ora alla ribalta e si sporcavano le mani — mani nette, mani oneste, si capisce — per il bene dell’Italia, in uno di momenti più drammatici della sua storia, per senso di responsabilità, puro e assolutamente disinteressato.

Una quarta menzogna, logico corollario delle precedenti, voleva che la Resistenza fosse stata "tradita" a causa della mancata epurazione dei fascisti, cioè dell’incapacità di portare sino in fondo le premesse ideali della lotta di Liberazione: spazzando via, sino all’ultimo, i manutengoli del fascismo, in modo da creare una società vergine e nuova, del tutto "pulita" dalle macchie del passato, secondo gli auspici del "vento del Nord". Menzogna colossale, perché l’epurazione non c’era stata, o si era fermata molto presto, per una ragione ben precisa, che però non si poteva raccontare in pubblico, pena la caduta del castello di carte su cui si reggeva la Repubblica di Pulcinella: e cioè che Mussolini non era stato un alieno; che i fascisti non erano stati "gli Hyksos" (e basterebbe quella tesi miserevole, che il fascismo fosse stato "l’invasione degli Hyksos", per far capire quale fosse la reale levatura intellettuale e morale del tanto decantato storico e filosofo liberale, don Benedetto Croce); e che il fascismo e l’Italia, per un ventennio, erano stati praticamente un tutt’uno, ovvero che la grandissima maggioranza del popolo italiano aveva accettato e condiviso, o, al più, tollerato e sopportato, pazientemente e volonterosamente, il regime mussoliniano. Per epurare i fascisti, insomma, si sarebbero dovuti epurare gli italiani; ma, in tal caso — a parte l’impossibilità materiale della cosa — sarebbe venuto fuori che il fascismo non era piovuto dalle profondità dello spazio siderale, ma era stato, al contrario, un fenomeno tutto italiano; e che l’Italia, non che gemere, schiava e disperata, per vent’anni, sotto una dittatura infame e sanguinaria, aveva sostanzialmente aderito a quell’ideologia, a quel regime, a quel progetto: ci aveva creduto, aveva sperato di trovare in esso la soluzione, o almeno l’avvio di una soluzione, ai suoi antichi e recenti problemi di natura interna e internazionale.

Da questo castello di menzogne non potevano che nascere frutti avvelenati: frutti che avrebbero fatto sentire la loro azione deleteria molti anni dopo, una generazione dopo. Chi era nato nel 1945, per tutta la sua infanzia e giovinezza si era sentito ripetere queste balle, spacciate con tono di grandissima serietà; e, giunto a venticinque anni, si è chiesto come mai il "fascismo" fosse ancor vivo e vegeto, sia pure nella versione "aggiornata" del Movimento sociale italiano, del potere "amerikano" e del grande capitale connivente con un probabile "golpe" dei colonnelli, stile Grecia: non è un caso che la stagione del terrorismo, rosso e nero, ma specialmente rosso, faccia il suo esordio nel 1969: giusto una generazione dopo la fine della guerra. I figli avevamo preso per buona la menzogna dei padri, anche troppo: si erano cioè persuasi che fosse necessario "completare" l’opera, rimasta interrotta, o, peggio, "tradita", della Resistenza: quella famosa epurazione dei fascisti, che non c’era stata; quella eliminazione fisica del "nemico", senza la quale l’Italia non sarebbe mai diventata un Paese giusto e civile, sarebbe rimasta sempre un Paese semi-fascista, governato dalle oligarchie destrorse.

Scrive Sergio Romano nel libro Le Italie parallele (Milano, Longanesi, 1996, pp. 99-101; 104-105):

I partiti del Comitato di liberazione nazionale, e in particolare il Partito comunista, vollero evitarlo [il processo a Mussolini, nel 1945]. Anziché interrogare e interpellare pubblicamente il regime preferirono punirlo e sopprimerlo. L’Italia, in tal modo, esce dal fascismo e rientra in democrazia senza chiedersi perché è stata fascista. Sulla realtà censurata e rimossa prevale da allora nella vita politica italiana una versione ortodossa: il fascismo è un "regime reazionario di massa" imposto con un violento "colpo di coda" dagli ambienti più retrivi del paese, in un momento in cui, cessati ormai i torbidi dell’immediato dopoguerra, esistevano le condizioni per il ripristino della normalità. Alla definizione di questa ortodossia concorse una sorta di patto tacito fra l’antifascismo militante, da poco rientrato in patria, e la grande maggioranza degli italiani.

Il primo aveva un evidente interesse a censurare le proprie responsabilità e a dimenticare i propri errori. La democrazia restaurata aveva bisogno dei propri eroi e ogni partito era fortemente interessato alla ricostruzione della propria dinastia.

Furono dimenticati i duri articoli di Gramsci nell"Ordine Nuovo" contro i socialisti riformisti e furono taciuti i contrasti che avevano diviso i comunisti italiani, persino in carcere, tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30. Furono dimenticati i veti di Sturzo contro Giolitti e fu taciuto, o soltanto bisbigliato, che la sua partenza dall’Italia fu dovuta anche, e soprattutto, alla pressione delle autorità ecclesiastiche. Furono dimenticati l’imbelle riformismo di Turati, il massimalismo declamatorio di Serrati, il velleitarismo degli aventiniani, il narcisismo intellettuale di Nitti. La verità canonica voleva che le libertà degli italiani fossero state violate da una sorta di complotto fra la monarchia, i grandi industriali, gli agrari e alcune squadre di teppisti o avventurieri con la complicità della burocrazia e delle forze armate.

Tale versione conveniva alla grande maggioranza degli italiani. L’uomo della strada poteva sostenere che egli era stato spettatore passivo di un regime in cui non aveva creduto. I burocrati e i professori, che si erano iscritti al partito per esigenze di vita. I generali, che non avevano alcuna responsabilità nell’impreparazione delle forze armate allo scoppio del conflitto. Gli industriali, che avevano agito un stato di necessità. E l’intero paese infine (fascisti e antifascisti), che la guerra non era stata perduta dagli italiani, ma da Mussolini.

La prima conseguenza del patto tacito che gli antifascisti militanti strinsero con la grande maggioranza dei loro connazionali fu la rinuncia all’epurazione.[…]

L’amnistia e la fine dell’epurazione furono una prova di realismo e di buon senso. Ma i veri motivi della decisione furono taciuti e la tesi su cui poggiava la filosofia della punizione continuò a essere proclamata come verità ufficiale. Per la storia politica e civile degli italiani questa ipocrisia fu una bomba a scoppio ritardato, destinata a provocare gravi danni alla società e allo Stato. Mi spiego meglio. Nell’immediato dopoguerra, quando i provvedimenti furono adottati, tutti sapevano che la politica della punizione sarebbe stata iniqua e selettiva; e tutti capirono perfettamente, quindi, le ragioni dell’amnistia e dell’archiviazione dei procedimenti d’epurazione. Come aruspici che s’incontrano nel foro, la maggior parte degli italiani avrebbe sorriso del proprio antifascismo e di quello del loro interlocutore. Ma col passare del tempo, a mano a mano che nuove generazioni si affacciavano nella società, la verità canonica divenne verità storica e fu persa memoria delle ragioni per cui la punizione era stata impossibile. Martellata nei giornali, nei manuali e nelle celebrazioni ufficiali della Repubblica, l’ortodossia antifascista divenne l’ideologia fondatrice della Repubblica italiana e proclamò come articolo di fede l’esistenza di uno Stato nato dalla resistenza in cui un popolo schiavo aveva finalmente spezzato le catene di un regime minoritario e poliziesco. Ma i giovani italiani a cui era stato insegnato questo particolare catechismo repubblicano dovettero necessariamente chiedersi perché l’antifascismo vittorioso non fosse riuscito a ripulire lo Stato dal morbo fascista, perché i vecchi apparati burocratici e i maggiori responsabili del’economia nazionale fossero rimasti al loro posto, perché tra la monarchia e la repubblica vi fosse una sostanziale continuità.

Nasce da quella constatazione la tesi, diffusa e incoraggiata dal partito comunista, che la resistenza era stata "tradita" e che la rivoluzione morale era stata sabotata da un complotto di forze reazionarie: la Chiesa, il "grande capitale", gli interessi internazionali degli Stati Uniti. La tesi divenne la piattaforma morale del partito comunista che se ne servì per presentarsi al paese come il più legittimo erede dell’antifascismo militante, come l’unico partito che avesse sempre combattuto contro il fascismo, dalle origini ai suoi più recenti camuffamenti. È la stessa tesi che ispirò più tardi, nella sua versione più truce e radicale, alcuni movimenti terroristici degli anni ’70. Ed è questa la ragione, in ultima analisi, per cui il partito comunista ne porta l’indiretta responsabilità.

Il fatto che Sergio Romano, voce peraltro assai isolata, abbia potuto scrivere queste cose vent’anni fa, senza subire linciaggi o querele, dimostra che qualcosa, infine, dopo tre intere generazioni, si sta muovendo. Non ancora abbastanza, però, da poter fare un po’ più di chiarezza sull’ultima menzogna, quella relativa alla mancata epurazione dei fascisti, la cui responsabilità, più di tutte le altre, grava sulle spalle dei comunisti: perché costoro, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, senza abiurare alle loro idee, si sono riciclati come campioni delle libertà democratiche e si sono felicemente (si fa per dire) abbracciati con i cattolici di sinistra, naufraghi della Balena Bianca in cerca, anch’essi, di una nuova dimora. Non solo: da quella menzogna, mai del tutto sbugiardata, ne è proliferata un’altra, anch’essa necessaria alla fondazione di un "nuovo corso", cioè alla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica (seconda, terza o quarta, ma pur sempre legittima erede della Prima, ossia della Repubblica di Pulcinella), fra il 1992 e il 1994. E la nuova menzogna è questa: che, fino al 1992, tutti i partiti hanno rubato, hanno intrallazzati, hanno mentito, tranne uno, l’unico puro e disinteressato: il Partito comunista italiano. Se si prende per buona una simile menzogna, non ci sarà da meravigliarsi, se, fra qualche anno, vedremo all’opera i suoi frutti avvelenati, come già si son visti all’opera i frutti avvelenati di quell’altra: che il Partito comunista, nel 1945-46, avrebbe voluto epurare i fascisti e rinnovare radicalmente la società italiana, ma ne fu impedito da un complotto, da subdole macchinazioni che si configurarono come un vero e proprio "tradimento" verso gli ideali della Resistenza.

Riassumendo: le tre Italie della storia unitaria nascono da una menzogna o un insieme di menzogne.

L’Italia del 17 marzo 1861 nasce dalla menzogna di un Risorgimento tutto eroico e luminoso, che abbatte l’infamia degli Stati pre-unitari, tutti brutti e cattivi.

L’Italia del 2 giugno 1946 nasce dalla menzogna che a perdere la Seconda guerra mondiale sia stato solo Mussolini, mentre tutti gli italiani hanno "vinto", liberandosi da soli, o quasi.

L’Italia del 1992-94 (Tangentopoli, discesa in campo di Berlusconi, ingresso in Parlamento della Lega Nord, svolta di Fiuggi del M.S.I, e nuova legge elettorale maggioritaria Mattarellum) nasce dalla menzogna di Mani Pulite: che l’Italia sia stata ripulita dalla corruzione politica (mentre è vero esattamente il contrario, e a dirlo son proprio i magistrati), e che i corrotti fossero d’una sola parte.

Ma quando impareremo, come popolo e come classe dirigente, a raccontarci le nostre cose con un po’ di verità, di decenza, di rispetto per i morti e di senso, se non del pudore, almeno del ridicolo?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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