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25 Aprile 2017Sì, lo sappiamo; è cosa vana antistorica e, a volte, perfino un po’ stucchevole lambiccarsi il cervello almanaccando quel che avrebbe potuto succedere se fosse stata fatta una certa cosa, o se non fosse stata fatta un’altra. Eppure, qualche volta, potrebbe rivelarsi un esercizio non privo di utilità per l’intelligenza, soprattutto per liberarci dalla pericolosa convinzione che se le cose sono andate come sono andate, allora non c’è niente da fare, non avrebbero potuto andare altrimenti: perché questo è solo un misero senno del poi, e, filosoficamente, si riduce a una pura e semplice adorazione dell’esistente. Ma l’esistente è il risultato di spinte e controspinte, il cui gioco non è predeterminato: questo, almeno, se crediamo nella fondamentale libertà dell’uomo, pur con tutti i suoi limiti. Libertà relativa e non assoluta, certamente; però, se si nega la libertà dell’uomo, la storia si trasforma in un teatrino di marionette, per giunta con la sgradevole circostanza che nessuno sa chi sia il burattinaio e, soprattutto, che cosa stia mettendo in scena per mezzo nostro: se una farsa o una tragedia, oppure le due cose insieme.
Una delle domande che affascinano gli storici militari della Seconda guerra mondiale è se l’Asse avrebbe potuto vincere la guerra, prima dell’intervento degli Stati Uniti e prima della stessa Operazione Barbarossa, con la quale Hitler s’impegnò a fondo in una lotta frontale contro l’Unione Sovietica, senza che, peraltro, il Giappone, nonostante la firma del Patto Tripartito, il 27 settembre 1940, scendesse in campo per attirare sulla frontiera estremo-orientale quelle ottime divisioni siberiane che si sarebbero poi rivelate decisive nella battaglia davanti a Mosca, nel dicembre del 1941; anzi, col Giappone che trascina in guerra gli Stati Uniti con l’attacco di Pearl Harbor, segnando l’inizio della disfatta per sé e anche per le altre due nazioni del Tripartito, le quali, invece, e molto incautamente, si affrettarono a dichiarare la guerra al nuovo avversario, quando avrebbero potuto non farlo (cosa che avrebbe costretto Roosevelt, se non altro, a tradire il suo vero obiettivo, perché egli certamente sarebbe sceso in campo a fianco di Churchill e di Stalin, contro Hitler e Mussolini, ma, almeno, questi ultimi non gliene avrebbero fornito il pretesto su di un piatto d’argento).
Ecco il possibile scenario di una vittoria militare dell’Asse nell’estate del 1941, immaginato dallo storico britannico John Keegan (1934-2012) nel suo saggio Come Hitler avrebbe potuto vincere la guerra (in: Robert Cowley, a cura di, La storia fatta con i se; titolo originale: What if, American Historical Publications, 1999; traduzione dall’inglese di Renzo Peru e Orietta Putignano, Milano, Rizzoli, 20001, pp. 309: 313-35; 317):
Cosa sarebbe successo se nell’estate del 1941 Hitler avesse deciso di sferrare la sua principale offensiva non invadendo l’Unione Sovietica ma attraverso il Mediterraneo orientale attaccando Siria e Libano? Avrebbe evitato la sconfitta che subì davanti a Mosca nell’inverno? Sarebbe riuscito a raggiungere una posizione strategica che lo avrebbe alla fine portato alla vittoria?
La tentazione era forte. Se fosse stato in grado di risolvere le difficoltà logistiche del trasferimento di un esercito dalla Grecia alla Siria controllata dal governo di Vichy, si sarebbe trovato in una buona posizione per attaccare l’Iraq settentrionale, importante centro di esportazione del petrolio, e in seguito l’Iran, con giacimenti ancora più vasti. La costrizione di una forte presenza militare nell’Iran settentrionale avrebbe collocato le sue forze in prossimità dei centri di produzione petrolifera della stessa Unione Sovietica sulle rive del Mar Caspio, mentre una puntata nell’Iran meridionale gli avrebbe fornito il possesso dei pozzi dell’Anglo Iranian Oil Company, e delle vaste raffinerie di Abadan. Dall’Iran orientale, per di più, si apriva la via verso il Belucistan, la provincia più occidentale dell’India britannica e poi verso il Punjab e Delhi. L’occupazione del Levante — Siria e Libano — lo avrebbe, in poche parole collocato a cavallo di una rete di vie strategiche che portavano non solo ai centri principali della produzione petrolifera del Medio Oriente ma anche ai punti d’ingresso del possedimento imperiale più importante del suo ultimo nemico in Europa, la Gran Bretagna ed anche delle province meridionali del suo principale avversario ideologico, la Russia di Stalin. […]
Ma la via di Mosca era quella giusta? La distruzione dell’Unione Sovietica era il progetto strategico e ideologico più vicino al cuore di Hitler. Tuttavia, in retrospettiva, si può ritenere che un’offensiva diretta oltre il confine sovietico non sarebbe stato il modo migliore per ottenere il risultato voluto. Ovvio che a lungo andare la Wehrmacht avrebbe dovuto combattere e vincere l’Armata Rossa. Tuttavia la vittoria militare costituiva soltanto uno degli obiettivi del Piano Barbarossa. Un altro obiettivo, quasi altrettanto importante, se si voleva proseguire la lotta e giungere alla sconfitta definitiva ella Gran Bretagna, era la conquista delle enormi risorse naturali dell’Unione Sovietica, in particolare la sua produzione petrolifera. A parte i pozzi romeni insufficienti a coprire le sue necessità, ed essendo essenziali le forniture di petrolio russo in base al patto Ribbentrop-Molotov, Hitler non aveva alcuna fonte di petrolio sotto diretto controllo. E di petrolio aveva urgente bisogno.
Eppure enormi quantità della preziosa materia erano a portata di mano, sempre più vicine, ora che aveva completato la conquista della Grecia. Iran, Iraq e Arabia Saudita erano i maggiori fornitori di petrolio del mondo e la via diretta verso i loro campi di estrazione e le loro raffinerie passava attraverso la Siria, attraverso il Mediterraneo orientale. E se si fosse violata la neutralità della Turchia, sarebbe stata disponibile anche una rotta via terra. Il Levante aveva scarse difese. L’esercito dei francesi di Vichy in Siria e in Libano comprendeva soltanto 38.000 uomini, senza equipaggiamento moderno n copertura aerea. L’esercito britannico in Palestina, Egitto e Libia aveva soltanto sette divisioni ed era già impegnato i combattimento con l’Afrika Korps, giunto rinforzato ad un esercito italiano più numeroso ma male equipaggiato per le operazioni nel deserto. Dal punto di vista militare, se fossero state rinforzate le forze italo-tedesche nel Medio Oriente, la zona era pronta per l’occupazione. C’erano per di più le basi per un regime favorevole ai tedeschi. Il 3 aprile Rashid Alì in Iraq aveva rovesciato il governo filo-britannico e aveva chiesto aiuto alla Germania. Aerei tedeschi erano atterrati a Mossul il 13 maggio, dopo aver attraversato a tappe la Siria e la guarnigione dei francesi di Vichy non si era sentita in gradi di impedirlo. Anche se Rashid Alì venne rapidamente rovesciato da un contingente britannico operante dalla Transgiordania — e la guarnigione di Vichy in Siria e Libano fu sconfitta in un’aspra campagna di tre settimane in giugno e luglio — Hitler si sentì abbastanza incoraggiato dall’evidente fragilità strategica dei suoi nemici in Medio Oriente da diramare il 23 maggio la sua direttiva n. 30, che esponeva un progetto di appoggio al "movimento di liberazione arabo" in concomitanza con un’offensiva italo-tedesca verso il canale di Suez. L’11 giugno la direttiva del Führer n. 32 anticipava, fra le altre operazioni, l’ammassamento in Bulgaria di forze "sufficienti a rendere la Turchia politicamente assoggettabile oppure a sopraffare la sua resistenza".
Se Hitler avesse sfruttato la vittoria nei Balcani della primavera del 1941 per schierare le sue forze per una vittoria in Anatolia e nel Levante, portando ad ampie conquiste in Arabia e occupando posizioni decisive sul fianco meridionale dell’URSS, è difficile pensare che una variante dell’Operazione Barbarossa, concepita ora come una manovra a tenaglia anziché come un massiccio assalto frontale, non avrebbe avuto successo. Inoltre la posizione inglese in Medio Oriente sarebbe stata minacciata in modo fatale e il dominio britannico sull’impero indiano avrebbe corso un grave pericolo.
Una volta sconfitta la Francia, ma non piegata l’Inghilterra, Hitler, nell’estate del 1940, si trovò padrone di mezza Europa, dalla Danimarca e la Norvegia, al Belgio e ai Paesi Bassi, per non parlare dell’Austria, della ex Cecoslovacchia e della Polonia; con un esercito potente, già mobilitato e schierato, ed entusiasmato dai successi, e con un’industria bellica impegnata nella produzione a pieno regime; senza però aver raggiunto il suo obiettivo immediato, la chiusura del fronte a Occidente. Anche se respinta al di là della Manica, l’Inghilterra resisteva e aveva rifiutato sdegnosamente ogni offerta di pace; tramite il dominio dei mari, essa poteva godere delle risorse del suo immenso impero coloniale, e anche dei benefici del commercio internazionale, dal quale era invece tagliata fuori la Germania. Pertanto, la situazione politico-militare dell’Asse era meno brillante di quel che le sue spettacolari vittorie lasciassero vedere: in un certo senso, era prigioniera di quell’Europa continentale che aveva in gran parte conquistato. La Prima guerra mondiale aveva mostrato che, per vincere, non basta controllare un ampio territorio: bisogna esser capaci di difenderlo contro i ritorni offensivi del nemico, e assicurasi le risorse necessarie per una guerra di lunga durata, e dunque di usura. La nuova arma aerea, inoltre, aveva già illustrato, nelle campagne di Polonia e di Francia, quale fosse l’importanza del dominio dei cieli; e proprio il crescente impegno della Luftwaffe nella battaglia d’Inghilterra, senza riuscire ad ottenere un risultato decisivo, anzi, perdendo un numero sempre più grande di apparecchi e di piloti addestrati, era come un campanello d’allarme, che mostrava come Hitler non fosse pienamente padrone della "fortezza Europa".
parte il possibile coinvolgimento degli Stati Uniti – che, peraltro, era già una realtà virtuale, dato l’atteggiamento di Roosevelt nei confronti di Churchill, poi culminato nell’incontro del 14 agosto 1941 che portò alla firma della Carta Atlantica – restava il problema del blocco continentale e quello dei teatri di guerra africani e mediorientali, dischiusi dall’entrata in guerra dell’Italia. Dalla Libia era possibile programmare una marcia verso il Delta del Nilo e il Canale di Suez; ma era possibile anche una offensiva britannica che avrebbe minacciato da sud la "fortezza Europa" (come di fatto poi sarebbe avvenuto, dopo la conclusione della campagna di Tunisia, nel luglio del 1943). E a tutto ciò si aggiunga l’incognita Stalin: nessuno sapeva con certezza quali fossero le intenzioni del dittatore russo, anche se tutti, a cominciare dai contraenti del patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, sapevano che il patto di non aggressione, e di spartizione della Polonia e dei Paesi Baltici, aveva soltanto il valore di una tregua d’armi, in vista dello scontro decisivo. Peraltro, la reale efficienza dell’Armata Rossa era tutta da verificare. Quasi tutti gli esperti di cose militari pensavano che le grandi purghe del 1937-38 avessero ridotto di molto tale capacità, sopratutto per la decimazione dei quadri; ma gli indizi concreti erano contrastanti. Di certo, si sapeva solo che l’Armata Rossa aveva impiegato più di tre mesi per piegare la piccola Finlandia, nella guerra d’inverno del 1939-40; ma che, nella guerra non dichiarata col Giappone e culminata nella campagna di Nomonhan, fra il maggio e il settembre del 1939, i sovietici, e specialmente le loro divisioni corazzate, avevano dato prova di un’ottima capacità militare, battendo e respingendo clamorosamente l’Armata del Kwantung.
Le carte vennero scompaginate da due fattori nuovi, nella primavera del 1941: il colpo di stato jugoslavo del 26-27 marzo, che portò Belgrado a uscire dal Patto Tripartito, e le brillanti prospettive aperte dall’Afrika Korps di Rommel in Cirenaica. La necessità di "punire" la Jugoslavia fedifraga, e, nello stesso tempo, di chiudere il fronte dei Balcani, venendo in aiuto dell’alleato italiano nello scacchiere greco, e la possibilità di puntare verso il Delta del Nilo con le forze italo-tedesche genialmente condotte dal generale Erwin Rommel, aprivano prospettive del tutto nuove per l’Asse. Dopo che la Wehrmacht era entrata, senza colpo ferire, in Romania, i pozzi petrolifero di Ploesti erano assicurati all’Asse, ma non erano al sicuro dai bombardamenti britannici, dopo che forze inglesi si erano installate in Grecia durante il conflitto italo-greco. Una volta padrone della Grecia, Hitler avrebbe potuto puntare ancora più ad Est, e invadere la Turchia, passando per la Bulgaria amica, o per il Dodecaneso italiano; oppure concentrare gli sforzi nel Nordafrica, rinforzando significativamente l’Afrika Korps e puntando non solo al Cairo e ad Alessandria, ma al Canale di Suez, e, di lì, alla Siria (ancora sotto il controllo del governo di Vichy) e l’Iraq, con i suoi ricchi giacimenti petroliferi. L’insurrezione di Rashid Alì contro i Britannici sembrava offrire buone prospettive di successo. Il mondo arabo era in fermento; i popoli arabi guardavano all’Asse come a una forza amica e il nazionalismo arabo si rifaceva ampiamente al fascismo e, in certa misura, al nazismo, in questo secondo caso trovando un’importante convergenza ideologica nel comune sentimento antisemita. L’Asse aveva un disperato bisogno di petrolio: la flotta italiana era quasi ferma nei porti anche per questa ragione, e la Germania dipendeva largamente dalle importazioni dall’Unione Sovietica. Hitler, d’altra parte, stava conducendo una guerra ideologica, più che strategica: i suoi obiettivi erano solo in parte di tipo politico; e il punto principale della sua agenda, una volta completato il rafforzamento della Germania con l’annessione dei territori limitrofi abitati da popolazioni tedesche (oltre che rimpatriando le minoranze tedesche più lontane), e una volta "bonificata" non solo la Germania, ma gran parte dell’Europa continentale, dalla presenza ebraica, era la distruzione del bolscevismo. Cerano dunque due modi per procurarsi le risorse necessarie alla prosecuzione della guerra contro la Gran Bretagna: continuare a dipendere dalle importazioni di petrolio russo, dell’"amico" Stalin, cercando, intanto, di mettere le mani su quello mediorientale, oppure invadere l’Unione Sovietica, impadronirsi con le armi dei pozzi di Baku e, nello stesso tempo, soddisfare l’obiettivo ideologico della distruzione del comunismo e del’assoggettamento delle popolazioni slave in funzione dello spazio vitale (Lebensraum) a oriente della Germania. E non è detto che si trattasse di due obiettivi divergenti. Era possibile immaginare, infatti, una grande manovra in due fasi: nella prima fase, gli italo-tedeschi avrebbero puntato, dalla Libia o dalla Grecia, al Medio Oriente e ai pozzi di Mossul, dapprima, indi a quelli di Bassora e Abadan; nella seconda, una volta raggiunti questi obiettivi, la Germania avrebbe potuto sferrare l’attacco "frontale" contro l’Unione Sovietica, ma, nello stesso tempo, colpirla anche da sud, attraverso il Caucaso, e puntando direttamente alle zone petrolifere del Mar Caspio.
Naturalmente, tutto questo era molto più facile da immaginare che da mettere in pratica. Ci sembra che Robert Keegan sia tropo ottimista nel pensare che un’invasione del Medio Oriente fosse a portata di mano, nella primavera-estate del 1941. La Turchia non era così debole come egli la dipinge: invaderla, e attraversare poi l’Anatolia in tutta la sua lunghezza, sarebbe stata un’impresa tutt’altro che semplice. L’Anatolia (come l’Italia) è, dal punto di vista militare, "una lunga penisola carica di guai": e, parafrasando Clausewitz, potremmo osservare che voler colpire la Russia passando per di lì, o anche solo raggiungere dall’Europa, i pozzi petroliferi dell’Iraq, è l’equivalente di voler raggiungere Parigi attaccando la Francia dall’Italia: cioè come voler sollevare un fucile alzandolo dalla punta della baionetta. La conquista di Creata (fine maggio 1941) da parte dei paracadutisti tedeschi avrebbe mostrato quanto costosa, in termini di vite umane, sarebbe stata una tale operazione nei confronti di Cipro; e, da Cipro, o anche da Rodi, non sarebbe stato affatto semplice sbarcare in Siria e Libano, senza disporre del dominio del mare. E il dominio del mare Mediterraneo, se mai la Regia Marina l’aveva avuto, o anche solo intravisto, era sfumato del tutto dopo il disastro della battaglia di Capo Matapan del 28-29 marzo 1941. Né sarebbe stato così semplice, anche una volta creata una testa di ponte italo-tedesca sulle coste del Libano e della Siria, sviluppare un’offensiva ad ampio raggio verso l’Iraq; figuriamoci, poi, verso l’Iran, per avanzare ulteriormente di centinaia di km. e minacciare addirittura l’India! Sappiamo quel che era accaduto all’armata napoleonica in Egitto, che aveva sognato, anch’essa, una marcia verso l’India: rimase impantanata in Palestina e non riuscì né ad avanzare, né ad arretrare. Molto più realistica, semmai, una puntata verso i pozzo petroliferi iracheni partendo dalla Libia, attraverso il Canale di Suez; ma, anch’essa, tutt’altro che facile, pur considerando la scarsezza delle difese britanniche. Però la Gran Bretagna avrebbe sempre potuto far affluire rinforzi sposando uomini e mezzi per linee interne, grazie al dominio dei mari; mentre, per l’Asse, le cose sarebbero state assai più difficili. Pertanto, è vero che il medio Oriente era quasi sguarnito, nella tarda primavera del 1941, ma è altrettanto vero che non era precisamente un frutto maturo in attesa di essere colto.
A tutto questo, poi, si aggiunga che, perfino in caso di successo, l’invasione del Medio Oriente avrebbe creato all’Asse maggiori problemi strategici di quanti ne avrebbe risolti. Avrebbe allungato a dismisura le linee di rifornimento italo-tedesche, senza la necessaria superiorità aerea e navale per proteggerle. Gli italiani, in particolare, erano pressoché sprovvisti dei mezzi necessari per un’avanzata nel deserto: per arrivare a Sidi el Barrani, 100 km. oltre la frontiera libica, Graziani aveva impiegato tre mesi, per farsi poi battere, nel dicembre, da forze britanniche tre volte inferiori di numero, ma interamente motorizzate e dotate di carri armati assai più potenti. Inoltre, se la Germania avesse lanciato l’Operazione Barbarossa nel 1942, dopo aver occupato l’Iraq, come ipotizza Keegan, non avrebbe potuto schierare una forza d’urto paragonabile a quella di cui disponeva il 22 giugno del 1941, quindi è molto dubbio che avrebbe riportato gli stessi successi iniziali; ed è ancor più dubbio che una manovra tedesca a tenaglia, ma ad ampissimo raggio, dall’Ucraina e dal Caucaso, avrebbe avuto successo. Questo tipo di operazioni riescono benissimo a tavolino, quando a concepirle sono gli strateghi da salotto; sul campo di battaglia, però, quando ogni litro di benzina è misurato col contagocce, e ogni chilometro di territorio è guadagnato marciando tra mille difficoltà logistiche, le cose vanno ben diversamente.
Possiamo quindi concludere, con ragionevole grado di certezza, che l’Asse avrebbe potuto, forse (ma non è affatto certo), occupare il Medio Oriente nell’estate del 1941, ma che ciò non avrebbe né reso più favorevole lo scenario per la successiva campagna contro l’Unione Sovietica, né avvicinato sensibilmente l’obiettivo di sconfiggere definitivamente la Gran Bretagna. Eterno problema, pressoché insolubile, delle potenze continentali che devono lottare contro una potenza marittima padrona delle comunicazioni mondiali: neppure conquistando l’Iraq e lo stesso Iran, anzi, neppure conquistando l’India, la Gran Bretagna sarebbe stata colpita a morte. Se a ciò si aggiunge l’erorre strategico-politico, da parte del Tripartito, di spingere un’altra grande potenza continentale, l’Unione Sovietica, e una grande potenza sia continentale che marittima, gli Stati Uniti, a scendere in campo con la Gran Bretagna, la partita era irrimediabilmente persa. Sarebbe stata solo questione di tempo, ma la fine sarebbe arrivata. Se non altro, per asfissia: come era accaduto alla Germania e ai suoi alleati nella Prima guerra mondiale…
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