
Perché considerare le dimensioni inosservate?
18 Aprile 2017
Cara Marisa, ti scrivo…
18 Aprile 2017Ancora sulla guerra italiana del 1940, argomento al quale abbiamo dedicato già numerose riflessioni, trattandosi di un nodo fondamentale della nostra storia nazionale, poiché la sconfitta del 1943 (le vicende del 1943-45, compresa la guerra civile, sono quasi una recita post mortem) non solo mise l’Italia fuori gioco, forse per sempre, dal novero delle potenze, ma interruppe, forse altrettanto definitivamente, lo sviluppo della nazione; tant’è vero che abbiamo più volte definito la Seconda guerra mondiale come la nostra quinta, e perduta, guerra d’indipendenza, la quarta essendo stata la Prima guerra mondiale.
Certo, fu una bruciante sconfitta politica e militare: e sulla impreparazione militare italiana si sono versati fiumi d’inchiostro, così come se ne sono versati per le cause politiche della sconfitta, in gran parte per addossare ogni responsabilità a Mussolini e al fascismo: esercizio estremamente comodo, quello di sparare sui morti (morti anche in senso politico e ideologico), perché non costa assolutamente nulla e consente, in compenso, di coprire e d’insabbiare ogni altra responsabilità. Abbiamo anche richiamato più volte l’attenzione sul vergognoso articolo 16 del trattato di pace del 1947, quello che faceva divieto alle autorità italiane di perseguire i cittadini italiani che, fin dal 10 giugno del 1940, si adoperarono in favore degli Alleati e, dunque, per la sconfitta della loro patria: vale a dire una interdizione politica dei vincitori nei confronti del vinto, avente lo scopo dichiarato di sottrarre i traditori della patria al meritato castigo. E si sa che alcuni generali e ammiragli non arrossirono a farsi decorare il petto con alte onorificenze straniere, specialmente americane, per i servigi resi, nel corso della Seconda guerra mondiale, agli Alleati: vale a dire agli Stati contro i quali l’Italia era impegnata in una lotta mortale. Ma anche su questo capitolo, ossia sul tradimento che vi fu nei confronti delle Forze Armate italiane, da parte di cittadini italiani, non ci soffermeremo oltre, in questa sede.
Ciò su cui vorremmo fare una ulteriore riflessione è sui fattori politici che portarono alla sconfitta, e a quel genere di sconfitta: non solo militarmente irreparabile (per quanto sia mancata la controprova della battaglia finale: lo scontro decisivo nel Mediterraneo, einiziativa della nostra flotta, ancora potente, che non ci fu mai, e al posto del quale ci fu la consegna delle navi al nemico, nel porto di Malta, oltretutto pagando lo scotto dell’affondamento della corazzata Roma da pare dei tedeschi), ma anche moralmente umiliante, per i modi subdoli e pietosi con i quali si giunse alla nefasta e ingiustificabile disfatta dell’8 settembre 1943. Vorremmo riflettere ulteriormente sui fattori politici, nel senso più ampio del termine: comprendendo in essi, cioè, anche la dimensione economica e soprattutto quella psicologica. Il peso di una guerra moderna, infatti, ricade soprattutto sula borghesia, così come nel Medioevo ricadeva sull’aristocrazia feudale: pertanto, è di fondamentale importanza che la borghesia nazionale sia persuasa della necessità della guerra, degli scopi che essa si prefigge e di come lo Stato si propone di raggiungerli. Ora, un confronto con la guerra del 195-18 mostra che la borghesia italiana, nel 1940-43, era poco o niente affatto convinta sia della necessità della guerra, sia dei suoi obiettivi, sia del dovere di offrire allo Stato il massimo del sostegno possibile, mediante una mobilitazione totale delle risorse disponibili, tanto sul piano materiale che su quello morale e spirituale. Non vi fu, nella Seconda guerra mondiale, l’equivalente della "leggenda del Piave", o del mito del Monte Grappa, anche se vi furono "leggende" locali e minori, come la "saga" di Giarabub o l’epopea di Cheren (anche se episodi e figure leggendarie ci sarebbero stati, come quell’Amedeo Guillet che continuò a battersi da solo, in Africa orientale, dopo il crollo dell’Impero). Nel complesso, la borghesia italiana non sentì la Seconda guerra mondiale come aveva sentito la Prima, ossia come un cimento di vitale importanza per la nazione; e, a ben guardare, non credé mai nella vittoria, se non altro perché s’illuse, almeno all’inizio — d’accordo, in questa analisi totalmente sbagliata, con i vertici politici del fascismo — che non fosse neppure necessario farla, ma solo fingere di farla, per poter sedere al tavolo della pace e godere i frutti della vittoria altrui (cioè tedesca).
Tuttavia, e qui viene la sorpresa (almeno per quanti hanno accettato e subito il pluridecennale lavaggio del cervello da parte della cultura politicamente corretta), analizzando imparzialmente lo svolgimento dei fatti, ci si accorge che fu il fascismo, per primo, a non mobilitare tutte le proprie risorse, e a non volere, o non sapere, trasformare la guerra di Mussolini nella quinta guerra d’indipendenza del popolo italiano: contro il predominio anglofrancese che, al tempo della guerra d’Etiopia e delle inique sanzioni, aveva mostrato il suo vero volto, come già lo aveva mostrato nella Conferenza di Versailles del 1919. Se si confronta, per fare un solo esempio, la spietata disciplina militare che venne imposta nell’esercito, e dall’esercito, nel 1915-18, con tanto di decimazioni e di repressione armata di ogni dissenso (vedi i moti operai di Torino del 1917), con la mitezza e la blanda disciplina mostrate dal fascismo nel 1940-43, si giunge alla sconcertante conclusione che i governi liberali (di Antonio Salandra prima, indi di Paolo Boselli, infine di Vittorio Emanuele Orlando) disposero di un potere politico più ampio, e che il generale Cadorna (sostituito, dopo Caporetto, dal generale Diaz) dispose di un potere militare assai più forte e accentrato, di quanto non ne disponesse Mussolini, a capo di una dittatura, e formalmente alla guida delle Forze Armate, nel supremo cimento del 1940-43, quando erano in gioco i destini futuri della patria, come, e forse più, di quanto non lo fossero stati venticinque anni prima. Singolare dittatura, questa, che pure ci è stata dipinta, per settant’anni, come quasi altrettanto fosca e sanguinaria di quella hitleriana: con un Mussolini che, nelle ultime ore della sua permanenza al potere, il mattino del 26 luglio 1943, prima di essere arrestato dal re, firmava la domanda di grazia di un partigiano slavo catturato dalle Forze armate italiane e condannato a morte da un tribunale di guerra; mentre Orlando non aveva speso inchiostro per graziare i poveri soldati che fuggivano da Caporetto e che gettavano le armi per fuggire più in fretta, ma poi cadevano nelle mani della Polizia militare e dei Carabinieri, che li fucilavano sul posto, per direttissima e senza tanti complimenti.
Ora, la domanda è questa: la borghesia italiana, che aveva accolto il fascismo come la soluzione al caos del primo dopoguerra e al pericolo di una rivoluzione sociale, aveva mai creduto alla necessità di una guerra generale, in cui l’Italia si sarebbe giocata tutte le sue carte, anche sul piano industriale e finanziario? E, secondariamente: aveva mai creduto alla possibilità di vincerla, offrendo lealmente ed energicamente la propria collaborazione allo Stato e alle Forze Armate? Perché l’impreparazione militare, senza dubbio, ci fu; ci fu la sottovalutazione di ciò che un conflitto europeo avrebbe comportato, anche in termini di bilancio militare preventivo e di riarmo; e ci furono i clamorosi errori militari, se non peggio, dei generali e degli ammiragli. Su questo non ci piove. Ma ci fu, alle spalle delle Forze Amate, una classe dirigente leale e combattiva? La borghesia fornì al Paese tutto il proprio sostegno, riconoscendosi nella causa dell’Italia, e valutando lucidamente tutto ciò che essa avrebbe guadagnato in caso di vittoria, e ciò che avrebbe perduto, irreparabilmente, in caso di sconfitta? Negli altri Paesi coinvolti nel conflitto, con la parziale eccezione della Francia — la cui situazione interna, per certi aspetti, ricordava un po’ quella italiana — una tale identificazione della borghesia con la causa nazionale, avvenne senz’altro: se non subito, avvenne quando il gioco incominciò a farsi duro, come del resto era avvenuto in Italia, nell’altra guerra, dopo Caporetto. Per esempio, la borghesia britannica aderì sino in fondo alla causa nazionale dopo il crollo della Francia e dopo Dunkerque, cioè all’epoca della battaglia d’Inghilterra, nell’estate del 1940, dopo quasi un anno dall’inizio delle ostilità. E nel nostro Paese?
Prima di rispondere, ci piace riportare una pagina della monografia di Giorgio Rochat e di Giulio Massobrio Breve storia dell’Esercito italiano dal 1861 al 1943 (Torino, Einaudi, 1978, pp. 268-270), da cui contiamo di ricavare ulteriori elementi di riflessione:
Un altro elemento da cui non si può prescindere, trattando dell’insufficiente rendimento delle forze armate italiane è la mancanza accertata di un consenso di massa trai combattenti e nel paese. Gi studi parziali di cui disponiamo offrono una documentazione assai ricca, ma non ancora sufficiente per le conclusioni esaurienti e articolate che vorremmo. È comunque lecito affermare senza timore di smentita che la seconda guerra mondiale fu in Italia ancor meno popolare della prima, anche e soprattutto per la borghesia. […] Fu soprattutto la partecipazione della borghesia a diminuire d’intensità rispetto alla prima guerra mondiale, che aveva visto la disperata mobilitazione di tutte le energie della classe dirigente; nel 1940-43 l’entusiasmo fu patrimonio di una minoranza, per lo più di estrazione piccolo borghese e di scarso ascendente, mentre la maggioranza della borghesia si divise tra un’adesione convinta, motivata però da senso del dovere e non dalla accettazione della propaganda fascista, e un distacco oscillante tra il qualunquismo e una prima presa di coscienza antifascista. Era propria la consapevolezza della fragilità della apparente unanimità del consenso di base che impedì al governo fascista di promuovere una mobilitazione nazionale a tutti i livelli paragonabile per intensità dei sacrifici imposti e del terrorismo antidisfattista a quella della prima guerra mondiale; sul campo di battaglia, dove non era possibile graduare sforzi e sacrifici, le tensioni e le riserve interiori dei combattenti non potevano non influire sul loro comportamento. […]
Ritorniamo, perciò, a quanto abbiamo già detto […]: il capitalismo italiano, consapevole del suo ruolo subordinato nello scontro mondiale, aveva rinunciato a dare alle forze armate nazionali gli stanziamenti e l’attenzione politica necessari per porle in grado per affrontare una guerra europea. Ciò non significa che le forze armate italiane avessero perso ogni possibilità di impiego; anche se non erano più considerate lo strumento fondamentale (o uno degli strumenti fondamentali) per l’affermazione della potenza nazionale, continuavano a avere un ruolo importante come strumento di stabilizzazione interna e di estrema difesa dell’assetto politico-sociale, come strumento di aggressione verso stati minori, anche come protagonisti secondari di un conflitto mondiale sul cui esito non potevano più realmente influire. Il problema dell’impreparazione bellica o dell’inferiorità delle forze armate italiane, in definitiva, è un falso problema, che distoglie l’attenzione dal problema centrale, cioè quale fosse il ruolo reale dell’Italia fascista nel conflitto mondiale e quale la parte delle forze armate nella politica fascista.
Non possiamo esaminare dettagliatamente tutte le affermazioni di Rochat e Massobrio, le quali, comunque, si muovono all’interno della prospettiva tradizionale antifascista e neomarxista: la guerra fu voluta da Mussolini per mere ragioni di potenza; la borghesia italiana non ci credeva, a causa dell’arretratezza complessiva del capitalismo italiano: pertanto, la sconfitta era inevitabile, così come due più due fra quattro. Eppure questo brano di prosa ha il merito di spostare l’attenzione dagli errori di Mussolini alle responsabilità della borghesia italiana, anche se non spinge l’analisi sino in fondo: non dice esplicitamente, cioè, che, come la classe senatoria e la gerarchia cattolica decisero, nella Roma del V secolo, di dissociare le loro sorti da quelle dell’Impero, calcolando che avrebbero potuto sopravvivere e conservare i loro interessi vitali anche sotto una dominazione barbarica, così la borghesia italiana, con la famiglia Agnelli in testa, decise di dissociare le proprie sorti da quelle del fascismo, che pure l’aveva favorita notevolmente (ma che, proprio nell’estate del 1943, minacciava di andare contro i suoi interessi: vedi il progetto di nazionalizzazione dell’industria, che precede il colpo di Stato del 25 luglio) e dell’Italia stessa, in quanto nazione indipendente e sovrana. Dunque, la borghesia non credeva né alla necessità della guerra, perché non ambiva a svolgere un ruolo egemonico a livello di politica mondiale, né alla possibilità di vincerla, anche perché temeva che un’egemonia tedesca in Europa non sarebbe stata preferibile a quella delle democrazie occidentali. In altre parole, essa pensò ed agi come classe dominante e non come classe dirigente: si preoccupò esclusivamente dei propri fini ed interessi, non di quelli della nazione. E questo fin da prima del 10 giugno 1940: fin dai tempi del riarmo tedesco, che innescò il riarmo generale in Europa, a partire dal 1933, ma rispetto al quale l’Italia rinunciò a mettersi al passo con le altre maggiori potenze, anche perché la borghesia non ritenne che il gioco valesse la candela. E questo ha a che fare, e parecchio, con la famosa, e tante volte sottolineata, impreparazione militare italiana, perché questa ne fu una logica conseguenza.
L’obiettivo del fascismo era diverso; era, come vide Giovanni Gentile, quello di fare il popolo italiano, completando l’opera del Risorgimento; e, nello steso tempo, assicurare all’Italia una posizione politica ed economica mondiale tale da garantirle una vera autonomia nei confronti delle altre potenze e della stessa finanza mondiale, specie dopo l’esperienza della grande crisi del 1929. Questo obiettivo, alla borghesia, non interessava, o interessava poco; semmai interessava alcuni settori più consapevoli della piccola borghesia e della classe lavoratrice. Quanto alla più tiepida partecipazione del popolo italiano alla guerra del 1940, rispetto a quella del 1915, la tesi di Rochat è tutta da dimostrare: al contrario, gli arruolamenti volontari furono più numerosi, né vi furono i fenomeni della renitenza alla leva e dell’autolesionismo, così frequenti, invece, nel 1915. I soldati italiani, in maggioranza di estrazione contadina e operaia, nel complesso si batterono bene, almeno fino alla campagna di Tunisia, terminata il 13 maggio 1943, e cioè fino a quando vi furono ragionevoli prospettive di vittoria; a non fare adeguatamente il loro dovere furono più spesso i comandi, e specialmente quelli della Regia Marina. Ecco perché il fante italiano, nonostante gli atti d’eroismo di El Alamein e di tante altre battaglie, non ebbe il riconoscimento e l’appoggio della cultura, durante e dopo la guerra: non ci fu, per celebrarne il valore, una canzone del Piave, non ci fu una sagra di santa Gorizia. Il capitalismo italiano, fin dalle prime sconfitte, aveva puntato su un altro cavallo: aveva deciso che sarebbe sopravvissuto e avrebbe conservato i propri interessi fondamentali anche senza il fascismo e anche senza una Italia forte e indipendente a livello mondiale. Ciò spiega, o aiuta a comprendere, anche la rapidissima rimozione, dopo il 1945, delle memorie di guerra e dei sacrifici dei soldati, degli aviatori e dei marinai: a meno, beninteso, che quelle esperienze, e quella memorialistica, fossero spendibili, negli anni seguenti, anche attraverso il cinema e la letteratura, in chiave di propaganda resistenziale e antifascista.
E il fascismo? Se esso ebbe la consapevolezza che la guerra del 1940 era il completamento del Risorgimento e che era di vitale importanza per la formazione della coscienza nazionale e dei futuri destini del Paese, fece realmente tutto il possibile perché tale consapevolezza divenisse popolare, e animasse lo spirito del popolo italiano durante quegli anni di durissimi sacrifici, come avvenne negli altri Paesi, a cominciare da quelli democratici? La risposta, senza dubbio, non può essere che negativa. Le ragioni possono essere state parecchie, e in questa sede non tenteremo neppure di indicarle; sta di fatto che in questa incapacità di trasformare la sua guerra in una guerra realmente nazionale, si deve riconoscere l’errore più clamoroso ed il limite intrinseco più grave, dell’intera esperienza politica fascista. Lo storico può solo prendere atto che, quando gli operai di Torino insorsero, nell’agosto del 1917, la risposta del governo Boselli era stata durissima, con morti, feriti e un migliaio di arresti; mentre agli scioperi delle fabbriche di Torino, Milano e Genova del marzo 1943 il regime fascista rispose con poche decine di arresti e una sorta di fatalismo e di rassegnazione, che lo rese assai più clemente di quanto non lo fosse stato il suo predecessore liberale.
E anche questo fatto deve essere motivo di riflessione storica, fuori dagli schemi preconfezionati e dalle facili semplificazioni della vulgata resistenziale e antifascista…
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